‘perch’io sono il poeta, / essa la poesia…’

(Giacomo Puccini con Giuseppe Giacosa e Luigi Illica, La Bohème)

Non basta, la storia dell’arte. Lo dico meglio, anche l’arte è fatta di parole.
Do sempre ai miei studenti nel programma d’esame un romanzo da leggere, da qualche tempo ho aggiunto anche un libro di poesie.
Ho provato con Rimbaud, pentendomene rapidamente (così come mi pentii, mi pare quel medesimo anno, di aver dato l’ascolto del Don Giovanni di Mozart, non sbagliato lui, per carità, più probabilmente sbagliato il corso).
Non funzionava la traduzione dal francese, mi consolai così, però la mia idea che fosse, quella, ovvero, la loro, l’età giusta per leggere il più seducente dei maledetti andò presto disfacendosi.
Un anno ho dato Cento poesie d’amore a Ladyhawke, Michele Mari.
Che, invece, ha funzionato benissimo, però quanto mi sono infastidita di fronte ad alcuni commenti dell’autore formulati in un’intervista, con l’intervistatore che parlava di un ‘libro minore’ e l’autore che era d’accordo e che individuava nei suoi lettori ‘un pubblico fondamentalmente femminile’ e che raccontava pure che la raccolta, per me bella e vera, veniva acquistata soprattutto come regalo. Ora, io capisco che l’idea di aver scritto una strenna non vada a genio a uno dei nostri scrittori più ombrosi e complessi, però mi passa pure per la mente che questo giudizio impietoso sia più a carico dei sentimenti espressi, quelli suoi, che non del risultato.
Insomma, una faccenda squisitamente privata sulla quale lui ancora soffre.

Per un periodo mi ero messa in testa di imparare Montale a memoria, giravo per casa e recitavo ‘Il fuoco d’artifizio del maltempo / sarà murmure d’arnie a tarda sera. / La stanza ha travature / tarlate ed un sentore di meloni / penetra dall’assito…’; oppure ‘Praticammo con cura il carpe diem…’, e poi ‘Ascoltami, i poeti laureati / si muovono soltanto fra le piante /dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti…’.
Anche oggi, a ripensarci, mi sembra che fosse una buona idea.

Più di recente per i miei studenti ho cercato qualcosa di più nuovo, trovando, a un certo punto e felicemente, la folle impresa di Franco Buffoni, che ogni due anni pubblica un quaderno italiano di Poesia contemporanea, l’ultimo dei quali è il tredicesimo (2017).
E l’ho messo in programma, proponendo pure, visto che loro potevano permetterselo, di andare a cercare, casomai, il quaderno del loro anno di nascita, ventisei anni di poesia con la possibilità di sapere esattamente che cosa scrivevano alcuni giovanissimi quando loro sono venuti al mondo.
Lo sto leggendo anch’io e mi piace soprattutto Claudia Crocco, della quale è pubblicata una silloge, ovvero una raccolta, che si intitola Il libro dei volti, guarda un po’, proprio nell’epoca di Facebook.
Cruda eppure piena di delicatezza, racconta il mondo tecnologicamente avanzato dentro al quale stiamo tutti, popolato di persone emotivamente emancipate, che hanno relazioni sessuali intense e non sempre felici (‘Mentre il caffè brucia, lei vede / i figli che non avranno…’), comprensive dell’euforia dell’inizio e dell’amaro del dopo (‘…le donne che ti scopi / nella mia testa e non importa se è vero.’).

Non ho mai scritto una poesia e invidio coloro che lo fanno, così come invidio i pattinatori sul ghiaccio e gli atleti del nuoto di fondo, sport di cui nemmeno sospettavo l’esistenza prima di cadere dentro una diretta mentre passavo, senza voler guardare, dalla televisione per un dvd che avevo inserito nel lettore, tutta gente che immagino mossa da una vocazione alla quale è indispensabile dare ascolto, pena una vita infelice.

Non sarei mai in grado di recensire una raccolta poetica, lavoro iperspecialistico con connotati ben diversi da quelli utilizzati da chi si occupa di romanzi, insomma, anche se non è del tutto il mio mestiere, sarei capace di raccontare lo stile, l’umore e il contenuto di una narrazione, ma mai quelli di una poesia.

E mi va bene così perché così essa rimane l’altro da me, la scatola di cioccolatini dalla quale ogni tanto scelgo un pezzo, la consolazione dei giorni di bisogno, il passatempo di momenti diversi che hanno comunque necessità di contenere dei sentimenti.
Il mio professore di Italiano e Latino del liceo diceva che Leopardi rende effabile l’ineffabile, formula che si adatta bene anche a parecchi artisti (Vermeer, se volete un esempio) ma credo che questo lo facciano tutti i poeti: ci porgono uno specchio, trovano le parole per dire quello che in noi è formulato solo a uno stadio iniziale, parlano, cito a caso nel senso che scorro le pagine,  d’amore, di lutto, della ‘paletta azzurra’ del gelato (ancora Claudia Crocco), di attese, progetti, supermercati, vino, rossetto, montagne, colori, giorni della settimana, la torre, la strada, il libro, le tracce, la saliva, la riva deserta, i tacchi, la paura, i coltelli, la presenza, l’assenza, l’ospedale, il viatico, la piscina ‘di cloro e cemento’, ‘l’odore di piscio di certi vicoli’ (Daniele Orso), della provincia, della città, del silenzio.

La vita, insomma.