«…impudiche “paste delle Vergini”. Di queste Don Fabrizio si fece dare due e tenendole nel piatto sembrava una profana caricatura di Sant’Agata esibente i propri seni recisi. “Come mai il Santo Uffizio, quando lo poteva, non pensò di proibire quei dolci? I ‘trionfi della Gola’ (la gola, peccato mortale!), le mammelle di S. Agata vendute dai monasteri, divorate dai festaioli! Mah!”».
Il ballo dai Ponteleone è il più importante di quella breve stagione di mondanità a Palermo; è importante per lo splendore del casato e del palazzo e per il numero degli invitati. Inoltre il principe di Salina deve presentare in società la bella Angelica, promessa al nipote Tancredi, e quella sera l’occasione è perfetta. C’è stato il colpo di teatro della coppia Angelica-Don Fabrizio impegnati in un valzer, con tutte le altre coppie che hanno smesso di danzare e stanno a guardare loro e, durante quel ballo, per un attimo «la morte fu di nuovo ai suoi occhi, “roba per gli altri”».
Poi il Gattopardo entra da solo nella sala del buffet. E lì, in una gloria di colori, odori, sapori, arrivano le paste delle Vergini, quelle che in Sicilia si chiamano minne di Sant’Agata.
Le minne: cioè le tette, le zizze, le mammelle, insomma: i seni di Sant’Agata.
La santa catanese, che oggi protegge le nostre divagazioni, ha subito il martirio nel III secolo. Per aver respinto le profferte del governatore romano, fu gettata in un postribolo. Fra le varie torture cui fu sottoposta, ci fu l’estirpazione dei seni.
Noi amiamo Agata perché ce l’ha fatta amare l’amata Francesca Rigotti, che ci racconta la storia della «giovane tessitrice di indescrivibile bellezza» che ha promesso alla madre di sposarsi quando avrà finito di «cucire un velo d’oro e di bisso purpureo». Un velo infinito, perché Agata «tesse di notte e disfà di giorno».
Il matrimonio non ci sarà e il velo miracoloso salverà la città dalla distruzione deviando la lava dell’Etna durante un’eruzione proprio in occasione dell’anniversario del martirio della santa.
Agata è rappresentata con i seni deposti su un piatto che tiene in mano. Ve la propongo nell’interpretazione magnifica di Zurbarán, autore di sante eleganti, vergini mistiche eppure terribilmente fisiche, vuoi per la sontuosità degli abiti, vuoi per la bellezza carnale.
Strana, magnetica potenza del connubio fra sacro e profano tipico della Controriforma.
Ma l’ambiguità non finisce qui.
Guardate la strana scena della lactatio di S. Bernardo.
Il santo cistercense è inginocchiato davanti alla Vergine che si preme un seno, dal quale esce uno zampillo di latte che va a bagnare le sue labbra.
Qui è sottolineato il ruolo materno di Maria, ma il modo oggi risulta per noi bizzarro.
Come ugualmente ci sconcerta un’altra immagine, che stavolta vado a isolare nelle Sette opere di Misericordia di Caravaggio.
L’artista, in fuga da Roma e arrivato a Napoli, si è immerso nell’umore della città e ambienta la scena in un «quadrivio…sotto il volo degli angeli-lazzari che fanno la “voltatella” all’altezza dei primi piani».
La verità che dipinge Caravaggio è quella di Forcella o di Pizzofalcone e, fra le citazioni, compare anche quella antica di Cimone e Pero, che ci mostra la popolana che offre il seno per nutrirlo al vecchio in prigione.
La storia è quella dell’anziano Cimone, che è in attesa di essere giustiziato e che non viene nutrito. Il suo carceriere fa entrare la figlia Pero, che lo allatta. Si tratta di un esempio di pietas filiale, ma, prima di capirlo, noi abbiamo percorso le strade di altri ragionamenti.
