L’Air du Temps (page 7 of 15)

L’Air du Temps è un profumo storico ancora esistente. Esso è frutto di una Maison senza la quale la moda, e nemmeno il mondo, sarebbero gli stessi. Il nome, tradotto, significa «L’aria del tempo». E intendo inserire qui gli articoli che dell’aria del tempo si occupano: tecnologia; amori con i diverticoli, ovvero intestinali, sensibili e dolenti; oppure amori asmatici, ovvero che procedono per attacchi e a intermittenza. E poi tutto il resto.

IL BUSO E IL TACON

Il ragazzino sembra uscito da un film di Larry Clark.
Sta fermo vicino ai cassonetti con in mano un pallone sgonfio.
Avrà undici anni.
Mi guarda con aria smarrita.
Gli chiedo se ha bisogno di qualcosa, mi dice se posso aiutarlo a capire dove buttare il suo pallone.
Nella raccolta indifferenziata.
E ciò nonostante i cassonetti siano tutti pieni fino a scoppiare, quindi logica vorrebbe che sia corretto usare quello con ancora un po’ di spazio.
Troviamo un buco per il pallone.
Gli chiedo se da grande vuole fare il calciatore. Dice che non lo sa.
Come, non lo sai, se Totti lo andavano a prendere i responsabili della Roma Primavera all’uscita del catechismo quando aveva otto anni.
Delizioso racconto che mi ha fatto una volta una signora della medesima parrocchia.
Il ragazzino non sa che cosa vuole fare da grande.
Gli auguro di fare qualcosa di bello.
Per favore, non lo youtuber.
Casomai l’ingegnere edile o il geografo.

Una cosa seria.

(Ma il pallone, non puoi ripararlo?)

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SOLVISPLEEN

Marlon Brando in Ultimo tanto a Parigi, 1972

Al terzo tentativo trovo i guanti usa e getta. Sono rimaste poche scatole sullo scaffale, il prezzo è raddoppiato già da qualche tempo.
Quanto a guanti, la differenza sostanziale fra me e Irina è che io li uso per tutto.
Lei non li usa per niente.
Io uso i guanti per pulire le scarpe, sbucciare aglio e cipolla, fare lavori di manutenzione in casa, cambiare l’acqua ai pesci rossi.
Durante il primo confinamento non si trovavano più guanti, quindi facevo tutto a mani nude.
Pure cambiare l’acqua ai pesci rossi.
Perché primo confinamento? Non lo so, faccio come faceva quella collega che definiva l’ex coniuge il suo primo marito. Manco fosse stata Liz Taylor che, se non stava attenta, faceva qualche confusione fra tutti.
Penso forse che ci saranno altri confinamenti? Non penso niente.
Dicevamo, i pesci rossi. Che sono viscidi, grassi, conciano la vasca come una stalla, poi bisogna stare attenti a lavarsi le mani prima di toccarli, per loro protezione, e molto bene dopo, perché uno ha  toccato la loro acqua immonda.
Uso un retino, ma loro sgusciano fuori come anguille.
Segno che sono in buona salute, sani come pesci.
I guanti di gomma hanno poca sensibilità, perfino quelli per i bicchieri di cristallo, che comunque metto in lavastoviglie.
Quindi i guanti per i lavori domestici non vanno bene per i pesci rossi.

Se Irina non vuole proteggersi le mani, smetto di dirglielo: durerà di più, la mia scorta.

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LA PALLA DI VETRO

Sfera di cristallo merovingia trovata nella tomba di Childerico I, sec. V d. C.

Sono arrivata alla trentesima settimana.
La creatura è già formata, cresce, deve solo sistemare i dettagli.
Si muove e certe volte mi sveglia la notte.
Nel senso che di notte mi vengono un sacco di idee.
E poi la creatura sono più disposta a pensare che sia nata come Atena, già armata, dalla mia testa, come la dea era nata, armata, dalla testa di Giove.
Sto dicendo che da sette mesi sto facendo lezione diversamente e che molte cose sono successe.
Ho arricchito il mio repertorio.
Non ho cambiato stile perché lo stile è quello mio, però ho messo a punto alcune sottigliezze.
Ho perso persone.
Ne ho acquisite altre.
Non è ancora tempo di bilanci e poi che me ne importa dei bilanci.
Anche perché ormai mi sono fatta l’idea che andremo avanti così, lo penso da mesi, penso che chissà se e quando tornerò a fare cose professionali in presenza.

E poi che me ne importa della presenza.

