
Giandomenico Tiepolo, Il Mondo Novo, 1791
Non penso mai a quanto sono fortunata.
Devo ricordarmi di pensare a quanto sono fortunata.
Faccio un lavoro che amo, la galera è stata lunga e certe volte si ripresenta, ho una quantità tale di anni di pendolarismo sulle spalle che li sento ancora tutti e continuamente, ma, nella sostanza, faccio esattamente quello che avrei voluto fare, non ho dovuto rinunciare a niente, ho un lavoro intellettuale, che, per definizione, non è mai ripetitivo; non faccio mai due giorni di seguito la medesima cosa; non vedo mai due giorni di seguito le stesse persone; decido liberamente che cosa fare e quando; non ho mai smesso di studiare, nemmeno un giorno; certe volte ho anche libertà di creazione, posso, dunque, inventare e inventarmi.
Eccetera.
Per non citare il fatto che la maggior parte del tempo della professione lo consumo nel mio studio, cioè in un ambiente che mi sono fatta a mia misura, posso decidere se interrompere per pranzo, se andare a farmi una passeggiata, se portarmi un calice di vino al computer mentre preparo una lezione, se fare una telefonata o scrivere un messaggio.
Nessuno mi controlla. Devo rendere conto solo a me stessa.
Di tutte le cose che non vanno, di quello che vorrei diverso, nemmeno è il caso di parlare, anche se vorrei molto, di diverso e di altro.
Ma i tempi sono quello che sono e, soprattutto, sto leggendo un libro che, nella sua, apparente, leggerezza, mi stringe ogni momento il cuore.
Ora vi racconto.