Considero il calcio un linguaggio universale, quindi mi capita di usare metafore calcistiche. Per esempio, quando parlo delle mie corde vocali, dico che sono per me quello che il ginocchio è per il calciatore, intendendo così, lo capiscono anche i poveri di spirito, che io lì ho un punto debole, un sovraccarico, un rischio e una minaccia.
Solo, non avevo considerato che lassù, oltre a un santo bevitore, ci fosse pure un santo calciatore. Che a un certo punto si è seccato della metafora e ha deciso di mandarmi un segno.
Il 7 dicembre scorso, dunque, mi viene un forte dolore a un ginocchio.
Il destro.
Come faccio a ricordarmi il giorno preciso. Per via di un impegno professionale sul quale stavo da tre mesi, che mi ha sfinita e dopo il quale ho riguadagnato la mia casa, anzi, il mio letto.
Nel quale mi sono infilata, dormendo dalle tre alle sei del pomeriggio, guastandomi definitivamente la giornata e compromettendo anche quella successiva, nel corso della quale invece di una lezione me ne sono dovuta preparare una e tre quarti.
In tutto questo il dolore era passato dal ginocchio destro a quello sinistro.
E in serata, e con l’aiuto di un paio di calici di vino, era passato del tutto.
Ma il lunedì stavo daccapo.
E pure una settimana dopo.
Quindi sono andata in farmacia per prendere un antinfiammatorio, ma c’era troppa fila. E ho preso solo fra i parafarmaci una pomata. Che non è servita a niente.
Ed è stato così che al quindicesimo giorno ho preso un appuntamento con il mio radiologo.
Impegnato fino a metà gennaio.
Dunque, è facile capire in che stato fragile e precario sono partita per il mio viaggio di studio di fine anno.
Aux armes, citoyens! …Marchons, marchons (La Marseillaise). La metafora era destinata a continuare e, quando sono atterrata a Parigi, l’ho trovata à genoux, con sulle spalle più di venti giorni di sciopero totale dei trasporti, niente bus per arrivare in città, un poliziotto che mi ha chiesto se volevo andare in guerra, io che gli ho detto che non ci pensavo per niente e lui che mi ha indicato il parcheggio dei taxi.
E lì ho fatto amicizia con monsieur Touré che, in circa un’ora e mezzo e in una bellissima macchina, pure con la musica giusta, mi ha depositata al mio albergo.
Avendomi fatto un quadro della situazione a tinte fosche, perché il problema non stava solo nel blocco del métro, ma anche nel traffico, paralizzato fisso perché chi poteva prendeva la macchina per spostarsi.
E c’erano pure le scuole chiuse per le vacanze.
Insomma, l’unica possibilità per muoversi in quella città enorme era: camminare.
Nel mio hotel malandrino di Pigalle mi sono potuta scegliere la stanza, anche con un upgrade, per cui mi sono sistemata in una mini suite di 21 mq che dava sulla strada. (Vantaggi del 30% di annullamento delle prenotazioni).
A Parigi camminano tutti: i personaggi dei romanzi che leggo; i protagonisti dei film che vedo; i poeti; gli scrittori.
Dunque, anch’io me ne vado a spasso, essendomi infilata in tasca una cartina di quelle piccole, con una scala che falsifica tutte le distanze e che le rende accessibili.
Simpatiche, certe vetrine, ti dicono subito che sei nel quartiere dell’Eros e degli artisti.
Lo spettacolo è continuo, come fai ad annoiarti.
Non piove, fa freddo, sto benissimo.
Ho tutto un elenco di luoghi che voglio vedere, tracce di artisti da seguire, alcuni mi saltano incontro senza che debba nemmeno cercarli.
In una coltelleria il titolare mi chiede se sono italiana.
La mia insegnante di francese del secondo anno, Cécile, mi indicava con il dito e diceva «Regardez-la. Dalle nostre parti se uno pensa a un’italiana, la pensa così».
(Certe volte mi piace, ritrovare il mio umore da ragazza).
Certo che sono italiana.
Sono un’italiana in viaggio di studio.
Che cosa studio?
Studio Parigi.
Le tablier. Dopo poco meno di tre ore che cammino decido che è ora di cena. È un po’ presto, ma mi sono svegliata alle quattro e mezzo, quindi mi merito un piatto caldo.
Mentre nel mio Bouillon scelgo il Menu des Fêtes con il tacchino farcito di castagne e les Bulles de Bouillon con una coppa di Brut Méthode Traditionelle della Loira, mi metto a guardare la strana fauna del personale di servizio.
