A misura d’uomo. Una volta curo un corso propedeutico in Accademia e mi rendo conto che la misura delle scarpe è un dato privato, intimo, tu conosci che numero indossano solo le persone che ti stanno accanto.
Per non parlare dei bambini che crescono e che vedono il numero di scarpina aumentare continuamente.
Così in aula, quel giorno, per cominciare la lezione, cambio il nome a tutti, a cominciare da me stessa.
«Buongiorno, sono la Prof. 37».
E chiedo agli studenti di presentarsi.
Dunque, ecco il Signor 41, che sedeva accanto al Signor 43 e al Signor 44.
C’era poi la Signorina 38, come c’era la Signorina 42, che era una ragazzona, però mai avrei pensato che arrivasse a tanto.
Pure l’interprete cinese era una ragazzona, ma era la Signorina 35 e alla fine le ho dovuto chiedere se da piccola le erano stati fasciati i piedini, visto che la cosa mi sembrava astrusa.
Mi ha detto di no, però non è che mi abbia convinta.
Con l’esclusione dei maschi che svettano oltre il metro e novanta, che di solito calzano delle valigie, anche perché, in caso contrario, non potrebbero reggersi in piedi, l’altro dato che venne confermato quella mattina era che non c’era nessun nesso fra l’altezza e il numero di scarpe.
Insomma, trovate uomini che stanno sul metro e ottanta e che calzano il 41, laddove uomini alti quattro centimetri in meno indossano il 43.
Al punto che da un pezzo penso maliziosamente che nei maschi il numero di scarpa corrisponda ad altro.
Questa mia teoria nel tempo ha praticamente sempre trovato conferma, ma me la sono tenuta per me.
Adesso, d’accordo, la sto rendendo pubblica, per cui, se siete uomini e mi state leggendo, sappiate che quella signora o signorina che, nell’ambito di una conversazione ordinaria, vi domanda con il suo più bel sorriso «Che numero di scarpe porti?», non ve lo chiede perché ha intenzione di andare da Schostal e di scegliere per voi dei calzini in filo di Scozia per farvi un regalo, acquistando per voi, se calzate il 43, la misura 11½.
La signora o signorina è un’impertinente e vi sta chiedendo altro.
Io vi ho messo in guardia.
In tutto questo, naturalmente nessuno dalle nostre parti si occupa mai del numero di scarpe di una donna. Io, che pure durante l’adolescenza mi sono vista misurare le caviglie per controllare come stavo venendo su, non ho mai sentito parlare della necessità di avere un piede aggraziato e piccolo.
Si dà per scontato, manco vale la pena parlarne.
Intermezzo, 1. Ho conosciuto una sarta che si chiamava Misura.
Un po’ come l’economista che si chiama Tabellini.
Gente destinata a misurare e a contare.
La taglia della maglia. A seguire un blog ben fatto, c’è sempre da arricchirsi. La mia blogeuse di più antica data ha una scrittura bellissima, semplice, limpida, meditata, un cocktail difficile da replicare.
L’ho conosciuta tempo fa per una sua rubrica che amavo molto.
Si intitolava Les films bien sapés , che, tradotto, significa I film ben conciati.
Lei vedeva dei film, nel modo più normale possibile, inserendo un dvd nel lettore, scattava delle fotografie con la macchina fotografica e poi ragionava su come erano vestiti i personaggi.
Questo suo sguardo mi ha accompagnata per tutti gli otto anni che ho insegnato Storia della moda, aprendomi gli occhi.
Lei a un certo punto è stata chiamata a lavorare a L’Express, un settimanale di attualità e politica molto diffuso in Francia, dove lei vive.
Al giornale ha continuato a occuparsi dei suoi argomenti.
Sono successe mille cose, come sempre accade quando si vive: si è sposata, ha avuto un figlio, lo scorso anno si è ammalata e ha raccontato per filo e per segno la sua esperienza.
Seguire un blog del genere del suo significa entrare nella vita di una persona, facendone parte.
L’estate scorsa lei ha fatto sapere che doveva mantenere il segreto ancora per un po’ ma che lasciava L’Express dopo dieci anni.
