L’Air du Temps (page 15 of 15)

L’Air du Temps è un profumo storico ancora esistente. Esso è frutto di una Maison senza la quale la moda, e nemmeno il mondo, sarebbero gli stessi. Il nome, tradotto, significa «L’aria del tempo». E intendo inserire qui gli articoli che dell’aria del tempo si occupano: tecnologia; amori con i diverticoli, ovvero intestinali, sensibili e dolenti; oppure amori asmatici, ovvero che procedono per attacchi e a intermittenza. E poi tutto il resto.

CARTOLINE DAL PONTE, 1: LE UOVA DI FATMA

Ieri sono stata a tavola tre ore.
Uno dice chissà quanto hai mangiato e invece no, ho mangiato quello che mangio normalmente, forse poco più del solito anche se certamente più esotico, perché ho mangiato tutta una serie di antipasti egiziani, che erano però in porzioni piccole, colorate, tutte messe con molta eleganza nei piatti, c’era anche di lato un piccolo tavolino di servizio dove ne sono arrivate altre.
Alla fine ho mangiato pure una Tarte Tatin calda che, al contrario di come è di regola questo dolce, basso, con fette larghe, era un parallelepipedo alto, con sopra le mele caramellate.
Cioè, non ho mangiato un intero pezzo di Tarte Tatin perché ci siamo fatti portare una sola porzione, con due forchette.
Allora uno dice per tre ore che hai fatto.
Ho parlato.
Parlato e ascoltato parlare, in una di quelle situazioni che certe volte si creano e altre no e poi tu va’ a capire come e perché con qualcuno funziona e, con qualcun altro, no.

E di che cosa hai parlato. Continua a leggere

e-Commerce, e-Life


Una delle cose che più mi ha fatto soffrire ultimamente è stato un sms (attenzione, non un WhatsApp) della signora Annita (due n), titolare della bottega di riparazioni alla quale da un pezzo portavo a riparare la mia stirella.
La bottega stava prima sulla Nomentana, poi, di recente, si erano trasferiti a via Tripoli.
Quindi, quando serviva, io mi incollavo il mio pesantissimo elettrodomestico, sopportavo che al garage dove tengo la macchina (e mi faccio arrivare i pacchi) mi chiedessero se avevo tagliato un’altra testa (avvolgo la stirella in una busta robusta e la tengo come Salomè tiene il Battista), caricavo l’ingombro, parcheggiavo in seconda fila e scaricavo l’impiccio.
Che veniva puntualmente riparato, qualunque malessere avesse.
Anzi, me lo restituivano sempre, non solo revisionato, ma anche con il cavo sistemato professionalmente e tutta la caldaia avvolta in una pellicola il cui perfetto avvolgimento mi sconsigliava quasi di disfarlo.
Il fratello della signora Annita, il tecnico, quando andavo a ritirare l’animale, mi diceva per carità, se la tenga cara.
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WHATSAPP IN FORMA DI HAIKU

Per prima cosa, le spunte.
Così ce le togliamo di mezzo.
Ho chiesto ai miei due contatti, che poi solo contatti non sono, perché sono entrambi miei studenti, quindi sono qualcosa di più di uno sfioramento, che hanno  disattivato le spunte, perché lo avevano fatto.
Ora, secondo me, WhatsApp senza le spunte è come la carbonara senza il guanciale e senza l’uovo; come il Natale senza regali; come la cena senza vino; come la mostra multimediale senza opere vere.
Una cosa in bilico fra l’assurdo e la perversione.
No, dico, se tu usi WhatsApp, ti prendi pure le spunte.
E se non sopporti il confronto con le spunte (e ti capisco), allora trova un altro dispositivo veloce di messaggistica. Questo qui è istantaneo per nascita e vocazione.
Quindi, se fai vedere che hai ricevuto (spunte blu) dopo due ore e mezzo o se non fai vedere niente (spunta grigie)  costantemente, facciamo che comunichiamo in altro modo.
Oppure, che non comunichiamo per niente.
La vita è stramba, illogica, priva di senso, non vedo perché aggravarne la percezione via WhatsApp.
Lo so, che non ci capiamo.
Peggio sarebbe se non avessimo niente da dirci.
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PER FAVORE LASCIATE UN MESSAGGIO

Non ho mai mandato un WhatsApp vocale.
Mi sembra di avere capito che basta schiacciare l’iconcina con quel microfono che sembra un fiore e inviare.
Ma non mi sembra di vedere il passaggio intermedio che sarebbe il riascolto, quello che corrisponde alla rilettura di un testo scritto.
L’hanno saltato.
Per esempio, il riascolto sta in tutti i file audio che registro per lavoro, funzione che dà la possibilità di cancellare, rifare, perdere mezza giornata appresso a una consonante.
Voi mi direte che il riascolto non c’era nemmeno quando si lasciava un messaggio su una segreteria telefonica. D’accordo, ma quello era e sembrava un telefono, il meccanismo mentale era il medesimo, ti chiamo, non ti trovo, dico alla tua segreteria quello che volevo dire a te.
Certe volte era pure meglio.
Ammetto di essere stata una grande sostenitrice delle segreterie telefoniche.
Ma procediamo con ordine.

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AMORE E PARANOIA AL TEMPO DI WHATSAPP

Nemmeno troppo tempo fa, era comunque una sera prossima a un Capodanno, mi presi il pollice della mano sinistra nella porta scorrevole della mia cucina.
Appartengo al genere femminile, quindi sono un po’ un coltellino svizzero, ovvero, come si dice, multitasking; facevo allora quattro cose alla volta: cucinavo (probabilmente un alimento invasivo. Da cui la necessità di isolare la mia cucina. Certo è che, se faccio bollire l’acqua del tè la mattina, la porta resta aperta);  prendevo un  appunto su una lezione che volevo fare; scrivevo un messaggio in risposta a un messaggio perentorio; appunto: chiudevo la porta.
Sono una donna astratta ed elegante. Dunque, non ho imprecato, anche se mi sono fatta malissimo.
Ho, semplicemente, infilato il mio povero dito nel ghiaccio.
E ho lasciato perdere tutto il resto.
Per mesi, ho detto per mesi, l’unghia del mio pollice sinistro è stata nera. Ma nera sul serio.
Non sto nemmeno a raccontare quanto tempo è passato prima che io potessi riavere un dito normale.
Fatto sta, e qui sta il punto, che, per parecchio tempo, tutte, ma proprio tutte le persone che incontravo mi chiedevano che cosa mi ero fatta al dito.
E se avevo WhatsApp.
Lo capisco, non c’è collegamento.
Ma queste erano le domande che mi sentivo rivolgere più spesso.

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