Giovani e molto alla moda i ragazzi che ti accolgono; anziani i camerieri, che sembrano usciti da un film degli anni ’50, dunque un rimescolamento di età e di stili che riflette la permeabilità della città, aperta a tutto e a tutto disposta.
L’uniformità viene dai grembiuli lunghi fino a terra, indossati sull’abito nero e sui blue jeans, li trovo così eleganti.
Gli avventori sono i più disparati, l’ubriacone che siede a tavola con la casquette in testa e si beve da solo una bottiglia di rosso, le signore che rientrano dallo shopping, qualche giapponese che traduce con il telefono.
Al secondo bicchiere di Côtes du Rhône AOP, mentre ripulisco il fondo del piatto dalle castagne, mi rendo conto di una cosa che per tutto il pomeriggio avevo messo da parte: il mio ginocchio.
Che ha smesso di farsi sentire appena ho messo un piede a terra, che mi ha servita adeguatamente per tutto il pomeriggio, ha preso freddo, ha fatto scale a salire e a scendere e sta lì.
Tranquillo.
«Allora sei matto», butto là.
Conoscevo un professore di Diritto che insegnava a Teramo e che era solito dire che gli studenti lo guardavano con occhi come ginocchi per indicare che i poveretti seguivano poco o niente.
Ammetto di averlo pensato anch’io qualche volta.
E prometto a me stessa che mai più userò metafore di questo genere.
Mai più passerà un solo istante della mia vita senza che io abbia ringraziato il mio ginocchio per stare lì, in quel punto del mio corpo, e per sopportare tutte le torture che gli infliggo.
Manco fossi un calciatore.
L’expo Toulouse-Lautrec. Storpio.
Alcolizzato.
Sifilitico.
Tossico.
Frequentatore assiduo di puttane e di bordelli.
A un certo punto, internato in una lussuosa clinica privata, che è come dire in un manicomio un po’ più su di gamma.
Una meraviglia.
Un libertino autentico.
Uno innamorato della vita e delle donne.
Uno dedicato, che arriva in atelier la mattina presto pure se ha passato la notte a confezionare cocktail per tutta Parigi. Una volta ne miscelò duemila, e non è leggenda.
Sono venuta apposta per la mostra. E la mostra è bellissima.
Il Grand Palais in grande spolvero, anche perché dopo quest’esposizione chiude per restauri, insomma, un canto del cigno o, se preferite, il fuoco d’artificio finale.
Ho camminato poco più di un’ora, passo parigino, quindi rapido, incisivo, non piove, fa freddo, l’edicolante dal quale ho preso una guida gastronomica mi dice che viene al lavoro in bicicletta, i poliziotti sorvegliano le strade, come sempre ho provato un sentimento di vuoto siderale trovandomi di botto davanti all’estensione del raccordo fra place de la Concorde, il ponte e gli Champs Elysées.
Sullo sfondo la cupola d’oro des Invalides, dove riposa Napoleone.
Scatto una foto alla Tour Eiffel, tutto è grigio.
Fa freddo ma non piove.
Nemmeno oggi sento il mio ginocchio.
Che mostra.
Dio, che mostra.
Le opere importanti, quelle sulle quali sto da anni e che ho visto a pezzi e a bocconi, quando mi ha detto bene, qui e là per il mondo, quando, qui e là, ho potuto starci, ci stanno tutte.
E sono bellissime.
Libertini di tutto il mondo, unitevi.
Anzi, fatemi un piacere, personale.
Piantatela di considerarvi tali. E come fate. Con un termine di confronto come questo.
Il segno, magistrale e sorprendente.
L’impaginazione, ti mozza il fiato.
La modernità, ti travolge.
Lui si è inventato tutto, dalla comunicazione alla città nella quale sto adesso.
Il mood, lo spleen, le notti, scopro che ha anche abitato al numero civico contiguo a quello del mio albergo: rue Frochot, 5.
Io sto al 7.
Ma che cos’è, questa storia di case di appuntamento e di seni nudi.
E io che ne so.
Io sono un’italiana in viaggio di studio.
La foto che vi mostro, però, sta nella mia camera.
Tu va’ a capire, di quale stoffa è fatta questa città.
Comincio a pensare che quando ti occupi di arte sia lecito ubriacarsi tutti i giorni, di botto ho voglia di buttare al secchio tutti i miei anni di professione, che hanno fatto i curatori della mostra, hanno cambiato il loro linguaggio alla radice, si esprimono con un lessico diretto, a volte brutale, hanno prodotto un catalogo, dei tabelloni, delle didascalie, ti danno i dati, filologici, tecnici, scientifici, poi, però, prendono il volo.
