Gli uomini sono come i cerotti.
Non nel senso che pensate voi, figuriamoci se un uomo ti protegge una ferita, di solito te la procura.
Gli uomini sono come i cerotti in un altro senso.
Allora vado in farmacia e chiedo alla dottoressa una confezione di cerotti.
Normali, sottolineo, come quella sottolineava se.
La dottoressa mi guarda con aria perplessa. No, sul serio, tu non puoi: tu sai quanti psicofarmaci si mette la gente in corpo per provare a vivere; tu conosci la soluzione fisiologica per lavarsi il naso e la taglia dei profilattici; tu sei al corrente del fatto che i gatti hanno le pulci e i ragazzini le tonsille, che torturano tutta la famiglia fino a che un medico non decide di toglierle.
Tu non puoi non sapere che significa normale.
Mi propone allora due confezioni. Tutte e due con l’assortimento.
Ma io l’assortimento non lo voglio, voglio dei cerotti semplici, non so che farmene di quello enorme, tipo quando esci dalla sala operatoria, e di quello circolare, ma ti pare a te che mi appiccico sulla faccia una cosa del genere.
Piuttosto, sto chiusa in casa tre giorni, fino a che non sono di nuovo presentabile.
Oltre all’assortimento, inutile, c’è anche il tipo.
C’è quello impermeabile, che non si stacca manco con l’acqua bollente (sto parlando dei cerotti). Tu te lo attacchi sul taglietto che hai sul dito anulare della mano sinistra e quello resta lì.
Ti telefona, cioè, tutti i giorni alle 12:57 per «farti un salutino», e poi ti telefona altre quattro volte, ma nemmeno oggi riesci a liberarti per un aperitivo (sto parlando degli uomini).
L’asfissia.
Una volta che uno (una) si toglie il cerotto e guarda che cosa c’è sotto, la pelle appare tutta bianca e piena di piegoline, è evidente che da un po’ non respira.
Ma per carità.
Ci sono poi i cerotti, anche quelli assortiti, fatti di garza leggera, superassorbente, se lo dice da sola, adesivo ipoallergico eccetera.
Quasi perfetti, uno (una) se lo applica sul taglietto e dice adesso va bene, è leggero, protettivo, sta qui finché non mi sono rimarginata a fondo.
E invece no, manco per niente. Quello si stacca subito, dura lo spazio di un pasto: nel caso di un cerotto, la colazione. Nel caso di un uomo, la cena.
Fragile, incapace di essere all’altezza, il cerotto spiegazzato finisce al secchio e uno (una) lascia il taglietto all’aria, speriamo che guarisca.
Ma faccio digressioni e non va bene.
L’idea era di parlare dell’uomo-vacanza, e, nel caso, della sua prima incarnazione: l’uomo-mare.
Torniamo, dunque, al nostro argomento.
La prima cosa da dire è che le donne, una volta di più, si sono date la zappa sui piedi o, se preferite, il martello sui denti. Sto sostenendo che tutto l’immaginario erotico del mare è praticamente appannaggio dei maschi.
Che si sono inventati le sirene, da Omero con Ulisse in poi, con una tappa sostanziale con la Sirenetta della favola di Andersen.
Che fa la poveretta? Rinuncia per amore alla sua magnifica voce, ai capelli e pure alla coda: pur di avere in cambio un paio di gambe. Posso capirla, che c’entra, ma da qui ad assistere al matrimonio del suo amato principe con un’altra, ce ne vuole.
Insomma, uno di quei casi in cui le chimere maschili prendono corpo. E fanno danni.
Vi mostro la statua della Sirenetta, Den lille Havfrue (1913), di Edvard Eriksen che sta a Copenhagen, appena dopo la riva.
Da lei non si scappa.
E nemmeno dal mito, tutto virile, della sirena. Il cui opposto e complementare è il tritone.
Ora. Chi ha realizzato in arte il tritone più bello di tutti i tempi?
Un uomo.
Gian Lorenzo Bernini, nella magnifica fontana di piazza Barberini, narra il mito del dio marino figlio di Poseidone e di Anfitrite.
Uno spettacolo realizzato per Urbano VIII, che unisce elementi naturalistici e antropomorfi, con una vasca molto bassa dalla quale si staccano quattro delfini con le api barberiniane. Sollevano con la coda una conchiglia sulla quale poggia un tritone che manda verso il cielo uno zampillo d’acqua.
Che meraviglia.
Ora, io, con queste creature mezzo uomo e mezzo animale, ho sempre qualche interrogativo.
Quello che mi chiedo è come stanno sistemate, diciamo così, anatomicamente.
Nessun problema per il Minotauro, che di animale ha solo la testa, mentre tutto il resto, mi par di vedere, è normale (un po’ come i cerotti).
Ci sto pure per Pan, il dio delle montagne e della vita agreste, giustamente compagno di Dioniso, con corna e piedi caprini. Ma tutto il resto, si capisce benissimo, regolare.
Dunque, a parte le corna e gli zoccoli, non semplici da gestire, pensate solo ad averli in macchina, quanto ingombro, Pan, dicevo, molto acceso nella sua relazione con gli esseri di genere femminile, quando si accoppia con la capra, lo fa teneramente, voltandola sulla schiena e tenendola per la barbetta.
