Tre volte di fila, beh
Sei sicura che quello che ho preso era solo aspirina, seh
La notte continua…
(Simonetta, Lucia, D’Amico, De Marinis, «Mille», 2021)
Mangiare cibo sano.
Mangio cibo sano.
Non fumare.
Non fumo.
Non bere caffè.
Non bevo caffè.
Non prendere il sole.
Non prendo il sole e uso tutto l’anno un filtro solare, totale per il viso. In estate, uso un filtro in tutte le parti del corpo esposte.
Dormire almeno otto ore.
Dormo otto ore a notte e in questo periodo mi capita di dormirne un altro paio il pomeriggio.
Struccarsi sempre prima di andare a dormire.
Mi strucco sempre prima di andare a dormire, praticamente mi capiterà una o due volte l’anno di andare a dormire senza struccarmi.
Non bere alcolici.
Bevo alcolici.
Quindi è probabile che tutto il resto sia vanificato dall’alcol, però, come ho letto da qualche parte, «alle domande serie, certe volte è meglio dare risposte etiliche».
Naturalmente l’elenco di ciò che bisogna fare per avere una bella pelle interessa solo le donne, quindi gli uomini possono pure fumare e prendere il sole e fare tutto il resto.
Perché a loro le rughe stanno bene, fanno vissuto e esperienza.
E le donne ancora stanno lì a insistere con l’avvocata e la ministra, laddove secondo me sarebbe più utile insistere sul fatto che pure una donna può stropicciarsi un po’ senza perdere la faccia.
Fanno bene, i francesi, che hanno per le rughe nomi affettuosi, presi in prestito dagli animali: la ride du lion; les pattes d’oie; les rides du lapin.
Poi, la sostanza non cambia, però l’approccio è gentile.
Liscia, bisogna avere la pelle liscia ed essere sempre giovani e belle.
Mettetevelo in testa, voi donne, e non state a rompere l’anima.
Ché tanto non serve.
Almeno fino a quando non capirete come le cose stanno veramente.
Sarà l’età. La sua.
Sarà che non lo vedevo da un po’ di tempo.
Per mia scelta.
Sarà che non lo aiutano gli occhi azzurri, i meno espressivi di tutta la gamma cromatica oftalmica; le orecchie a sventola; l’espressione, spinta dal pelo rossastro, evidente in certe condizioni di luce, che gli dà l’aria da casaro svizzero.
Ma questo 007 qui non mi piace per niente.
Inoltre, il film è brutto: rumoroso, lunghissimo, complicato, altamente improbabile, violento, con una trama che si risolve ancora una volta con il matto che sta sull’isola e che vuole distruggere il mondo, infettandolo, pensa tu, in tempi di pandemia e di ipotesi di questo medesimo genere sparse qui e là.
Inoltre, questi devono aver letto tutte le polemiche sui sessant’anni della saga del maschio più maschio del mondo, accusato, appunto, di essere tale e di trattare le donne come stracci, in relazioni utilitaristiche, quindi monouso, dunque gettabili al secchio.
E allora ne hanno tirato fuori il lato tenero e paterno, il meno erotico che c’è in un uomo, che esce allo scoperto davanti a una pupetta imbambolata, con lui che, addirittura, in quel caos recupera il pupazzo che la bamboletta ha smarrito.
E, commosso, se lo mette nella cintura.
Ma fatemi il piacere.
E ridateci l’unico, il vero, l’autentico 007, quello degli esordi, che non sembrava un supereroe indistruttibile, portava lo smoking benissimo, beveva Dom Pérignon 1955, guidava un’Aston Martin DB5, trattava le donne con galanteria e non ci pensava per niente a mettere su famiglia.
Due noticine.
Anche la pupetta ha gli occhi azzurri.
Poveretta.
Il dispositivo (device) dell’addetto del cinema non leggeva il mio Green Pass.
Gli ho chiesto se stava scherzando.
Gli ho detto che era un problema suo, lui aveva in mano quel pezzo di carta e io potevo fornirgli anche un documento di identità per mettere insieme i pezzi.
Lui non sapeva che fare.
Io ho chiarito che sono la persona più garbata che ci sia al mondo, ma che lui mi stava tenendo sul marciapiede e che se lui mi avesse impedito di entrare, io avrei fatto venire giù il cinema.
Dopo aver chiamato polizia, carabinieri, prefetto e pure il sindaco uscente di Roma.
È intervenuto un collega e abbiamo risolto.
Resta che domani sera, se non ho di meglio da fare, mi apposto per assistere allo spettacolo della 21:30 e mi faccio quattro risate davanti agli intoppi, alle dimenticanze, al dispositivo (device) che non legge il QR code e all’addetto che non legge l’italiano, guardo le facce arrabbiate, deluse, perplesse di coloro che avrebbero voluto vedere un filmaccio e che il dispositivo (device), facendo loro un favore, ha tenuto lontano dal grande divertimento del sabato sera.
Completo di pupetta.
L’altro giorno sono uscita da casa e ho fatto una cosa che non facevo da un sacco di tempo: sono andata a un’edicola e mi sono comprata un giornale.
Sono di quelli che hanno smesso di frequentare i quotidiani e, come sempre accade nei tradimenti, la colpa è del tradito.
Io del quotidiano non sapevo più che farmene, trovavo tutto in internet e nella rassegna stampa del mattino.
