Gli uomini sono come i cavatappi.
Ce ne fosse uno atto ad assolvere tutte le funzioni di un uomo, scusate, di un cavatappi.
Vi presento la mia dotazione, e sto parlando di cavatappi.
Il primo a sinistra me lo ha regalato un amico produttore di vino quando ho visitato la sua cantina: a doppia leva, funziona perfettamente.
Da un pezzo mi chiedo perché sono andata a cercarne altri.
Di cavatappi.
Il secondo, ancora da sinistra, l’ho comprato a Parigi, perdendoci mezzo pomeriggio appresso.
Avrei potuto visitare un museo.
Se devo essere sincera, la cosa che fa meglio è togliere la capsula, nel senso che è tagliente, incisivo, quindi, lascia il segno.
Poi però mi sfinisce quando arriviamo al dunque.
Estrarre il tappo.
Pentita, ho voluto ovviare e ne ho cercato un altro.
A doppia leva.
Il terzo.
Che però è rigida, sto parlando della leva, quindi poco versatile, quindi chissà se col tempo si ammorbidisce.
Non sia mai: la leva del cavatappi.
Il quarto, sempre da sinistra, è il mio amatissimo coltellino svizzero, mezzo scassato, ho pure perso il cacciavitino oculistico, che avevo comprato come accessorio.
Non sto a dirvi quante bottiglie ha aperto, in aula, certamente, quando i miei studenti hanno portato bottiglie come prova d’esame (io do, da qualche anno a questa parte, una bottiglia locale da degustare, insieme alla storia dell’arte).
Ma pure in albergo, soprattutto all’estero: un coltellino svizzero ti salva dalla nostalgia della patria lontana, semplicemente, aprendo una bottiglia, auspichiamo locale.
Poi c’è il cavatappi a due braccia, una vergogna, di esso, una sera e infatti, mi sono vergognata con un sommelier.
Per carità, meglio vergognarsi per un cavatappi che per altro.
Anche se ne ho sofferto.
Non l’ho buttato al secchio perché conto di prestarlo a un vicino che dovesse chiedermelo.
E poi è tedesco.
A questa mia rimostranza, il sommelier di cui sopra rispose, piccato: «Appunto».
Io intendevo alludere alla perfezione tecnica.
Lui interpretò la mia indicazione geografica come conoscenza del tema vino.
Quando si dice: come è difficile capirsi con un uomo.
(Tutte balle. Lui giocava. E io, pure).
Comunque, la mia vicenda più divertente con un cavatappi mi capitò con il mio amico fotografo che, venuto a Roma, stava da un’amica sua, molto moderna e molto stramba.
Inoltre, astemia.
Non sia mai.
Ci arrampicammo dunque nel suo appartamento, situato in uno dei posti più belli della città, non lontano dal Pantheon, e ci accingemmo a goderci la cena.
Manco per niente.
Perché la padrona di casa, con una casa minimalista nella quale non capivi dove potevi sederti, cacciò fuori per aprire la bottiglia che io avevo portato una cosa incomprensibile.
Sicuro sicuro, gliel’aveva messa dentro, come complemento d’arredo, un architetto.
La guardammo.
Io volevo bere.
E, come si dice, la necessità aguzza l’ingegno.
Quindi suggerii al mio amico di infilare quel coso nel tappo, secondo me qualcosa sarebbe successo.
E qualcosa successe: per un processo che guardammo basiti, con l’ago che si infilava nel tappo e il tappo che saliva, si aprì la bottiglia.
Ma avevamo fatto fatica a capire il funzionamento dell’oggetto.
Così come talvolta faccio fatica a capire il funzionamento degli uomini.
Da allora ho una regola: se si capisce, è un cavatappi. Se non si capisce, è design.
Lo stesso vale per un uomo.
Anche se al momento non ho ancora capito che cosa sia e, soprattutto, come funzioni: l’uomo design.
Andrea
26 gennaio 2020 — 6:04
Che meraviglia, ricordo tante risate. In particolare l’oggetto alieno, che senza la tua perspicacia, mai avrebbe svolto la sua funzione. Grazie sempre e, ancora. Abbracci.
Andrea
Rosella Gallo
26 gennaio 2020 — 8:45
Giusto. Le risate, Andrea carissimo, furono proprio tante. Ti comunico pure che non ho più incontrato in vita mia un cavatappi come quello che aveva in dotazione l’amica tua. Grazie sempre a te, anche di questo. E un abbraccio. Rosella