Il mio gruppo scultoreo prediletto all’interno del Museo di Napoli, eccovelo, non c’è niente di più godibile al mondo quando si parla di desiderio.
Con i Centauri, poi, ci si va a nozze.
E proprio di nozze racconta Fidia nelle metope del suo Partenone quando accadde che i Lapiti, abitanti della Tessaglia, in linea di massima pacifici, celebrarono le nozze del loro re Piritoo con Ippodamia, facendosi venire l’idea di invitare pure i Centauri.
(Anche loro, come i satiri, forniti di zoccoli; e la coda è pure più lunga)
Il problema è che essi erano «brutali, lascivi e amanti del vino» (suggerisco, visto la derivazione diretta, di stare attenti ai Sagittari, ogni tanto capita di incontrarne uno).
E allora, il capo della combriccola, Eurito, assalì nientemeno che la sposa.
Andiamo, su, come si fa, ti invitano a nozze e tu fai una cosa del genere.
Insomma: lotta a suon di calici, coppe, tavoli, corna di cervo, sangue e cervella che schizzano da tutte le parti.
In breve. I Centauri alla fine vengono cacciati, dimostrando così la vittoria della civiltà sulle barbarie.
E noi ci ritroviamo con questa meraviglia di sculture superclassiche, e con una brutta concezione dei Centauri.
Ma non tutti appartenevano a questa categoria. Per esempio Chirone, il precettore di Achille, era un grande sapiente. Ve lo mostro in un dipinto settecentesco mentre insegna al suo pupillo a tirare con l’arco.
D’accordo, vedo anch’io che nell’opera c’è qualcosa che i francesi definiscono morbide, comunque non so che farci, questi erano fatti così.
Ma dove eravamo rimasti?
Ai tritoni.
E i tritoni, come sono combinati, si diceva, anatomicamente?
Da un po’ si è fatta strada nella mia mente un’ipotesi, un’idea tipo la lampo dei blue jeans o, talvolta, i bottoni, per cui uno (una), al bisogno, si focalizza sul davanti della codona e tira giù, o slaccia, la chiusura.
Scoprendo così i gioielli di famiglia, insomma: le meraviglie del mare.
L’artista che più di ogni altro ha investigato questa gente è il tedesco Arnold Böcklin, sì, sì, quello dell’Isola dei morti, ben quattro versioni.
Ma anche quello che deve aver attraversato le Alpi a piedi per venire in Italia in una specie di delirio, giungendo al culmine del Mezzogiorno, quello nostro, incendiato di boschi e di avventura.
Ebbene, Böcklin indaga le relazioni fra Tritoni e Nereidi incessantemente, qui sembra addirittura che abbia scoperto il trucco della chiusura lampo.
Ma, si capisce, ho preso gusto a dipanare la matassa, insomma, mi sono attardata nell’introdurre il tema dell’uomo-mare.
E, per il momento, è ora di chiudere.
Ma ho in serbo per voi cose e cosette.
Per esempio, nella prossima puntata della nostra serie estiva dedicata all’uomo-vacanza, affronterò il tema del pescatore, quello nella rete del quale ogni donna vorrebbe ritrovarsi prigioniera.
E non venite a dirmi che non è vero.
Anticipo qui un video tratto da un mio film culto di tutte le estati. Meno scemo di quanto non sembra a una prima occhiata, anzi, non scemo per niente.
Il titolo è Il suo nome è Donna Rosa ed è del 1969.
Come si intuisce, tutto il cosiddetto plot mi riguarda da vicino: una cosa deliziosa, tutta girata fra Capri e Napoli, in cui il fil rouge è costituito da donne di età diverse che si chiamano tutte, più o meno, come me.
Nel senso che io, più o meno, mi chiamo come loro.
Una cosa irresistibile, che posseggo in versione dvd, che d’inverno sta lì e dorme ma che d’estate, complice il caldo, gli odori, i sapori estivi e tutto il resto, vedo almeno ogni venti giorni circa.
Perché? Perché mi diverte, mi distrae, perché d’estate si può pure essere un po’ scemi, perché qui, in questa incarnazione dell’uomo-vacanza da parte di quel signore che assomiglia tanto a Schubert ma che si chiama Al Bano, quasi come uno dei Castelli Romani, c’è un po’ il succo della mia ricerca: l’andare a indagare di che cosa abbiamo bisogno in questa stagione, insulsa, insopportabile per quanto è cretina, una stagione che porta tutto a fior di pelle: nervi, pensieri, ricordi e sentimenti.
E che è bene allacciare a una canzone, fosse pure una di quelle che susciteranno in noi un lieve, educato ed elegante imbarazzo ai primi freddi.
Figuriamoci che cosa ci suscitano dopo qualche anno.
Ma ne torniamo a parlare presto.
Dunque, abbiate pazienza e guardatevi intorno, soprattutto se avete trovato qualche scoglio sul vostro cammino.
Gli scogli, quelli, non mancano mai.
E forse diventano anche, fra le tante cose, il gusto del viaggio.