Ho conosciuto donne che si trovano molto brutte e donne che si trovano molto belle…donne che hanno paura d’essere troppo grasse e donne che hanno paura d’essere troppo magre…
Natalia Ginzburg, Discorso sulle donne, 1992
L’altro giorno, per fare un esperimento, ho deciso di ossessionarmi con il corpo.
Per cominciare, mi sono pesata dieci volte, in ore diverse.
E già questo è demente, perché qualunque medico, dietologo, nutrizionista, ti dice di pesarti una volta a settimana o due volte al mese, se tu ti mangi un piatto di zucchine, quelle sono piene di acqua, quindi il peso aumenta ma si tratta di un effetto che definisco qui ottico, anche se ottico, scientificamente, non è.
Ma ci siamo capiti.
Comunque già tenere sotto controllo il peso ti porta all’ossessione del corpo.
Poi sono andata sul sito di una modella che seguo.
Uno dice perché segui una modella.
La seguo perché lei ha lavorato per un servizio fotografico realizzato in un albergo di Parigi dove sono andata in vacanza, io ho visto il servizio, l’ho trovato suggestivo e ho cominciato a vedere lei chi era e che faceva.
Oggi, con i social, in particolare con Instagram, tu entri in una relazione diretta con le immagini della vita degli altri.
Allora, dicevo, sono andata sul suo sito e ho visto le sue misure.
Lei fa la modella, quindi la comunicazione delle sue misure corrisponde, mettiamo, al curriculum studiorum di una donna che esercita una professione intellettuale.
Ho visto le sue misure, sono andata a prendere il metro da sarta, quello a nastro, e le ho confrontate con le mie.
Lei è alta due centimetri più di me, quindi potevo ossessionarmi con un confronto senza fare troppi calcoli proporzionali.
La prima cosa che mi è venuta in mente è che lei ha dei piedoni.
Poi, che forse le misure sono false.
A vederla, lei sembra una pulpeuse, che si capisce che significa polposa, nel senso che è una che ha delle forme.
Invece, a giudicare dalle misure e a confrontarle con le mie, lei è una secca secca, che non si capisce come possa sembrare altro.
Ora, se solo io avessi voluto sul serio ossessionarmi col corpo, sarei caduta in un baratro, anzi, in un pozzo, per sfilare l’immagine che ricorre nel Discorso sulle donne di Natalia Ginzburg che ho citato in apertura.
Se avete letto Lessico famigliare (e se non lo avete letto, è ora che lo leggiate), avrete probabilmente riportato l’impressione di una certa dabbenaggine congenita nell’autrice.
La scrittura è squisitamente semplificata, lei racconta un universo che appare gioioso e singolare, in cui il quotidiano illumina la vita, incessantemente.
Invece, manco per niente.
Natalia Ginzburg, anche se sostiene di aver fatto recensioni teatrali che non funzionavano perché lei non vedeva mai i difetti della pièce, anche se prova a dare di sé una visione incantata, è in possesso di una ferocia che, a saper guardare, esce qua e là continuamente.
Figlia di un fisico maestro di tre premi Nobel e di una donna svagata ma nipote di un noto neuropsichiatra, Natalia è cresciuta fra intellettuali e gente di genio, ha sposato in prime nozze un antifascista e lo ha seguito al confino in Abruzzo con i figli piccoli.
Lui è morto in carcere per le torture subite dai tedeschi perché si rifiutò di collaborare e ho sentito io lei alla radio, in un’intervista dopo un sacco di anni, che ancora piangeva a dirotto parlando del suo Leone.
Aggiungo che Cesare Pavese, a Torino, frequentava casa sua in quanto amico di uno dei fratelli.
Che la sorella Paola ha sposato Adriano Olivetti.
Così, tanto per definire l’ambiente.
Dunque, questa donna che ho incontrato una volta a Palazzo Braschi qui a Roma quando lei era anziana e io ero una ragazzetta e che ho salutano con deferenza e simpatia, è in realtà da prendere con le molle.
Insomma, chissà se quello che dice lei delle donne è vero.
Ma che cosa dice lei delle donne?