Non ho un amore viscerale per la carta e comunque, per me, essa non è mai stata quella del giornale, diciamo che quell’amore l’ho sempre espresso diversamente.
Sono andata a comprarmi un quotidiano, fra l’altro, se non sbaglio, il più giovane, dunque, l’ultimo arrivato, perché avevo sentito alla radio di un intervista a Arrigo Cipriani, proprietario dell’Harry’s bar a Venezia, che è uno che ha delle cose da dire.
Per esempio che lui è l’unico della famiglia ad aver preso il nome da un bar, visto che nessun antenato si chiamava come lui.
Poi, che lui sa di Hemingway e Fitzgerald, fosse pure per narrazione paterna, comunque, lui tocca con mano il mio immaginario, non solo letterario.
A ottantanove anni, il patron di uno dei luoghi di culto più tali che ancora ci siano al mondo, risponde così alla domanda: a che ora si può iniziare a bere senza sembrare degli alcolizzati.
«Alle nove del mattino».
Dunque, io sono più che a posto.
Comincio a bere nove ore dopo l’orario concesso.
Spero che la mia pelle lo noti e che si comporti di conseguenza.
Per il resto, il quotidiano, sottile come una fetta di prosciutto, vagamente snob e senza nemmeno le notizie della città che per forza di cose mi interessano.
Niente cinema, poco di altro.
Sapete che vi dico: torno a non comprarvi.
E pulisco le scarpe sulla carta degli incarti dei pacchi e altrove.
Perché a questo servono i giornali il giorno dopo: a pulire le scarpe.
E, se non lo sapevate, ve lo dico io.
Mi sono comprata un tritatutto.
Ho cominciato a usarlo e dopo circa tre giorni ho pubblicato un post nel quale raccontavo che cosa ci avevo fatto fino a quel momento: una maionese, venuta lenta, per la quale avevo utilizzato poco meno di mezza bottiglia di olio extra vergine d’oliva; del pangrattato, magnifico, niente a che vedere con quello comprato già fatto, davvero una scoperta; un guacamole, per confezionare il quale ho seguito la ricetta dello Chef.
La cosa divertente e moderna è che la discussione ha preso rapidamente un’altra piega.
Mi spiego.
Laddove io avevo messo al centro del mio discorso il mio nuovo piccolo elettrodomestico, nel quale, volendolo sperimentare, avrei tritato di tutto, lo scambio di commenti si è concentrato sul metodo di confezionamento della maionese e del guacamole.
Con delle note che sono andate per loro conto: 1. La maionese si fa bene in una tazza, girando a mano. 2. Il guacamole si fa (pure lui) a mano, schiacciando l’avocado con succo di lime, spellando i pomodori, cosa che io non avevo fatto perché i pomodori non li spello mai, e badando a che la consistenza rimanga granulosa, secondo il metodo tradizionale messicano.
(A questo punto, resti fra noi: io, con il tritatutto, che ci faccio. E che me lo sono comprata a fare).
Comunicazione, quella granulosa, che mi fa pensare che il commentatore sia stato in Messico, dove io non sono stata mai.
E dove non ho alcuna intenzione di andare, perché il Messico sta in fondo alla mia, peraltro lunghissima, lista di posti dove mai andrei.
Io volevo solo vedere come funziona il mio tritatutto.
E fare esperimenti, in lungo e in largo.
Senza fuso orario e senza scocciature turistiche.
Divertente, che la Fontana della Giovinezza sia affollata solo da donne.
Il dipinto è della metà del ‘500 e si vedono signore anziane, mettiamola così, con qualche problema, accompagnate alla fontana, una in carrozzella, un’altra a cavallo, una pure a cavacecio.
E nella fontana queste donne cominciano a sguazzare.
E nella fontana succede qualcosa, perché le donne ritornano giovani e belle, come sempre dovrebbero essere le donne, e sono accolte, da nude che erano, abbigliate, e invitate al banchetto, a danzare e a fare l’amore.
Tutte e solo donne.
Mi viene da pensare che di strada ne abbiamo fatta pochina.
All’avvocata e alla ministra, mica è che corrisponde una parità di genere nella fontana.
Nell’ultimo film di James Bond, quello che ha allietato oggi la mia giornata, c’è una 007 donna.
E nera.
Laddove la produttrice ha dichiarato che «James Bond può avere qualunque colore di pelle, ma è un uomo».
Per me, nessun problema.
Basta che sia maschio, seducente e non immortale.
Sugli occhi azzurri, possiamo metterci d’accordo.
Gente, imparate dalla canzone dell’estate 2021.
(Bellissima, nell’aria del tempo, grammaticalmente ineccepibile).
Come si scrive beh.
Certi lo scrivono bhe, mi sembra il racconto di quella signora che, guidando la macchina senza sapere che fare, intrecciò i piedi sui pedali, accelerando con il sinistro, mentre il destro lo mise sul cambio.
Trattasi di interiezioni e ci sono pure scuole di pensiero diverse.
Resta che siete strambi.
Voi che scrivete bhe.
Voi che apprezzate lo 007 moderno.
Voi che dite sindaca e ministra.
Voi che pensate che della fontana della giovinezza abbiano bisogno solo le donne.
(Quanto al seh, il massimo dell’espressione del dubbio, facciamo che torniamo a parlarne.
Eh).