Intermezzo 1. Una sera in vacanza al mare, volendo movimentare la situazione estiva, mi misi a teorizzare, ma a teorizzare sul serio, l’invidia dei seni, che secondo me era per una donna ben più logica dell’invidia del pene, che era stata teorizzata da un uomo e che, probabilmente, partiva da presupposti sbagliati. Ammettiamo l’invidia, ma per quale motivo una donna avrebbe dovuto invidiare qualcosa che comunque la riguardava e che poteva avere e pure nella forma migliore e non, mettiamo, seni più belli dei suoi? Se la mia teoria non ha avuto seguito, è solo perché non mi occupo di psicoanalisi ma mi occupo di altro. E comunque le risate che ci facemmo quella sera ancora me le ricordo.
Intermezzo 2. Vi potrebbe capitare di sentirmi definire tettonica una donna parecchio procace. Non venitemi a spiegare il vero significato del termine perché lo conosco e divertitevi, invece, un momento come accadde a me e a un paio di altre persone quando una volta, in treno, trovammo in copertina su una rivista una signorina scollacciata e la parola uscì fuori da sola. Insomma, suonava bene e ben traduceva il concetto.
Se penso libertà, penso a lei.
Il suo abito giallo è scivolato sotto i seni e in esso è rimasta impigliata la memoria di qualcosa di antico.
Lei indossa un berretto frigio e ciocche di capelli sono agitate dal movimento.
La sua nudità ci riporta alle vittorie alate ma è apertamente erotica. Lei ha il profilo greco, il naso dritto, una bocca bellissima e tratti delicati, con, però, uno sguardo di fuoco. Donna in mezzo a tanti uomini, li trascina verso la vittoria finale.
Si respira aria di 1789 ma siamo dopo. Carlo X tenta di rimettere in discussione i diritti della Rivoluzione ma la reazione dei cittadini è decisa e violenta. Con le Tre Gloriose, le giornate del 27, 28 e 29 luglio 1830, la Francia si libera dei Borboni e li sostituisce con il duca Luigi Filippo d’Orléans.
Delacroix fa anche lui la sua rivoluzione. È stato pure lui sulle barricate, ha visto, ha respirato la polvere. Realizza uno dei suoi capolavori più indimenticabili, nel quale mescola la storia e l’invenzione, la realtà e l’allegoria.
E ci riesce grazie alla sua Libertà. Che ha peli sotto le ascelle che sarebbero dispiaciuti alla critica più accademica ma che, proprio per contenere in sé il reale e l’ideale, è al medesimo tempo dea mitica e figlia focosa del popolo.
E guardate che seni meravigliosi. Essi sfideranno il tempo e la storia e stanno lì, davanti ai nostri occhi, al vento proprio come il tricolore.
Gioca, Magritte, come sempre a modo suo, e riduce una donna ai suoi attributi sessuali.
I seni diventano gli occhi e l’espressione ci riporta a una delle straordinarie invenzioni di Armando Testa, pubblicitario, sì, però direi, meglio, artista.
Un’aria di famiglia accomuna le due creature, che sembrano cugine vestite un po’ diversamente l’una dall’altra (anzi, una non è nemmeno vestita). Però l’espressione è la medesima, un po’ fissa, stolida e la bocca a cuore di Carmencita oggi ci fa sorridere.
Resta fermo che è meglio non avere i seni in faccia: sono molto più espressivi quando stanno al loro posto.
Schiuma di caucciù, ovvero latex, incollata su velluto nero, tagliato e incollato su cartone. Seno in latex su velluto, presentato sotto vetro. Involucro per l’edizione di lusso del catalogo dell’esposizione Le surréalisme en 1947 alla Galerie Maeght, Parigi.
E surreale questo seno lo è davvero, forse pure disturbante e pornografico, la pornografia non fa forse a pezzi i corpi inquadrando i soli organi sessuali sradicati dal loro contesto?
Poi, però, c’è il titolo: Prière de toucher, Si prega di toccare.
E c’è l’autore, Marcel Duchamp, uno degli artisti più fecondi (di idee e di trovate) del secolo scorso. Il seno è in copertina e sul retro del catalogo si legge l’invito contrario a quello cui siamo abituati: qui siamo pregati di toccare. L’opera è una sollecitazione a superare il senso della vista, che si utilizza normalmente e tradizionalmente davanti all’arte e a usare il tatto, più concreto.
