L’immagine è quella di un pavimento spazzato da una persona frettolosa.
La stanza è quasi tutta pulita, ma negli angoli ci sono accumuli di sporco nero.
Fuor di metafora: non ho alcun timore dell’intervento chirurgico alle corde vocali che mi aspetta, ma si sono fissate due idee che non riesco a cacciare.
1. Il tampone sarà positivo, quindi tutto il piano salterà e dovrò ricominciare daccapo.
2. Mi romperanno un dente durante l’operazione.
Di fronte alla sala operatoria, chiunque ne tira fuori il lato magico.
«Dio, si potrebbe supporre, ha previsto l’omicidio, ma non la chirurgia. Non si immaginava che qualcuno avrebbe avuto il coraggio di infilare una mano dentro un meccanismo inventato da lui, imballato con cura nella pelle, sigillato e chiuso agli occhi dell’uomo». Questo è Milan Kundera, L’insostenibile leggerezza dell’essere.
«Che differenza c’è fra Dio e il professor Sainte-Rose?». «Che Dio non pensa di essere un chirurgo». E questo è La guerre est déclarée, film di Valerie Donzelli, autobiografico, in cui a un bambinetto che piange di continuo viene diagnosticato un tumore al cervello, per giunta maligno, che sarà rimosso da un noto neurochirurgo, sul conto del quale gira la battuta che vi ho riferito.
Ma gira da parte di gente dell’ospedale dove lui lavora, che lo stima e che lo reputa una specie di santo dei tempi moderni.
Infatti, il suo cognome della santità porta il segno.
Le mie due fissazioni si sono dissolte, il tampone era negativo e sono uscita dalla sala operatoria senza danni.
Anzi.
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Ho visto La Bella Addormentata nel Bosco.
Penso di poter dire che l’ho rivisto, perché me lo ricordavo benissimo, probabilmente pure per via di un album di figurine.
La mia enciclopedia del cinema (Morandini) considera il film non del tutto riuscito rispetto ad altri prodotti della ditta, ma io non sono d’accordo.
L’enciclopedia ogni tanto ci prende, ogni tanto, no.
Il film, che è un cartone animato vecchia maniera, è uscito nel 1959, è costato sei milioni di dollari, che a occhio e croce mi sembrano parecchi, e sei anni di lavoro, che giudicare tanti non mi sembra un’approssimazione.
Credo che la valutazione che lo mette al di sotto degli altri sia però dovuta alla favola in sé, che ha meno motivi di suggestione, mettiamo, di Cenerentola.
Quanto a Biancaneve, devo rivederlo, poi ne riparliamo.
Ma procediamo con ordine.
Ieri ho fatto una cosa super eccitante, super avventurosa, super fantastica.
Ieri sono andata a cena fuori.
Mi sono truccata, pettinata, vestita, profumata e sono andata a cena in un posto fra l’altro magnifico, che sembrava certamente Roma perché era la terrazza di un albergo boutique vicino al Campidoglio, ma che sembrava anche altrove perché a Roma non solo di solito mangi male, ma ci sono spesso pecche ed errori e magagne nelle portate e nel servizio.
Invece.
Maître elegante che sapeva il fatto suo; camerieri cortesi e con la divisa a posto.
Bevuto benissimo: Campari corretto al Grand Marnier e alla marmellata d’arancia amara; rosé Costa d’Amalfi; Muffato della Sala.
Mangiato delicato, a tratti geniale, chef campano, la cui anima si esprimeva nei pomodoretti di accompagno, tagliati piccoli piccoli, profumatissimi.
Ho fatto i complimenti; mi hanno detto che se li faceva arrivare da casa.
Quando si dice: i dettagli.
La mattina mi ero svegliata con un filo di voce. Che a pranzo ancora stava lì, io mi aspettavo che scomparisse, visto che l’avevo pure utilizzata.
E invece persisteva.
Dunque, ho retto un minimo di conversazione.
Certo, ero mille miglia lontana dalle mie prestazioni consuete, io sono una loquace, comunicativa, estroversa, che tende ad ammobiliare i discorsi. Mi trovavo a navigare in acque a me ignote, frequentate di solito dai laconici, da quelli una parola è poca, due sono troppe, musoni che fanno vita mondana a spese di quelli che li supportano.