Dice che loro «sono una stirpe disgraziata e infelice», che lei ne ha conosciute tante e che tutte hanno quella terribile tendenza alla malinconia che lei raffigura metaforicamente con la caduta nel pozzo.
Dice che le donne «cominciano nell’adolescenza a soffrire e a piangere in segreto nelle loro stanze, piangono per via del naso o della loro bocca o di qualche altra parte del loro corpo che trovano che non va bene», poi elenca altri motivi del pianto, l’amore, la paura di essere stupide, quella di annoiarsi in villeggiatura o di avere pochi vestiti.
Lei dice che sono comunque tutti pretesti.
Io dico che il corpo, comunque, nel pianto, rimane centrale.
E dico che le donne sono ossessionate dal corpo. E mi domando da sempre se questa sia una questione culturale, ovvero se una donna si chieda continuamente se piace per via del suo corpo, prima al papà, poi a tutti gli uomini del mondo, poi all’uomo che le interessa.
Il tempo dovrebbe portare una mutazione nel bersaglio che una donna vuole colpire, nel senso che se una donna adulta continua ad avere l’ossessione di piacere a tutti gli uomini che incontra, forse deve ragionare un attimo su questo suo desiderio.
Provate a parlare del suo corpo con una donna. Sarà come aprire una diga, le donne non vedono l’ora di lamentarsi di qualcosa, al punto che andare a cena con una donna significa parlare, oltre che, quando ci sono, di figli, prevalentemente di uomini, tutti distratti e cattivi quando non addirittura traditori, e di come lei si vede fisicamente.
In ciò, devo dire che in vita mia non ho mai sentito un uomo trovare i medesimi difetti in un corpo di donna che ci trova una donna.
E già questo mi sembra un dato interessante.
Natalia Ginzburg dice che gli uomini non provano la sofferenza sconfinata che provano le donne «forse perché sono più forti di salute o più in gamba a dimenticare se stessi e a identificarsi col lavoro che fanno, più sicuri di sé e più padroni del proprio corpo e della propria vita e più liberi».
Anch’io penso qualcosa di simile degli uomini.
Per esempio, penso che essi siano più liberi di quanto non sia libera io.
E questo pensiero è privo di fondamento. I maschi erano, tutti, a cominciare da mio fratello, più liberi di me quando io ero ragazza, perché, come spesso accade con le femmine, ero una sorvegliata speciale.
Praticamente la vita si svolgeva fra la sorveglianza cui ero sottoposta e i miei piani per eluderla.
In linea di massima, ci riuscivo, però ciò che mi mancava era proprio la possibilità mentale di fare quello che mi pareva e piaceva.
In questo, la morte precoce di mia madre fu una specie di liberazione.
Ricordo perfettamente questa sensazione che si mescolava con il dolore.
La morte non suscita mai un unico sentimento, del resto è un fatto, per quanto umanissimo, anzi, il più umano di tutti, talmente complesso, che non potrebbe essere diversamente.
Superata questa fase, però, la mia libertà non è stata mai messa in discussione da nessuno, quindi mi chiedo sempre da dove mi venga questa sensazione che un uomo possa, diversamente da me, andare dove gli pare e fare quello che vuole.
Avesse ragione Natalia.
Escludo che gli uomini siano più forti di salute delle donne, basta vedere la reazione di un maschio medio di fronte al termometro che segna 37,2.
Forse loro sono più in gamba a dimenticare se stessi.
E questa potrebbe essere una buona chiave per aprire quella porta.
Una delle donne che più mi stanno simpatiche al mondo è la ragazza del mio parrucchiere, diventata, col tempo, madre di due ragazzini. Da lei ho avuto e ho le indicazioni più sane e divertenti sull’educazione dei figli, con lei che tira su i suoi senza concessioni e senza vizi, con un infinito senso di protezione ma senza che loro se ne accorgano.
Per dirne una. Il più grande, che è andato quest’anno in prima media, da un pezzo si prepara la merenda da solo.
Anche con il coltello?
Certamente. Sa usare il coltello dei grandi e non fa danni.
Manuela, questo è il nome della ragazza, mi ha raccontato come si guarda lei allo specchio: molto rapidamente uscendo la mattina, pensa sto a posto e ha fatto.