Non a caso qui l’artista si avvicina al Surrealismo, che compie ricerche anche sull’esperienza tattile, interessato com’è a uscire dalle pratiche accademiche e dai preconcetti.
Ma Duchamp, come spesso fa, ci propone anche un’esperienza erotica, che tratta, e anche questo con lui accade sovente, in termini di voyeurismo.
Intermezzo 3. I seni sono una parte intima del corpo femminile. Sono autorizzati a toccarli poche persone: l’amante e il medico. Perfino la titolare del negozio di biancheria si limita a dare indicazioni su come sistemare il reggiseno e a regolare lei stessa le bretelle. Prendere il sole a seni nudi comporterebbe una serie di precauzioni tali, dovute alla delicatezza della pelle, che c’è da chiedersi chi glielo fa fare, alle donne, di esporsi, qualunque sia il loro aspetto fisico, a quella prova. E non sto parlando solo delle scottature.
Delicata la parte del corpo, delicato l’argomento. David Jay è un fotografo di moda che, a un certo punto della sua vita e attraverso un’amica, ha incontrato il cancro al seno. Da questa esperienza è partito The SCAR Project, una serie di ritratti che sfidano la visione consueta della malattia e cercano una bellezza diversa là dove c’è più che altro dolore.
Vi mostro uno dei risultati, e ho scelto una delle foto meno violente, vuoi per il corpo androgino della modella (la paziente?), vuoi per la panoplia delle decorazioni, il tatuaggio, la lametta al collo, il bracciale, il taglio dei capelli, che tirano la cicatrice dentro la loro varietà.
Pratica liberatoria e catartica, qualità che quasi sempre attengono all’arte, il progetto restituisce una fisicità ai sopravvissuti, per lo più giovani donne che hanno incontrato nella loro vita il «cigno nero», ovvero un avvenimento raro e imprevedibile (e qui potremmo domandarci se il cancro è tale), che ha conseguenze eccezionali e che, comunque, dirotta la nostra esistenza verso direzioni che non avevamo considerato.
Oggi, però, la chirurgia ricostruttiva fa miracoli, quindi qui c’è da chiedersi che cosa ha trattenuto tutte le protagoniste del progetto dall’approfittarne.
E anche questa sarebbe un’indagine di ampio interesse.
Funziona il modello dell’Amazzone? Le donne di questa mitica stirpe erano guerriere attestate in Asia Minore, che invasero l’Attica e Atene, la capitale. Plutarco ci racconta che furono respinte da Teseo. Come è noto, esse si mutilavano un seno per poter tirare con l’arco (si fa per forza così? Quanto a autolesionismo, peggio delle femministe alle prese con il reggiseno).
Non trovo nemmeno un’immagine di un’Amazzone mutilata (hanno sempre tutti e due i seni) ma mi piace ricordare che esse erano le nemiche per eccellenza dell’uomo greco.
Anche se fra Pentesilea, la loro regina, e Achille scoppiò un amore matto e disperatissimo, che si sprigionò dalla morte di lei. Accadde che le Amazzoni erano accorse in aiuto dei Troiani e che lei fu ferita in un combattimento con il Pelide, che si innamorò quando le scoprì il bellissimo volto.
Ma era troppo tardi.
(Se c’è una cosa che apprezzo nelle situazioni sentimentali degli eroi classici, è che stanno sempre in impicci anche più tragici e impicciati dei miei).
A proposito di chirurgia plastica, mi farebbe piacere sentire il parere di Jean-Jacques Rousseau, cui capitò un’avventura sconcertante.
Come racconta lui stesso nelle sue Confessioni, per la precisione nel Libro VII.
Il filosofo ginevrino era andato a Venezia con «una cassetta contenente un abito ricamato in oro, alcune paia di manichette e sei paia di calze di seta bianca». Poca roba, per uno elegante come lui. Ma buona.
L’argomento «ragazze» esce fuori facilmente. Rousseau si sta confessando, no?