E da pochi giorni abbiamo saputo che è andata a fare la plume invitée, ovvero la penna invitata, presso un’azienda che lei ha sempre molto stimato e indagato.
Se volete sapere in che cosa consiste il lavoro di plume, casomai fra un po’ ve lo dico, quando lo avrò capito meglio io, però si intuisce che lei si occuperà di scrivere e di interpretare l’orientamento di questa «marca impegnata per una moda durevole & solidale».
Un lavoro che a me sembra nuovissimo e molto nell’aria del tempo, quindi tutto da seguire.
La prima cosa che ho fatto quando ho letto la notizia è stata comprarmi una maglia sull’e-shop della marca.
Mi sono messa lì e ho cercato di capire le misure.
La mia scelta era indossata da una modella un po’ più alta di me, però esile esile. Quindi ho pensato che la medesima S mi andasse bene. E le istruzioni dicevano prendete la vostra taglia consueta.
Dopo un paio di giorni mi è arrivata una bellissima scatola, con dentro la mia maglia, tutta avvolta nella carta velina, e un paio di doni: una tote bag di velluto a coste di un rosa magnifico e un piccolo foulard di cotone disegnato da un artista.
Nel caso al mio garage avessero avuto dubbi sul destinatario, sulla scatola era applicato un adesivo con il mio nome e il loro Bonjour.
Il diavolo, ma pure il cuore, sta nei dettagli.
La maglia, però, mi stava grande. Come fosse possibile, non lo so.
L’ho messa nel cellophane, ho comprato dai cinesi una busta con le bolle, ho attaccato sopra l’etichetta che loro avevano messo nella scatola e che serviva in caso di restituzione e, uscendo dall’Accademia, sono andata alle Poste di piazza San Silvestro.
Non ho dovuto nemmeno pagare la spedizione.
Dopo due giorni una mail mi diceva che ero stata rimborsata, completamente, nel senso che al costo della maglia era stato aggiunto quello dell’invio in partenza.
La sera stessa sono tornata sul sito e mi sono comprata un altro golf, loro lo chiamano gilet, ma io lo definirei cardigan, proprio come quell’altro. Insomma, si tratta di golfini aperti davanti con dei bottoncini di madreperla.
Dal rosa sono passata al nero, gira gira, io lì ritorno.
Dalla S sono passata all’XS.
Mi sono detta se è piccolo, lo rispedisco, è talmente facile.
La nuova scatola è arrivata ieri.
Bonjour.
Chiacchiere con il garagista, scale, bottiglia aperta perché era ora dell’aperitivo, calice portato in camera da letto.
Cerimonia dell’apertura.
Il Gilet Gaspard, la più iconique delle loro maglie, ovvero il loro vero cavallo di battaglia, mi stava perfetto.
E meno male, perché vista la facilità dell’ordina/ricevi/indossa/restituisci, mi è anche venuto in mente che avrei potuto ordinare e provare tutta la collezione d’autunno.
Gli acquisti in internet mi divertono moltissimo, ho solo dei problemi di taglia, nel senso che non puoi mai essere certo della tua.
Però in questo caso il problema non è mio, bensì delle donne più esili e piccolette di me, che ho pure un bel paio di spalle che da qualche parte devo pur infilare.
Se io indosso una XS, a loro che cosa resta?
Intermezzo, 2. Primo Levi, nel suo Il sistema periodico, mette in relazione le persone e i fatti con gli elementi chimici. Chimico lui stesso, è un filologo attento e nel racconto Cromo scrive:
«A questo punto io feci osservare che tutti i linguaggi sono pieni di immagini e metafore la cui origine si va perdendo, insieme con l’arte da cui sono state attinte: decaduta l’equitazione al rango di sport costoso, sono ormai inintelligibili, e suonano strambe, le espressioni “ventre a terra” e “mordere il freno”; scomparsi i mulini a pietre sovrapposte, dette anche palmenti, in cui per secoli si era macinato il grano (e le vernici), ha perso ogni riferimento la frase “macinare” o “mangiare a quattro palmenti”, che tuttavia viene ancora meccanicamente ripetuta. Allo stesso modo, poiché anche la Natura è conservatrice, portiamo nel coccige quanto resta di una coda scomparsa».
