L’Air du Temps (page 13 of 15)

L’Air du Temps è un profumo storico ancora esistente. Esso è frutto di una Maison senza la quale la moda, e nemmeno il mondo, sarebbero gli stessi. Il nome, tradotto, significa «L’aria del tempo». E intendo inserire qui gli articoli che dell’aria del tempo si occupano: tecnologia; amori con i diverticoli, ovvero intestinali, sensibili e dolenti; oppure amori asmatici, ovvero che procedono per attacchi e a intermittenza. E poi tutto il resto.

UP UP! START UP

Giandomenico Tiepolo, Il Mondo Novo, 1791

Non penso mai a quanto sono fortunata.
Devo ricordarmi di pensare a quanto sono fortunata.
Faccio un lavoro che amo, la galera è stata lunga e certe volte si ripresenta, ho una quantità tale di anni di pendolarismo sulle spalle che li sento ancora tutti e continuamente, ma, nella sostanza, faccio esattamente quello che avrei voluto fare, non ho dovuto rinunciare a niente, ho un lavoro intellettuale, che, per definizione, non è mai ripetitivo; non faccio mai due giorni di seguito la medesima cosa; non vedo mai due giorni di seguito le stesse persone; decido liberamente che cosa fare e quando; non ho mai smesso di studiare, nemmeno un giorno; certe volte ho anche libertà di creazione, posso, dunque, inventare e inventarmi.
Eccetera.
Per non citare il fatto che la maggior parte del tempo della professione lo consumo nel mio studio, cioè in un ambiente che mi sono fatta a mia misura, posso decidere se interrompere per pranzo, se andare a farmi una passeggiata, se portarmi un calice di vino al computer mentre preparo una lezione, se fare una telefonata o scrivere un messaggio.
Nessuno mi controlla. Devo rendere conto solo a me stessa.
Di tutte le cose che non vanno, di quello che vorrei diverso, nemmeno è il caso di parlare, anche se vorrei molto, di diverso e di altro.
Ma i tempi sono quello che sono e, soprattutto, sto leggendo un libro che, nella sua, apparente, leggerezza, mi stringe ogni momento il cuore.
Ora vi racconto.

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PECCATO CHE SIA UNA CANAGLIA, terza parte: L’ARTE, SI IMPARA

Francesco Giustozzi, Moulin Rouge!, 2001-2015

Che rabbia.
Mi fanno una rabbia.
Sto lì e provo continuamente un sentimento di rabbia, che, in fondo, è un bel sentimento.
Diverso e opposto alla rassegnazione, al vuoto tranquillo romano, al pantano nel quale da mesi affondo.
Ma non è solo rabbia, è anche invidia, è desiderio di partecipare, è l’allegria del rimbocchiamoci le maniche, è, a farla breve, vita che scorre impetuosamente e ti dice che l’arte sta tutta lì, a portata di mano, e che è importante, per tutti, non solo per quelli che ci lavorano dentro.
Voi prendete un museo piccolo, che so, il Musée de la Vie Romantique, che ho già citato a proposito di Madame Récamier e che, dice la mia guida, si visita in trenta minuti (per il Louvre ci vogliono, e non bastano, trent’anni).

Salon de Thé e serra, Musée de la Vie Romantique, foto MVR

Voi prendete un uomo che ti dà un appuntamento al Museo della vita romantica, nella serra del Salon de thé, non in un bar di piazza Mazzini.
Tutta un’altra musica, no?

Ci vuole così poco, a sedurre una donna.

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PECCATO CHE SIA UNA CANAGLIA, seconda parte: DEL PIACERE DELLA TAVOLA E DI QUELLO DEGLI ACQUISTI

Foto del mio viaggio di studio a Parigi, agosto 2019

Manger = mangiare. Se fossi un cibo, sarei un oeuf mollet, ovvero un uovo che non è à la coque, troppo infantile, proprio non ci tengo, ma che non è nemmeno sodo, stadio finale dell’alimento, non più reversibile.
L’oeuf mollet si fa così: per prima cosa bisogna portare l’uovo a temperatura ambiente; poi si mette un pentolino con dell’acqua sul fuoco; l’acqua deve essere bella salata, aiuterà a sgusciare l’uovo; si aspetta che l’acqua frema, con le bolle; a quel punto si appoggia delicatamente l’uovo su una schiumarola e lo si tuffa nell’acqua, sul fondo del tegame; si punta il timer a 6 minuti spaccati; quando il timer suona, si prende l’uovo con la schiumarola e lo si mette in una ciotola con acqua fredda preparata all’uopo.
Dopo poco si potrà sgusciare l’uovo agevolmente e lo si potrà mettere su un tagliere. Aprendolo in due per la lunghezza, rivelerà il suo segreto: compatto fuori, cremoso dentro.
Sono un po’ così, una dura dal cuore tenero.
E pure l’acqua salata mi sta bene, visto che non amo il dolce e che sono una piagnona.
Come sappiamo, le lacrime sono salate, lo dice pure una canzone.
Se c’è chi non è d’accordo con la mia presentazione, può sempre farmelo sapere e proporre altro.