Scoprivo la ritrosia, i silenzi, scoprivo il peso di ogni frase.
A metà serata ero sfinita.
Poi mi è venuta la tosse.
Poi ho cominciato ad agognare il silenzio protettivo della mia casa.
Rapsodia (dal gr. rapto «cucire») mettendo insieme parti già tessute
Francesca Rigotti, Il filo del pensiero, 2002
Ho trovato un ragno nella vasca da bagno.
Animale filosofico per antonomasia, tira fuori da sé il filo col quale tessere una tela.
E poi ragno porta guadagno.
La sera però era morto, e questa cosa non mi è piaciuta per niente.
Mi sono fatta una serie di gobbi, cartelli come quelli che sostituiscono il suggeritore, con frasi mirate o intercambiabili.
L’inizio è sempre il medesimo: «Buongiorno, come va?».
Poi viene il bello.
«Vorrei per favore prendere la macchina, grazie».
«Ho bisogno di una vasca per i miei pesci rossi. Misura: 40 x 25. Grazie».
«Vorrei g 200 di carne tritata, della qualità migliore, grazie».
Ho usato il computer, caratteri chiari, grandi, il mondo è pieno di gente che non vede al di là del suo naso. In tutti i sensi.
Funziona.
Sophie Calle, artista del comportamento, ne avrebbe tirato fuori un’installazione. Io spero solo di raggiungere il mio scopo, minimale: fare le mie commissioni senza parlare.
Sono tutti cortesi, si sentono coinvolti, nessuno mi ha guardato strano, tutti si sono dati da fare più del solito.
Qualcuno ha aggiunto anche gli auguri.
Quasi quasi resto muta. Come Cosimo, il barone rampante di Calvino, che a un certo punto è salito sull’albero perché aveva litigato con i genitori e ha deciso che non era più il caso di scendere.
Se volete una festa animata, animatevela da soli.
Con Totò c’è solo un avverbio di differenza.
La versione della domanda è: «Per andare dove dobbiamo andare, come dobbiamo andare?».
Lui chiedeva per dove, a un vigile urbano locale.
La differenza fra Napoli e Milano sta invece tutta nel corno che il principe de Curtis porta attaccato al panciotto: al Nord non hanno bisogno di fortuna.
Ma lasciamo i due viaggiatori alle prese con la ricerca della malafemmina di cui si è invaghito il nipote e torniamo a noi.
Ovvero al problema che hanno tutti i romani quando devono andare da qualche parte: come fanno ad andare?
Mezzi pubblici insufficienti.
Parcheggi inesistenti.
Non ci si crede, che una metropoli grande e importante come Roma possa avere un problema strutturale così pesante, quello di non sapere come andare da una parte.
Uno poi si abitua, però appena esce fuori un confronto con un’altra città, si afferra lucidamente il lato surreale della situazione.
Altro che Totò e Peppino.
Io ho sempre abitato in quartieri dove non c’era parcheggio.
Dove sto adesso ho risolto con il garage, che è un luogo per me molto importante, che compensa tutte le mancanze con la quantità di servizi che offre.
Servizi non solo legati alla macchina.
Dentro ci tengo pure la bicicletta.
Lì mi faccio consegnare, come fanno tanti clienti, quasi tutti i pacchi.
Da loro passo a fare un saluto, chiedere notizie delle ferie, vedere la fine di una partita.
Sono aperti diciotto ore al giorno per sette giorni a settimana, tutto l’anno. Questo significa che mi è capitato solo due volte di lasciare la macchina per strada.
Ma avevo davvero fatto tardi.
Questo è quello che rimane di un post che stavo scrivendo e che ho deciso di cancellare.
Avrei voluto esprimere una mia qualche solidarietà alla squadra di calcio inglese, battuta dall’Italia agli Europei, perché gli inglesi mi stanno simpatici e non perché non sono contenta per l’Italia.
Ho condotto una mini inchiesta, una cosa fatta in casa, niente a che vedere con la Doxa, però con un campione rappresentativo non meno di quelli loro.