Finalmente ho capito come mangiano le persone che mangiano a quattro palmenti: ingoiando cibo come se fossero macchine per macinarlo.
Fra sospetti e sentimento. Un giorno trovo su FB questa definizione: coppino, unità di misura che va a sentimento.
Mi metto quindi a riflettere sui modi di dire che riguardano la misurazione e mi ricordo che un collega che aveva insegnato a Macerata, quindi, nelle Marche, mi aveva raccontato che una sera gli offrirono a tavola un sospetto di vino.
Confeziono un post e comincia un confronto. Dal quale apprendo che un nonno amato e nato in Lucania a tavola chiedeva spesso giusto un sentimento di vino o di una portata. Che in Friuli si usa la parola bastanza, che si intuisce bene che cosa significa. Che a Napoli a uosemo significa a sensazione e che in italiano corrisponde a quel q. b., quanto basta, incubo di tutti i cuochi alle prime armi. Un’amica cita la cofana di spaghetti, essendo la cofana la calderella dei muratori, che, si sa, a pranzo si nutrono adeguatamente.
Da sola non sarei mai riuscita ad arrivare a tutto questo.
Quando si dice, l’intelligenza collettiva.
Intermezzo, 3. Fare due pesi e due misure. Comportamento molto umano che a me sembra normale, tutti abbiamo delle preferenze. Chissà perché se la prendono tutti tanto quando ci si trovano davanti.
La ricetta. Artusi, il Cavour della cucina, quello che vuole costruire una gastronomia unita e borghese, per le sue bellissime ricette, tutte raccontate come delle vere e proprie storie, usa termini tecnici precisi, grammi e litri, con i loro multipli e sottomultipli e numeri.
Però poi parla anche di odore (di zucchero vanigliato, di scorza di limone o di arancio, arrivando anche a scrivere a chi piace oppure che più aggradite e, per il limone, la scorza talvolta è grattata); di pizzico (di sale); di cucchiaio (di olio) e di cucchiaiate (di acqua diaccia), che certe volte sono colme (per il parmigiano grattato); di presa (di bicarbonato di soda); di palla (di tartufi neri di circa grammi 30).
Quando non aggiunge nell’elenco alcune foglie (di prezzemolo).
Certe volte scrive l’enigmatico q. b.
Arrivano anche le anime tolte dai noccioli delle medesime, e sta parlando di pesche.
E il limone talvolta è di giardino.
Pura poesia.
Non so quante volte ho letto la sua Scienza in cucina avendo realizzato sì e no solo un paio di ricette.
Ma la ricetta che tutte le altre racchiude nel senso dell’amore per chi la si prepara è già passata dalle nostre parti, per la precisione quando, qui, abbiamo parlato di stracci.
Ve la ripropongo in una versione più corta.
Pelle d’asino, invitata a confezione una torta per il principe, prende il suo grande libro di cucina, indossa l’abito principesco color del sole, lascia perdere la Galette des Rois, che evidentemente non le sembra abbastanza, e arriva al cake d’amour.
Pure il film l’ho visto molte volte, ma solo da quando ragiono sui modi di definire i pesi e le misure mi sono accorta di come lei indica le dosi.
Eccovele:
4 mani ben pesate di farina fine
4 uova fresche deposte al mattino
Una tazza intera di latte ben cremoso
Zucchero da spargere
Una mano di burro fine
Un soffio di lievito
Una lacrima di miele
Un sospetto di sale
E ora, sto parlando con le signore e con le signorine, fate scivolare nell’impasto un dono per il vostro innamorato, accompagnato da un souhait , ovvero da un desiderio d’amore.
Sono sconsigliati i calzini, che rovinerebbero la compostezza del cake, che intanto riposa.
Meglio, come fa Pelle d’asino, un anello.
La vostra creazione deve stare in forno un’ora.
Durante la quale voi potete cominciare a fare progetti, perché nessun uomo resisterà a questa sinfonia di mani, tazze, soffi, lacrime e sospetti, come a dire a una proposta amorosa di peso e smisuratamente allettante.