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PECCATO CHE SIA UNA CANAGLIA, prima parte: EROS e THANATOS

Foto del mio viaggio di studio a Parigi, agosto 2019

Eros. Hic manebimus optime. Mi sistemo adeguatamente nella mia mini suite. In essa, un architetto che sa il fatto suo ha spremuto tutte le possibilità dei 16 metri quadri e ha separato gli ambienti.
C’è perfino un’anticamera con le sue due porte, che ti mette al riparo dal rumore e dalle invasioni di campo.
Letto magnifico, alto, con una valanga di cuscini, quando entri, immacolato; zona toilette; cuvette separata e chiusa da due ante, con mensola, tutta l’attrezzatura e bella illuminazione; magnifica doccia, grande, con mattonelline di 5 centimetri per lato; asciugamani bianchi di spugna pesante, presentati uno sopra l’altro su uno sgabello, praticamente una montagna.

Ci vuole così poco a fornire una dotazione adeguata di teli e salviette a una donna lontana dalle comodità della sua stanza da bagno.

Ma il momento più alto è il bar, più di un mobile come, nella migliore delle ipotesi, ti trovi in albergo. Esso è proprio uno spazio pensato a parte, rifulgente di specchi e luci, vetri, cassetti frigorifero con dentro meraviglie.
Apro gli sportelli e guardo.

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L’INVENTARIO, 25. IL CONTROESODO

Bollino giallo, rosso e, oggi, nero.
Praticamente, l’incubo.
I bollini mi ricordano la nonna materna, la piemontese, che faceva la raccolta di quelli della VeGé, che esiste ancora.
La nonna, in estate, quando stavo da lei in vacanza, mi mandava a fare la spesa in bicicletta lontano dalla cascina dove stavamo, che si chiamava Cantamessa, le case spesso lì hanno un nome, allora andavo a fare la spesa, con la grossa sporta attaccata al manubrio e il rischio di cadere al ritorno con la sporta piena, andavo a raccogliere i bollini invece di stare tutto il giorno per strade e campi con la mia amica grande.
Lei aveva almeno dieci anni più di me, io, di anni, ne avevo cinque, sei, sette.
Lei si chiamava Gabriella.
Le piacevano i bambini e avrebbe fatto la maestra.
A scuola era somara e la rimandavano sempre, per cui passavamo anche del tempo sotto il portico di casa sua con lei che studiava e io che le facevo compagnia.
Lei mi ha insegnato ad andare in bicicletta, quattro ruote, tre, due, giù nel fosso.

Ma ormai era fatta.

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L’INVENTARIO, 22. PICCOLO ARTICOLO MANCANTE

Qui frappe?

Gli uomini, si sa, non maturano mai.
Figuriamoci i fratelli più piccoli (ora, più giovani), quelli, poi.
Ho un fratello più giovane (una volta, più piccolo), avevamo stanze contigue, con scrivanie separate solo da una porta a vetri, mai utilizzata perché nelle nostre camere c’erano altre porte.
Lui faceva il liceo scientifico, era molto bravo in matematica, però faceva temi sdutti e secondo me pure miserabili e io, che facevo il liceo classico e facevo temi bellissimi, ero un’intellettuale, frequentavo solo intellettuali e sapevo che avrei fatto una vita da intellettuale, consideravo lui e i suoi compagni di scuola dei deficienti.
Soprattutto quando qualche amichetto veniva da lui a fare i compiti.
A un certo punto si sentivano dalla stanza accanto dei colpi alla porta, poi delle risate sgangherate.

Non solo mi disturbavano perché stavo studiando, ma il motivo di quelle risate era capace di infastidirmi ancora più del disturbo.
Ora vi racconto.

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L’INVENTARIO, 19. COME VENIRE BENE IN FOTO: I BAGNANTI

Joaquín Sorolla y Bastida, La barchetta a vela, 1909

Leggo un’intervista a un cineasta che ha girato un film in estate.
È francese, ovviamente, non sopporto più gli italiani, stavolta è per sempre, e gli americani sono troppo industriali, in questi giorni ho voglia di cose amatoriali, ho voglia di sentimenti.
Guillaume Brac, così si chiama il regista, è giovane, poco più che quarantenne, ammira alcuni dei colleghi, fatto che apprezzo molto, e dice cose che avevo giusto in mente ma che non mi uscivano fuori.