Decido di dedicare alla mostra un paio di lezioni aperte al pubblico.
Anzi, no.
Lasciatemi qui.
Che me ne importa delle lezioni.
La «librairie» più bella del mondo. Con questa storia dello sciopero dei trasporti faccio la metà delle cose che avevo in programma.
Sai che me ne importa.
Ho camminato, circa sette ore al giorno, sono andata dove ho potuto, ho coperto le distanze che ho potuto coprire.
Soprattutto, me ne sono andata in giro per il quartiere, ho visitato tutte le botteghe di Rue des Martyrs, ci sono le latterie e i forni, siamo così vicini alla fine dell’anno, le vetrine rigurgitano meraviglie gastronomiche, burro, formaggi, frutti di mare, salumi, vino.
Il mio albergo è pieno di libri, ogni stanza ha la sua bibliotechina, tutti volumi scelti accuratamente, non ho mai visto una cosa simile.
Dietro ogni libro c’è un’etichetta, che ti dice che, se vuoi comprarlo, puoi andare lì vicino, dove c’è la libreria che si è occupata della selezione.
Ecco, allora, che conosco, finalmente, Les Arpenteurs, che seguo sui social, che ammiro dal fondo del cuore.
Alla fine, ci sono.
Un posto piccolo, curatissimo, anche con un’Amazon Free Zone.
Come cliente di Amazon, mi ritengo in dovere di chiarire che compro libri in internet perché non ho una libreria di riferimento, che se solo fossi vicina a loro, andrei da loro a chiedere consigli.
La giovane Morgane mi sorride.
Comprerei tutto.
Ogni volume ha una sua presentazione, Génial, Magnifique, un fumetto è proposto come Urbano, Femminista, Vivo, Sportivo, Colorato…Un colpo al cuore.
Compro due libri.
Morgane mi fa un pacchetto che aprirò con dispiacere.
Lasciatemi qui.
Chissà se qualcuno si dispiacerà del mio mancato ritorno.
Il volo. Monsieur Touré mi riporta in aeroporto.
Me lo aveva promesso, temeva che io non trovassi un taxi, con tutta questa faccenda degli scioperi e delle manifestazioni.
A dirla tutta, mi ci sono infilata in mezzo più di una volta, da qualche parte dovevo pur passare e loro stavano dappertutto.
Un flic in assetto di guerra, scudo ed elmetto, mi ha pure puntato la mitraglietta alla gola.
Gli ho chiesto se era matto, gli ho detto che ero un’italiana in viaggio di studio e gli ho spostato la canna con due dita.
Mi ha abbracciata per scusarsi, mi ha sollevata di peso e mi ha messa sulla strada per il Louvre.
Proprio dove gli avevo detto che volevo andare.
Sono una donna ben organizzata, quindi il pranzo me lo sono organizzato comme il faut.
La lattaia Françoise mi ha confezionato un Comté dolce, tagliandomelo a pezzi.
Ho preso una baguette da un vincitore di premio, fra l’altro con bottega bellissima.
C’è stato un tempo, ieri l’altro, in cui in aeroporto si mangiava benissimo.
Ora mi tocca rimpiangere le mie posate e i miei calici.
Mi sono infatti comprata una bottiglietta di vino rosso nello spazio dei giornali e ho preso un bicchiere da cappuccino alla macchina del caffè.
Mi sistemo in una parte tranquilla alle Partenze, qualche Gate di distanza dal mio.
Un uccellino, quello che vi ho messo in apertura, sbuca fuori da non so dove e viene a dividere il mio pasto.
A Roma mi riprendo la macchina e rientro.
Ho camminato giorni e giorni, ore e ore; bevuto una quantità industriale di Champagne; mangiato perfino la loro pasta regressiva, Coquillettes, jambon, crème, avendo avuto cura di far sapere allo chef che ero italiana e che non mangiavo mai pasta a nord di Roma.
Le conchigliette del ristorante del mio albergo erano buonissime, perfettamente al dente, le ho anche mangiate con il cucchiaio, come mi è stato detto di fare.
L’anno declina dolcemente.
E il mio ginocchio sta bene.
Non morde, non strilla, non si lamenta.
Evidentemente, un po’ come me, aveva bisogno di cambiare aria.
E il cambio dell’aria, nell’imminenza del cambio del calendario, è una cosa bella e sacrosanta.
Dovrebbe consigliartela il medico. Ma possiamo anche pensarci da soli.
Buon Anno a tutti, che per tutti sia un anno buono.
Buono davvero.