E dice di farlo con candore.
Ha sempre provato un senso di disgusto per le donne pubbliche e a Venezia non ha troppe frequentazioni di quelle private. Inoltre non possiede nulla e sa che «con una borsa mal guarnita non bisogna mettersi a fare il galante».
Per cui trascorre diciotto mesi avvicinando una donna solo due volte.
La prima è con una prostituta chiamata La Padoana, dalla quale si fa condurre da un onesto gentiluomo «per non parer troppo coglione» (in italiano nel testo, e ci mancherebbe).
Fa portare dei sorbetti, la fa cantare e se ne va dopo mezz’ora, avendo lasciato sulla tavola un ducato.
La seconda è con una brunetta di vent’anni, è incantevole e parla solo italiano. Lei prende possesso di lui, vuole servirsi della sua gondola (di quella di lui), vanno insieme a Murano, dove lui le paga dei gingilli e lei dispensa generose mance.
Una giornata vivace.
L’accompagna a casa e il giorno dopo la rivede.
La trova «in vestito di confidenza», alla moda veneziana, con polsi e scollo orlati da un filo di seta e fiocchi rosa.
«Entrai nella stanza di una cortigiana come nel santuario dell’amore e della bellezza». Abbiamo detto che lei è un incanto: carni fresche, incarnato splendente, denti candidi, alito dolce.
Lui è un uomo complicato e, preso da smarrimento, si mette a piangere.
Lei, abile, lo guarisce.
Lui si fa animo. E qui succede il guaio. Zulieta, così si chiama la divina creatura, ha una mammella senza capezzolo. Lui è turbato, la ispeziona, si chiede come possa esistere sulla terra un seno cieco.
Lei è diventata un «orribile vizio di natura…una specie di mostro», rifiuto degli uomini e dell’amore.
Lui spinge la sua stupidità (lo confessa lui stesso) fino a parlarle di quel seno monco.
Lei all’inizio la prende a ridere, è una di umore pazzerello, prova a farlo «morir d’amore», si capisce che non ottiene i risultati sperati (ciò che noi chiamiamo défaillance è molto simpatico che in francese si chiami fiasco), si ricompone, si affaccia alla finestra.
Comincia a passeggiare per la stanza sventagliandosi e con tono «freddo e sdegnoso» gli dice: «Zaneto, lascia le donne e studia la matematica».
(In italiano nel testo, e ci mancherebbe).
Lui vuole rimediare, le chiede un altro convegno, lei lo rimanda e quando, finalmente, lui è di nuovo invitato nella sua casa, la prova gli viene risparmiata: «Il gondoliere che, sbarcando, inviai da lei, mi riferì ch’era partita il giorno prima per Firenze».
(Suggerisco a tutte le signore e signorine che mi leggono di giocarsi la carta del capoluogo toscano nel caso ci fosse bisogno di allontanare un pretendente che suscita qualche imbarazzo).
Penso che se Zulieta avesse avuto sotto mano un buon chirurgo plastico capace di ridare un occhio, ovvero un capezzolo, al suo seno, la storia sua e quella dell’ineffabile filosofo sarebbero state ben diverse.
E così è.
Si sarà capito che avere dei seni è una bella avventura, densa di riferimenti, possibilità, pericoli, sorprese e un sacco di altra roba.
Lady Montague, uno dei miei miti, una volta ebbe a dire: «Per fortuna son donna, non corro il rischio di prender moglie».
Frase che io ripeto a me stessa ogni volta che qualche eccesso femminile mi importuna, soprattutto professionalmente (è nella professione che mi serve la dose maggiore di pazienza).
Parafrasandola, concludo questo secondo articolo dedicato all’argomento a modo mio: «Per fortuna son donna, corro il rischio di avere dei seni».
E di poter dedicare loro il mio cantico.
Sabina Albano
14 aprile 2019 — 7:34
Sei una fuoriclasse!!!
Rosella Gallo
14 aprile 2019 — 17:01
E tu sei squisita, generosa e gentilissima, sono felice di questo nostro contatto, grazie!