Guillaume Brac

Rendere effabile l’ineffabile, come sintetizzava con un ottimo senso della formula a proposito di Leopardi il mio professore di Italiano al liceo.
Brac parla di una piccola città al nord, ho controllato, Ault ha 1.741 abitanti, io l’avrei chiamata un paese, ma i francesi, si sa, hanno tutta una loro logica intrisa di grandeur.
Parla del materiale emozionale dell’estate, un mercato, una discoteca, «une baraque à gaufres», che è una cosa che sta da quelle parti, praticamente una baracchetta che vende le loro cialde, parla di treni, di stazioni, dice che girare in spiaggia è facile perché dopo un po’ nessuno ci fa più caso, inoltre lui usa una vecchia 16 mm, che è una cosa popolare, economica, quindi finisce che tutti pensano che la troupe sia fatta di studenti o, appunto, di amatori.
Parla della marea, che là è un problema, tu sistemi tutto, ti giri e il mare si è mangiato cinque metri di spiaggia.
Parla del tempo che cambia di continuo, cosa che permette di giocare su tutta una gamma anche di emozioni.
E parla del corpo.

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L’INVENTARIO, 16. COME VENIRE BENE IN FOTO: LA COPPIA

Sir Peter Paul Rubens, Autoritratto con Isabella Brant, 1610

In linea di massima, nelle foto assomigliano tutti a degli ortaggi, in certi casi anche abusati: torsi di broccoli, carciofi, cavoli, non vado avanti perché altrimenti passo il segno.
Lo dicono tutti, l’amore è una cosa meravigliosa, ma poi bisogna saperlo ritrarre, non si può cadere in questa banalità inguardabile, qui c’è bisogno di artisti, qui c’è bisogno di storia dell’arte.

Dunque, seguitemi. Vi spiego come fare.

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L’INVENTARIO, 13. COME VIVERE UNA HIGH LIFE

Liz Taylor e James Dean, Il Gigante, 1956

La mia donna dai capelli di fuoco di legna
Dai pensieri a lampi di calore
Dalla vita di clessidra…
(André Breton, L’union libre, 1931)

Stavo preparando una lezione. Incontro questa American fashion designer, Anne Fogarty, nata nel 1919 e molto brillante, come idee e come scrittura.
A un certo punto il Philadelphia Museum le manda qualcuno per prenderle le misure per fare un manichino sul quale esporre l’abito da lei indossato in occasione  della consegna di un premio.

Lei arriva al museo, trova il volto del manichino molto bello e comincia a vestirlo. Ma non riesce a chiudere la cerniera del vestito.
Orgogliosamente, ci fa conoscere il suo giro vita: 18 pollici.
Faccio la conversione, un pollice = cm 2,54; prendo la calcolatrice; moltiplico 2,54 per 18; ricomincio daccapo perché penso di essermi sbagliata; non mi sono sbagliata.
Mi alzo dalla mia scrivania e vado in guardaroba a prendere la mia scatola da cucito.
Tiro fuori il metro da sarta.
Misuro il mio giro vita.
Ricontrollo.
Non conosco l’altezza di Anne Fogarty, ma qualunque essa sia, mi chiedo dove lei abbia messo tutte le cose che di solito stanno in una pancia, tutte più o meno indispensabili per stare al mondo.
Con i suoi cm 45,70 di giro vita, la signora mi sembra un po’ troppo esile perché dentro di lei ci stia tutto quello che deve starci.

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L’INVENTARIO, 11. TUTTA MIA LA CITTÀ

Illustrazione Ryo Takemasa

Stanotte ho sognato che mi avevano rubato la macchina.
L’avevo parcheggiata poco distante da un albergo dove dovevo andare per una cosa di lavoro. Alla reception avevo trovato uno dei commessi dell’alimentari di via della Croce dove, quando vado in Accademia, mi faccio fare un panino.
Sono uscita e al posto della mia macchina ce ne erano altre due.
Ho guardato meglio.
Non l’ho vista.
Ho sentito la mia voce che implorava «Qualcuno può aiutarmi? Qualcuno può aiutarmi?» un numero infinito di volte.
Mi sono svegliata alle sette e un quarto con il cuore il gola.
A quel punto mi sono detta approfitto del mattino e vado a fare quello che devo fare.
Un po’ mi è dispiaciuto, avevo deciso di dormire fino a tardi.
Subito dopo colazione, ho chiamato il garage e ho chiesto di prepararmi la macchina perché dovevo uscire.

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