Per i miei gusti, ha troppi figli.
Che volete farci, faccio fatica a trovare qualcosa di simile al sex appeal in un padre di famiglia.
Per i miei gusti, ha pure troppi tatuaggi. Perché questo bell’uomo si sia massacrato il corpo come un carcerato di Alcatraz o un marinaio di quelli che vedono una donna ogni otto mesi e mezzo, mi sfugge.
Comunque, i tatuaggi li porta bene, nonostante questa rete di segni che lo ricopre ‘quasi’ dappertutto, conserva una sua purezza.
Che è poi la sua dote principale: lui è toccato dal candore.
Ed è anche toccato dall’eleganza.
Certo, con uno così i conti non tornano. Sulla carta, se uno dice questo fa il calciatore, è sposato con una che faceva la cantante in un gruppetto, diciamocelo, impresentabile, è tatuato pure sul collo, lo trovi facile facile formato manifesto in mutande sul retro di un autobus (e ammetto che una volta ho pure tamponato perché mi ero distratta guardandolo), ecco, se uno fa quest’elenco, deduce semplicemente che non se ne parla.
Invece, io di Beckham vi parlo.
Perché lui e la sua signora sono arrivati dove sono arrivati. E guardate che non sto parlando di denaro, a me il denaro interessa relativamente, cioè, mi interessa moltissimo ma solo in senso strumentale, mai sono mossa da uno stato d’animo di ammirazione nei confronti di chi ne ha accumulato molto. A me interessa il talento. Poi, è vero che se hai talento, puoi fare denaro, laddove l’opposto è altamente improbabile.
Tutto è cominciato con un simpatico articolo di una blogueuse che seguo: Géraldine Dormoy porge le sue scuse a Victoria Beckham, arrivata al suo decimo anno di attività come fashion designer, per averla considerata un’opportunista che non aveva niente di meglio da fare, per aver pensato che una conciata come si conciava lei fosse del tutto inappropriata a parlare di abiti, per averla snobbata e per non aver capito che lo stile ha bisogno di tempo per maturare. E che lei, si vede benissimo, è maturata.
Come possa una Spice Girl essere approdata a un «look signature nel medesimo tempo confortevole e elegante, facilmente riconoscibile -camicia ampia, pantalone loose, pochette- e declinato in tutte le associazioni di colori sottili», non si sa. Ovvero si sa: perché Victoria ha talento.
A me sembra di aver capito che una delle poche regole che trovi nell’esistenza è che essa è cambiamento, tutto si muove, ti fermi quando sei morto. Ora, in quest’ottica è anche vero che non si capisce perché ci sono persone che, invece, non cambiano mai, quelli che non sanno l’inglese e che non se lo sono mai studiato; quelli che in età adulta continuano a fare i pasticci che facevano da ragazzi; quelli che non hanno mai migliorato la loro situazione lavorativa della quale si lamentano da 10 anni; mai lasciato la moglie che non sopportano da un pezzo; mai deciso di fare finalmente quel viaggio; mai letto quel libro che volevano leggere; mai visto quel film dal quale sarebbe dipeso un cambiamento radicale del proprio modo di vedere il mondo.
D’accordo, c’è un sacco di gente che non si muove, e, allora, diciamo, come diceva un mio studente di altri studenti, che quella è gente morta.
E occupiamoci dei vivi, che si muovono. Che, quindi, cambiano, tirano fuori cose che, evidentemente, da qualche parte stavano, perché, come è noto, il sangue da una rapa non si cava, quindi la partita si gioca esattamente su questo: tirare fuori quello che uno ha dentro.
E questi due avevano dentro cose interessanti.
Ma torniamo al nostro uomo.
Mi occupo di calcio poco o niente, è un gioco che, però, trovo virile e diffido degli uomini che non lo seguono (come diffido degli uomini che non hanno la patente).
Mi interessano i calciatori in senso antropologico. Sono giovani capaci di fare bene, talvolta molto bene qualcosa e che quasi di botto sono lanciati in una carriera che, per quanto in possesso di una letteratura, nel senso di esperienza e di modelli con i quali ci si confronta, si capisce facilmente che può travolgerli.
Un paio di giorni fa mi diceva un tecnico che era venuto a riparare un guasto della mia linea telefonica che lui da ragazzino avrebbe voluto fare il calciatore. Questo è un sogno, quasi sempre insensato, nel senso che poi si vede subito se fai carriera o no, qui non stiamo parlando dello scrittore, dell’artista o del poeta che per uscir fuori hanno bisogno di trovare la situazione adatta.
Se un ragazzino è dotato, se ne accorgono tutti appena, da pupetto, mette il piedino, e mi hanno spiegato pure come un certo numero di volte, sulla palletta di pezza.
Il tecnico era uscito deluso dall’adolescenza, aveva cominciato a lavorare a 20 anni, ne ha oggi 25, è diventato un po’ amaro e un po’ rassegnato. Sul peso mettiamo pure la tara di un discorso complesso, stavamo aspettando che richiamassero dalla centrale per la configurazione della borchia e gli ho fatto delle domande alle quali avrebbe fatto fatica a rispondere anche la creatura più smaliziata, che vuoi dalla vita e che vuoi fare di te stesso.