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ERRATA CORRIGE

Il sarto del Bangladesh a via Eurialo mi ha restituito i blue jeans rammendati.
Ha fatto un’operazione di altissima chirurgia, riprendendo, rappezzando, rattoppando, ricucendo strappi, squarci, buchi, laddove io pensavo che i miei pantaloni fossero irrecuperabili.
Sono i primi acquistati della marca svedese da me prediletta, già mostravano la corda, poi, praticamente non li ho tolti da quando è iniziato il confinamento, ovvero li ho sostituiti con altri blue jeans quando sono uscita per qualche occasione più interessante.
Erano già stati rammendati una prima volta, li avevo lasciati al negozio di Parigi, me li aveva ritirati un amico che va spesso su per lavoro, il rammendo era superbo, tutto il tessuto era stato ripreso filo per filo, ma la cosa più bella era stata la signorina alla quale li avevo consegnati, che li aveva abbracciati dicendomi: «Quanto erano belli, ho avuto anch’io questo modello e non li ho mai dimenticati».
Blue jeans come epoca esistenziale, prima o poi dovrò raccontarvi la storia di tutti quelli che ho in guardaroba.
Stavolta il rammendo è stato più rapido, ho detto al sarto ti do due giorni di tempo, non ho altro da mettermi (pare vero), ho pensato di portarli da lui perché viene da un paese dove alligna la miseria, loro recuperano tutto, figuriamoci se mi dice di buttarli.
Fra l’altro, ultimamente mi ha rammendato anche altro, per esempio le mie lenzuola antiche, è bravissimo, da loro si vive con l’idea che ogni pezza sia recuperabile, figuriamoci un lenzuolo ricamato, figuriamoci qualcosa da mettere addosso.
La cosa più divertente è che, quando glieli ho portati, lui ha passato in rassegna i blue jeans inventariando tutti i guasti, fra cui uno sbrego da quindici centimetri in zona sensibile, che non sta bene che una signora esponga al mondo.
Quando poi è arrivato agli strappi che stavano lungo la gamba, mi ha detto: «Questi te li lascio perché fanno moda».

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A GRATIS

La forma a gratis, attestata dalla fine dell’Ottocento e oggi comune nei livelli bassi di lingua, è sbagliata. Nella diffusione dell’errore avrà contato il parallelismo con l’espressione opposta a pagamento, ma anche la somiglianza con espressioni simili che contengono la preposizione a  (a sbafo, a scrocco, a ufo)
(La grammatica italiana, Treccani)

L’occasione, ghiotta, andò completamente buttata al secchio.
Il giornaletto con tutte le informazioni di quello che accadeva a Roma usciva ogni settimana ed era irrimediabilmente brutto.
Per dire, era più curata la grafica dello Svegliarino di Santa Maria del Tempio, località in Piemonte dove era nata mia madre, al quale lei era abbonata e che riceveva mensilmente, abbandonandosi, seduta sulla sedia della cucina e con nostalgia, alle notizie di casa, che si risolvevano in che cosa aveva fatto padre Felice, il parroco, un francescano che per davvero aveva i piedi nudi nei sandali e una lunga barba, quanti erano i nati e quanti i morti.
Ma lo Svegliarino, così fatto in casa com’era, era un prodotto onesto e affettuoso.
Il giornaletto con le notizie di Roma, no.
Nessuno si era preso la briga di chiedere a un grafico, giovane o esperto, di fare un progetto serio, la carta era misera, le rubriche avevano pure una loro logica, però si sarebbe potuto fare molto di più e meglio.
Compravo regolarmente la pubblicazione e contribuivo alle sue pagine con le notizie della mia attività professionale, mettendomi in contatto con una gentile signorina della redazione, squisita e disponibile, che non ho mai visto in vita mia e alla quale portavo un omaggio augurale a Natale, lasciandolo in portineria.

Fra le rubriche del giornaletto, ce ne era una intitolata Roma gratis o qualcosa di simile.
Ma prima devo raccontarvi un altro fatto.

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OTTOBRATA ROMANA

Roma, Villa Lazzaroni, primi di ottobre

Da Prada a via dei Condotti mi misurano la temperatura: ho 33°.
Mi faccio i complimenti, per essere vicina al rigor mortis, mi trovo piuttosto flessibile.
(Secondo me questi scanner termici non funzionano, ma guai a farlo notare).
«Mica vorrai comprarti una borsa».
«Voglio solo vedere la nuova collezione».
«Sì, ma tu non puoi comprarti una borsa in questo momento. Forse è meglio se non entri».
«Io entro dove mi pare e mi compro quello che voglio. E tu ti fai gli affari tuoi».
«Infatti: sono affari miei».
Quando discuto con me stessa, in qualche modo riesco sempre ad avere ragione.
Mi faccio mostrare da una snobissima signorina qualche modello nel loro Nylon vela, se la loro forma non durasse così poco, sarebbero borse perfette, leggerissime e capaci di farti fare una qualche figura quando ne hai bisogno.
La più economica costa la metà del mio stipendio.
Quella più costosa per via di un paio di striscioline di pelle, i tre quarti dell’ammontare, evidentemente non sufficiente a procurarsi gli accessori adatti, della mia retribuzione.
Non mi piace la chiusura lampo dorata, sarà il dettaglio rock ma la trovo troppo vistosa. Inoltre non ha la tracolla. La borsa solo con i manici come la sporta della spesa mi sta scomoda.
Ringrazio, non mi piace niente.

