L’architetto Filippo Brunelleschi si rifiutò di pagare i tributi all’Arte de’ maestri di pietra e legnami, cui appartenevano tutti i lavoratori edili.
Fu gettato in prigione.
Ma il capitolo del duomo intervenne in sua difesa e undici giorni dopo egli fu liberato: doveva costruire la cupola, la seconda più bella al mondo (la prima è quella mia).
Il senso della sua disobbedienza era che lui non apparteneva a quella corporazione: lui era un uomo libero, un artista.
E questa è una.
Quando poi gli operai che lavoravano con lui si ammutinarono per questioni che oggi chiameremmo sindacali, Brunelleschi li licenziò tutti in tronco.

Filippo Brunelleschi, Cupola di Santa Maria del Fiore

Per assumerli nuovamente poco dopo, sì, ma con una paga dimezzata.
Quando si dice, avere le idee chiare sul senso dell’organizzazione del lavoro.

La cattiva fede, totale. Nessuno ha scritto sui giornali che prima di Amazon procurarsi il catalogo di una mostra che stava altrove significava aspettare un mese e mezzo e certe volte doverselo andare a prendere di persona.
Invece così: manco ventiquattro ore e ce l’hai sulla tua scrivania.

La signora Anna della lavanderia dove porto a stirare le lenzuola, senza aver mai aperto un libro che tratti l’argomento, è un’esperta di marketing, di customer care, di sociologia e pure di puericultura.
Dice che gli italiani hanno assaggiato lo zucchero e non hanno più voglia di lavorare.
Come i bambini cui viene dato il ciuccio intinto in quel dolce barattolo che poi rifiutano qualunque altro sapore, parimenti i nostri connazionali non sono più disposti al minimo sacrificio che comporti il loro mestiere.
È stato così che venerdì il tecnico della lavatrice, l’unico che è autorizzato a occuparsene, alle 12:55 mi ha risposto al telefono in modo diffuso e con gentilezza.
Io avevo avuto un’intuizione, gli avevo detto che poteva trattarsi di un problema con la presa elettrica. Lui mi aveva suggerito di chiamare prima l’elettricista e poi di vedere noi.
Così ho fatto.
E l’elettricista, che è polacco, dopo circa sessanta minuti stava nella mia cucina con la sua gigantesca cassetta degli attrezzi. La presa era bruciata all’interno e non faceva contatto (intuito femminile).
E l’elettricista polacco alla fine ha fissato la placchetta, dicendo che però la sua riparazione non garantiva il funzionamento dell’elettrodomestico.
Che, infatti, andava e non andava.
Allora alle 17:15 ho mandato un WhatsApp al tecnico. Che non lo ha neppure aperto, visto che ormai il venerdì aveva già il sapore del sabato.
Come se tu non sapessi che fai un lavoro serio e importante.
Adesso mi tocca aspettare lunedì mattina e chiamare in ufficio e così abbiamo perso due giorni e mi salta tutta l’organizzazione della settimana prossima.
Ma come fai a non capirlo.
Altro che Brunelleschi, ci vorrebbe a certa gente.

Mi sono fatta (almeno) un paio di regali per il mio compleanno.
Per prima cosa una scatola di spezie:  due confezioni di fiore del sale raccolto da un paludier, che è colui che fa questo lavoro, e lo firma (questo si chiama Lionel); due fiale di vetro di vaniglia: quella Givrée (satinata) della Nouvelle Calédonie e la Grande Comore; una tavoletta di cioccolato, che non è una spezia ma che ci sta benissimo, 80% di cacao, provenienza Chontalpa, Mexico, con soli tre ingredienti, come deve essere un cioccolato di razza.
I pepi. Uno era sbagliato.
Avevo ordinato il Poivre à la mode de Paris, che arriva in mignonette, ovvero in piccoli grani in un contenitore da infilare in tasca o in valigia.

Poivre à la mode de Paris

Così te lo porti dietro dove ti pare e non devi più scendere a patti con quelli che sostengono che il pepe fa male (a me fanno male le preoccupazioni e i dispiaceri).
Ho trovato nella scatola, peraltro allestita in maniera accuratissima, una confezione normale in vetro di Poivre des mondes.
Ci sono rimasta male.
Ho scritto. Ho detto facciamo che vi rimando il pepe sbagliato e voi mi spedite quello che ho ordinato.
Mi hanno risposto subito scusandosi, per carità, mi tengo tutto e loro fanno un’altra spedizione.
Come avrebbe fatto qualunque persona che sa di fare un lavoro serio e importante.
Ed erano le 18:20.
La cosa più simpatica è che avevo appuntato nel box delle comunicazioni «Grazie. È un regalo per il mio compleanno».
In francese, come si fa con i francesi, ché altrimenti non capiscono.
E ho trovato nella confezione un bellissimo cartoncino con scritto, stavolta a mano, esattamente quello che avevo scritto io. Pure la punteggiatura era la medesima.
Lieve senso di scollamento.
La prossima volta mi faccio auguri più di cuore, questi mi sono sembrati un po’ troppo formali.