Nella mia mini inchiesta ero sicura di trovare persone con il mio medesimo stato d’animo, persone sensibili alla sconfitta dell’avversario, persone che si mettevano nei panni dell’altro.
Ebbene, solo il 4% di coloro che ho interpellato ha dimostrato un atteggiamento simile al mio, una percentuale irrisoria, per quanto corroborata da ragionamenti articolati e completi.
La prima cosa: lei è bellissima.
Una donna la guarda e si chiede se per caso lei non sia bellissima anche per via di quello che ha indosso, un indumento che non è frequente trovare nel guardaroba di una persona che non fa l’attrice e che non frequenta ambienti che definiamo qui laterali.
Lei è bellissima e quello che ha indosso, che nel film è chiamato corset, ma che è una tuta completa che la ricopre dal collo alle caviglie, è un capo di abbigliamento in latex, che lei e la costumista sono andate a prendere in un sex shop, reparto SM.
In inglese il juste-au-corps si chiama catsuit.
Lei è costretta in una tuta che le impedisce di respirare, ma che le fa seni di dimensione perfetta, vita sottile, fianchi disegnati nel modo giusto.
Girato in Super 16, camera a mano, il film è anche in presa diretta, così noi sentiamo il rumore del latex quando lei si muove.
Verlaine aveva parlato di un abito blu lungo in seta che faceva frou-frou.
Noi, che siamo moderni, ascoltiamo il latex che fa ciaf-ciaf.
Questa è cattiveria.
Quello sbaglia un rigore, il più importante di tutti, fa un disastro e voi siete contenti.
(Come si possa non provare un moto di simpatia nei confronti di chi sbaglia un rigore, io non riesco a capirlo).
E meno male che siamo pure cugini, per quanto d’Oltralpe.
Però i francesi vi stanno antipatici.
Perché sono supponenti.
Ma la loro supponenza, io la chiamo orgoglio nazionale.
«Non, rien de rien / Non, je ne regrette rien / Ni le bien qu’on m’a fait / Ni le mal / Tout ça m’est bien égal / Non, rien de rien / Non, je ne regrette rien / C’est payé, balayé, oublié / Je me fous du passé».
Problema n° 1.
Ti devo € 45,00.
Ho una banconota da € 50,00.
Mi dici che non hai € 5,00 di resto, hai solo € 10,00.
Ti do la banconota da € 50,00 + € 5,00, come si dice, in moneta.
Sconcerto.
Ma se ci arrivo io che, come Tosca, vivo d’arte e vivo d’amore = € 55,00 – € 10,00 = € 45,00.
La volta successiva ho di nuovo una banconota da € 50,00, però scrivo sul calendario «credito € 5,00».
Poi ti spiego.
Pourquoi, mon Dieu! me suis-je mariée?
(Perché, mio Dio! mi sono sposata?)Gustave Flaubert, Madame Bovary, 1856
Fino a un po’ di tempo fa i posti più disgraziati al cinema erano quelli sotto lo schermo.
Anche se avevo amici che ci si sedevano apposta, dato che andavano a vedere film psichedelici in uno stato di alterazione dovuto a sostanze illecite.
(Ogni tanto mi viene in mente che i divertimenti di una volta erano semplici e non privi di candore).
Adesso, con tutti i televisori immensi che tutti hanno, spesso uno per ogni ambiente della casa, praticamente si ripete quella situazione di disagio.
(E tutti a fare l’esperienza psichedelica).
Questo perché, come abbiamo detto, ci sarebbe una regola da seguire nelle dimensioni dello schermo, la cui diagonale, moltiplicata per un certo numero, dà la distanza cui dovrebbe stare lo spettatore.
Quel certo numero lo conosce molto bene il mio oculista, che si raccomanda. Viene invece diminuito fino a diventare un’inezia dai vari siti che ti dicono quale televisione comprare per la tua stanza.
E ti credo.
Perché, rispettando la regola, nessuno acquisterebbe più il televisore gigante, per ospitare il quale una casa dovrebbe avere le dimensioni di un castello. In quel caso, il televisore starebbe bene nel salone da ballo.
Io sono sicura che anche quest’altro segno della megalomania, letterale, del nostro tempo derivi dal contagio del porno, mai abbastanza indagato.