Un abisso, di fronte al mio parrucchiere e ai dipendenti maschi, che si rimirano di continuo negli specchi.
E, da un parrucchiere, di specchi ce ne stanno proprio tanti.
Certo, gli uomini si identificano col lavoro che fanno.
Tutti?
Dall’avvocato penalista di successo, all’artista, al bidello dell’Accademia che fa le parole crociate e che si fa un selfie quando io lo saluto uscendo ed è costretto a tirare su gli occhi dal giornaletto.
E le donne non si identificano con la professione.
Natalia dice che «a un certo punto diventa deserto e noia e sazietà, di tutte quelle cose che si facevano prima con ardimento, scrivere e dipingere e politica e sport e diventa tutto cenere», sto lievemente manipolando il testo, ma il senso è quello e le virgolette sono esatte.
Gli uomini sono più padroni del loro corpo?
Durante gli ultimi esami, ragionavo con i miei studenti su uno slittamento semantico.
«Omo de panza omo de sostanza».
Dicevo che a me sembra che una mano stia dove sta una mano; che un ginocchio stia dove sta un ginocchio; un naso dove sta un naso.
Mi chiedevo come avevano fatto, storicamente, i maschi a spostare la pancia dove sta lo stomaco.
Hanno la pancia le donne incinte, per motivi evidenti.
Gli uomini si sono fatti venire la pancia perché mangiano, ma l’hanno spostata in alto, e non di poco.
Una volta sono andata da un’amica medico e le ho detto adesso tu devi spiegarmi come è possibile ingurgitare tutto quel cibo. E lei, con tono professorale, mi ha spiegato che lo stomaco è elastico e che quindi si allarga e si restringe a seconda di quello che ci mettiamo dentro.
Comunque, il colpo gobbo degli uomini in questo senso è geniale.
Quando succede alle donne, esse si parano di abiti/tenda da spiaggia. Come una volta mi suggerì una collega: non indagare quello che c’è sotto.
Credo che una donna debba avere cura del proprio corpo.
La mia idea che essa debba mantenere il medesimo peso dall’età adulta alla tomba è stata quasi sempre accolta con ilarità.
Allora ho chiesto al mio ginecologo, che mi ha risposto che tutto il cambiamento dipende da quelle fette di torta che consolano in una mattina di disorientamento.
Una volta sono intervenuta d’autorità in una zuffa fra due mie studentesse, fra l’altro esplosa durante una lezione di Storia della moda nella quale analizzavo le variazioni che l’idea di seno aveva subito nel corso dei secoli.
Alla compagna di corso che si lamentava di una seconda misura, che a me sembra elegante e più che sufficiente per stare al mondo, l’altra opponeva l’orgoglio di un busto che definire prosperoso era sminuirlo.
Ho chiesto loro se erano sceme.
Ho detto fatela finita subito.
Ho detto se non la fate finita subito, vi sbatto tutte e due fuori all’aula, non vi ammetto agli esami e poi andate pure a lamentarvi con il Direttore.
Ho sottolineato che stavamo parlando d’altro.
Ho ricordato che ogni corpo è diverso e che non si sommano le mele con le pere, quindi, bisogna mantenere vivo il gusto della differenza.
Ho messo in evidenza l’indelicatezza di chi si vanta di avere qualcosa a scapito di quello che ha altro.
Visto che una era tetragona a qualunque ragionamento e che l’altra era sull’orlo delle lacrime, presa da compassione per tanta sincerità, anche se fuori luogo in quel contesto, mica stavamo in un gruppo di ascolto sul corpo, stavamo in un’Accademia di Belle Arti, ho tagliato corto e ho detto a quella piangente che si sarebbe comunque potuta fare operare.
E che un seno piccolo dura più di uno pesante, tu pensa solo alla forza di gravità e ai suoi effetti.
Uscii dalla lezione con le mani nei capelli, messa violentemente di fronte all’idea che le donne hanno del loro corpo: un dispositivo di conquista del e di sfida al mondo; un mezzo di sopraffazione spiccia; uno strumento di offesa; un’arma impropria.
Tutto questo tanto per avviare un discorso.
E siano rese grazie a Natalia, che con coraggio l’ha aperto.