L’altro regalo me lo sono fatto in un attacco di nostalgia. Mi sono detta chissà quando potrò mai tornare in quel bellissimo negozio di Londra e comprarmi uno dei loro bicchieri.
Detto fatto.

Bicchiere a campana, 1850-1870

Tutti i vetri antichi stavano sul sito.
Ho dovuto solo scegliere ed ecco la mia opzione: un bicchiere da vino a campana datato fra il 1850 e il 1870.
Tempo di riflessione: tre secondi scarsi.
Ma continuavo a pensare che il bicchiere aveva un’aria non nuova, sapete quando si dice ma dove l’ho già visto.
Il giorno dopo, mentre finivo di mettere a posto l’ultimo Sorbetto dedicato a Manet, mi è arrivata la folgorazione.
In questo dipinto.

Edouard Manet, Le Salmon, 1868

La datazione, fra l’altro è perfetta.
Scambio squisito con il tipo del negozio di King’s Road, che ha chiuso la sua ultima mail con un chin chin augurale.
A lui però ho evitato di dire che era un regalo per il mio compleanno perché  altrimenti saremmo andati avanti altri tre giorni.
Gli inglesi, si sa, saranno pure strambi, però sono capaci di stare al mondo, quindi figuriamoci le chiacchiere che sarebbero uscite fuori.

Il  carattere peggiore che abbia trovato in una donna negli ultimi dieci anni ce l’ha Marlena.
E guardate che di donne con un brutto carattere ne ho incontrate a bizzeffe.
Lei non parla: abbaia, latra, ruggisce, ringhia, non riesce a dire nemmeno mezza frase con cortesia.
Le ho provate tutte: la gentilezza, l’ascolto, il come va l’umore (mai devi domandarlo); il distacco, la cortesia un po’ astratta, la comunicazione di servizio: l’aspirapolvere va trattato con delicatezza, perché altrimenti si rompe e poi stiamo senza.
Niente da fare.
Dice che è sfortunata, che le va tutto male.
(Mi viene il dubbio che se la vada a cercare).
Quando l’ho conosciuta, l’estate scorsa, ho provato a capire.
Dice che è così da quando il marito se ne andò di casa.
(Qui c’è da chiedersi sempre se sia la causa o l’effetto).
Io commentai che erano passati anni, che il mondo è pieno di uomini, che casomai non tutti sono uguali (anche se qui ho i miei dubbi, ma lo dico solo perché il carattere del mio blog è confessionale).
Le avevo anche suggerito di uscire con qualcuno, casomai solo in via di amicizia, di andarsi a mangiare una pizza, facendo uno sforzo per essere gradevole.
Per carità.
A un certo punto, uno pensa ma fa’ come ti pare.
Poi, però, riflettevo.
Io da ragazza mi sono presa il tifo con delle cozze mangiate a Portovenere, in un luogo d’incanto.
Da adulta mi sono avvelenata con delle ostriche mangiate in uno dei migliori ristoranti di Roma: sono stata sei mesi a petto di pollo bollito e due foglie di insalata, a pranzo e a cena.
Poi mi sono nuovamente intossicata con dei frutti di mare mangiati in un ristorante storico di Venezia.
Sentirsi male a Venezia non è semplice, voi pensate solo a come può essere un’ambulanza che arriva via acqua. Fu così che rimasi in albergo, forse se mi fossi ricoverata, mi avrebbero fatto delle flebo e mi sarei ripresa prima.

Proibito

Pure lì stetti male un sacco di tempo.
E decisi di dire addio non solo agli spaghetti con le vongole veraci, ma anche a quel plateau de fruits de mer che per me era uno dei trionfi più trionfali che potesse esserci su una tavola.
Però ho continuato a frequentare uomini.
Cerca di afferrare la metafora.
Oppure sai che ti dico: fa’ come ti pare.

Ci sono cose di cui non capisco il senso. Per esempio, lo spray per i mobili, che sospetto essere pieno di sostanze nocive, che certamente non tengono lontana la polvere ma che, al contrario, l’attraggono. Io per i mobili ho una crema che va usata in quantità minima e poi lustrata a fondo con uno straccio morbido, mai userei lo spray del supermercato per il mio letto deco o il mio bel tavolo del salotto.
Deco anch’esso.
Inoltre non capisco del tutto il senso della laurea triennale. Un po’ mi sfugge. Tu in ospedale chiami «dottore» e si voltano tutti, non mi ricordo i portantini, ma certamente gli infermieri.
I medici, dieci anni di studio, certe volte sono distratti.
Non sto nemmeno a citare la podologa, che si è laureata in meno di un anno, avendo conseguito prima un diploma di maturità in quattro mesi di scuola serale (per questa, le avevo fatto i complimenti).

Ma la cosa di cui meno capisco il senso al mondo è la pezzetta degli occhiali.