Almeno stavolta, mi è andata bene.

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GIOCARE. ESSERE GIOCATI.

Jean-Etienne Liotard, Nature morte à la chocolatière, sec. XVIII

Voi prendete le visite guidate. Sono la manovalanza e la gavetta dello storico dell’arte.
E ciò per motivi diversi, i principali dei quali vi elenco: 1. Vedi le opere sul campo; 2. Impari a gestire la relazione con il pubblico, ti accorgi se capiscono, se si annoiano, se ti stanno seguendo o se non vedono l’ora che finisca.
(E se non te ne accorgi, vuol dire che non capisci niente).
Io ho fatto visite guidate in quantità industriale; poi ho smesso perché mi ero stancata e ho delegato; poi ho ricominciato perché le facevo meglio io e perché non ne potevo più di sentirmi rispondere non il sabato, non la domenica. E quando le vuoi fare, le visite guidate, se non il sabato e la domenica, ovvero quando la gente può parteciparvi.
Ora tutto è sospeso.
E non mi dispiace per niente.
Anzi, credo che non farò mai più visite guidate, forse esaurirò un impegno in sospeso, ma mi sto chiedendo se c’è un motivo per cui, mettiamo, al Grand Palais di Parigi, il posto più illustre al mondo per le mostre, le visite guidate sono, con qualche rara eccezione, proibite e nelle mostre nostre ci sono praticamente solo visite guidate: per gruppi e scuole.

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TEMPERATURA

Non mi ero mai accorta di quanto la podologa fosse bassa.
Mi si para davanti con in mano una specie di pistola, le dico un momento, le chiedo che stai facendo, le dico facciamo che mi avverti se mi punti addosso questo aggeggio.
Capisco che è un termometro digitale in forma di spray per i vetri, le dico che se solo dal basso lei mi tocca la fronte, mi giro sui tacchi e me ne vado.
Lei si preoccupa, lei mi si avvicina solo quel tanto che basta, lei guarda il display.
Io le chiedo: «Quanto ho?».
Lei mi risponde: «34°».
La ringrazio per avermi dato la notizia: sono morta e non me ne sono accorta.
Le chiedo se si sente bene, le ricordo che lei è laureata, c’è scritto sulla gigantesca targa all’ingresso, e che quindi dovrebbe sapere qualcosa di fisiologia e che dovrebbe dedurre che se uno davanti a lei ha una temperatura di 34°, non è che gli fai un trattamento podologico.
Piuttosto, chiami le pompe funebri.
C’è giusto un’agenzia poco distante.
Tu li chiami e quelli si  prendono cura del cadavere.
Il mio.

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CAPUT MUNDI

Giovan Battista Piranesi, Frammenti della Forma Urbis Severiana, 1756

Mi trovo in un film di fantascienza e non so come ci sono finita dentro.
Fra l’altro, Roma non è la Los Angeles di Blade Runner, non solo non piove, ma là in alto il sole addirittura splende.
Mi deve essere successa una cosa tipo Alice quando cade nel buco, non mi ricordo mai se invece era la tana del coniglio, o come la protagonista di 1Q84, che passa da un mondo all’altro e l’altro si riconosce perché ha due lune.
Ma pure lì c’è un atto, un inizio, un segno: Aomane abbandona il taxi, imbottigliato nel traffico, sul quale si trova e si dirige verso la grande insegna pubblicitaria della Esso.
Glielo ha consigliato il tassista stesso: lì c’è una scala per scendere al livello inferiore.

A me nessuno ha consigliato niente, mi ritrovo in un film di fantascienza e non so come ci sono finita dentro.
Di uscirne, proprio non se ne parla.

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IMPRESSIONI DI SETTEMBRE

Constantin Hansen, Elise Købke, ragazzina, con una tazza davanti, 1850

Sto arrampicata sulla scala e sistemo le scatole di fazzoletti nello sportello in alto dell’armadio della cucina.
Irina/Irene, che ama farsi i fatti miei, arriva con lo straccio in mano, guarda, resta a bocca aperta e mi chiede perché ho tutte quelle scatole di fazzoletti.
«Perché sono una piagnona».
E le spiego la locuzione italiana avere le lacrime in tasca.
Io sono una con le lacrime in tasca.
Piango perché mi commuovo; piango perché sono triste; piango, ovviamente, per amore; piango perché sono preoccupata per il futuro.
(Veramente anche per il presente).
Eccetera.
A dar retta a me, la vita è una valle di lacrime.
Lei mi chiede se piangere fa bene.
Attacco una disamina del pianto, che esprime e libera le emozioni che, tenute dentro, fanno male.
Poi chioso che, potendo, io non piangerei. Per le due lacrimucce che mi scendono quando mi commuovo, faccio presto a riprendermi, basta lo stick per il contorno occhi con la biglia metallica che tengo in frigo.
Per le sere storte, impiego due giorni di impacchi di camomilla fredda cambiati ogni quindici minuti e accompagnati dalla cantilena quanto sono scema, quanto sono scema.

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