Giocava a pallone con gli amici, calcetto e calciotto, una volta a settimana, senza nemmeno avere il tempo di allenarsi.
Insomma, se passi dal sogno dello stadio con il tuo nome sullo striscione a un simpatico esercizio settimanale in un campetto affittato alla bisogna, lo capisco, che poi sei triste. Però la prima regola esistenziale è partire da quello che c’è: io vorrei tanto cantare le arie della Regina della Notte su un palcoscenico internazionale e con un pubblico in delirio, ma per fare una cosa del genere, ti serve, tanto per cominciare, la voce. Poi parecchio altro. Non arrivano persone che la voce ce l’hanno, casomai per motivi collaterali (i motivi collaterali sono come i danni, insidiosi e importanti), per esempio c’è gente che ha paura dell’aereo, quindi ha preso la decisione di cantare nel coro della sua città e di non intraprendere la carriera da solista.
Figuriamoci dove vai se ti manca il talento di base: da nessuna parte.
In quest’ottica è interessante vedere dove sono arrivati quelli che al talento di base hanno aggiunto tutto il resto.
Beckham è sempre stato adorabile. In tanti mi dicono che come calciatore è pulito ma non è magico, però ha intrapreso una carriera parallela, fra l’altro molto urbana e moderna, per cui ha fatto cose diverse, la più eccellente delle quali è aver posato per Sam Taylor-Wood in un video che dura più di un’ora in cui lui dorme.
Ne abbiamo parlato più di una volta, quindi non mi dilungo, e chi mi segue sa che se faccio una lezione su qualche David, che so, Donatello, Michelangelo, Bernini, ci metto sempre pure lui. Che è metrosessuale e che è sempre un gran piacere per gli occhi.
Come ho già sottolineato, non russa, non grugnisce, è probabile che non si tiri pure tutte le coperte dalla sua parte come fanno certi uomini.
Certi uomini a letto sono preoccupanti.
Lui, no.
Lui, anche in queste circostanze, sembra adorabile.
Nonostante i tatuaggi e nonostante il numero spropositato di figli.
E quella del video di Sam Taylor-Wood, insomma, l’opera d’arte, è la mia versione preferita di Beckham: ovvero il modello Real Madrid, brillanti alle orecchie e ciuccetti o coda di cavallo. Insomma, questa.
Ho smesso di occuparmi dell’argomento dopo aver insegnato per otto anni Storia della moda in parallelo alla mia Storia dell’arte.
Ho smesso felicemente, non mi piaceva più, volevo liberarmi di quella cosa saturnina e instabile.
Non mi divertivo più.
L’esperienza è stata bella ma è finita e sono passata ad altro.
Quindi, mi occupo solo di striscio dei 10 anni dell’azienda Victoria.
In questa limpida e ancora calda domenica di settembre, in attesa di lanciare su questo mio blog la serie di articoli dedicati al lavoro importante che sto facendo, ovvero di raccontarvi i miei sentimenti di questi ultimi mesi, mi ritaglio lo spazio giocoso del divertissement.
Come sanno le cinque persone che frequentano casa mia (è vero, sono la donna meno ospitale che ci sia sulla faccia della terra, se devo scusarmene, mi scuso, ma pure questa è una di quelle cose da prendere come punto di partenza: per andare poi da un’altra parte), sul moodboard del mio ingresso, accanto a un particolare della sublime Madonna di Bruges di Michelangelo, c’è una bella foto di Beckham, ovviamente versione Real Madrid.
Sta lì da parecchio e non ho nessuna intenzione di toglierla.
La tolgo quando non lo trovo più sexy, quando mi scoccio, quando finisce il mito, quando quello che c’è scritto sotto, Follow me to Madrid, non mi fa più sorridere.
Fra l’altro a me Madrid, a parte Velázquez, Goya e Guernica (pure Zurbarán comunque non è male), manco piace, quindi non stiamo parlando di una delle città della mia anima.
La sera mangiano troppo tardi.
Mi viene ogni tanto da pensare se pure lui, da buon inglese, quando ha giocato lì, si è trovato a disagio per questo décalage orario, per me una specie di incubo, una città insonne, che non si capisce come faccia ad alzarsi presto la mattina.
Ecco, forse ho trovato la chiave. Beckham è inglese e dagli inglesi mi aspetto di tutto: la rottura degli schemi in una situazione di tradizione intoccabile; la capacità di proiettarsi oltre le regole; l’ironia, sempre un po’ astratta e per capire la quale devi metterti nei loro panni; la voglia di avventura che ha contrassegnato tutta la loro storia; la conquista, medesimo discorso; il gusto di starsene fuori dal mondo pensando di esserne al centro («Nebbia sulla Manica. Isolato il Continente»); una certa bellezza fisica degli uomini, così diversi da quelli nostri.
E poi il calcio l’hanno inventato loro, no?