Io sono miope.
E la miopia è centrale nella mia esistenza.
Come per tutti i miopi, ci vuole poco a capirlo.
Non sono di quelli cecati, mi muovo con disinvoltura in un sacco di situazioni.
Ma la miopia di solito è ereditaria e esce fuori dalla nascita.
Io, invece, sono diventata miope a ventuno anni: andavo al cinema e vedevo male da lontano lo schermo.
Secondo me, e pure secondo il mio oculista, studiavo troppo.
Ma tant’è.
Sono miope, dunque di occhiali me ne intendo.
Ne ho quattro paia, che uso a seconda delle situazioni, computer, guida, spiaggia (dove peraltro non vado mai).
Eccetera.
In casa giro sempre senza occhiali, un po’ perché conosco l’ambiente, un po’ perché da vicino vedo benissimo, quindi uso le lenti solo se devo lavorare al pc o vedere un film.
E gli occhiali li tengo bene, sempre nel loro astuccio, mai come cerchietto per i capelli (l’orrore) o buttati da una parte. Ho pure due cacciaviti professionali, con i quali stringo volentieri le vitine delle stanghette.
Pulisco gli occhiali, e qui vengo al punto, lavandoli con acqua e sapone e asciugandoli con la carta da cucina, come mi ha insegnato il mio ottico.
Che mi ha regalato per l’emergenza, ovvero per quando sono, mettiamo, alla scrivania oppure in viaggio, un paio di quadrati di cotone finissimo, con lato di cm 35.
Che lavo in lavatrice spesso e che stiro personalmente.
Delle pezzette non faccio uso.
Perché sono troppo piccole.
Perché non sai di che cosa sono fatte.
Perché non sai se mantengono le loro proprietà dopo che le hai lavate.
Perché si sporcano subito, come tutto quello che ha a che fare con le lenti, sulle quali peraltro io non vado strusciando le dita, ci mancherebbe. Però mi capita di insudiciarle con il trucco.
Inoltre mi sono comprata dal mio tecnico del telefono un LCD Cleaning Gel, che gli invidiavo: perché tutte le volte che gli portavo lo smartphone o il tablet per fare qualcosa, lui finiva con un gesto rituale, un po’ da mago, spruzzando il display, togliendo tutte le impronte dell’infinito touch, restituendomi il mio dispositivo sfavillante come in una pubblicità degli anni ’60.
E che cosa aveva in omaggio, arrotolata nel tappo, il gel pulente.
Bravi: la pezzetta per gli occhiali.
Sempre lei.
E c’è voluto ben poco a capire che né lo spray, né lei avevano un senso.
Pulito in quel modo, il telefono sta dopo cinque minuti tale e quale a come stava prima.
Lo schermo del computer viene bene anche passato con uno straccio pulito.
E non parliamo del mio televisore, che ha solo otto mesi di vita e che è la mia garanzia di vedere a casa mia il mio cinema, lasciando fuori dalla porta il mondo.

Insomma, per farla, diciamo, breve, io il senso della pezzetta degli occhiali non lo capisco.
E guardo con incredulità coloro che insudiciano ulteriormente le loro lenti passandocela sopra, dopo esserseli, gli occhiali, attaccati al collo come le merciaie in merceria; ballonzolanti sulla camicia; appesi al laccetto perché altrimenti se li dimenticano da tutte le parti, come se non ci fossero gli astucci, rigorosamente rigidi, altrimenti anch’essi non hanno senso, come se non ci fossero le giacche con le tasche, come se per quelli che stanno in professione, non ci fossero gli zaini, le cartelle, gli infiniti contenitori che servono a contenere, come ebbe a dire una mia studentessa, che disse una castroneria tale fino a un certo punto, gli «affetti personali».

Perché di affetti stiamo parlando, ovvero, di sentimenti.
Come facciamo sempre.
Vuoi se ci preoccupiamo della vita domestica.
O se ci facciamo da soli gli auguri di compleanno, quelli che, senza esibizione alcuna, rimangono però i più autentici.
O vuoi se ci chiediamo che senso abbiano le cose al mondo, tutte, da quelle più importanti, le cupole che danno il volto a un’epoca, le spezie che danno il sapore alla vita, le uscite con gli uomini (e con le donne, dipende dai punti di vista), casomai solo in via di amicizia.
E gli anni di studio, quindi, le lauree, alcune delle quali molto brevi.
I cibi, pure quelli cui diventiamo violentemente allergici, e ci sembra di aver perso un intero mondo.

In questo paesaggio, come sempre sfaccettato e casomai nemmeno triste, forse trovano un senso e un ubi consistam, come c’era scritto nei testi di storia dell’arte medioevale a proposito delle discese dei barbari, che da qualche parte cercavano di andare a stare, in questo set che fa tanto cinema, in questa nostra vita, forse pure le pezzette per gli occhiali hanno il diritto di starci.

Per me è un po’ una scommessa, quella di capire, più o meno cinematograficamente, qual è il loro ruolo.
Ma, come sappiamo, il cinema è movimento: quindi, vediamo che succede, a forza di muoverci, ovvero a forza di vivere, sulle nostre lenti e su tutti i nostri schermi.