L’Air du Temps (page 11 of 15)

L’Air du Temps è un profumo storico ancora esistente. Esso è frutto di una Maison senza la quale la moda, e nemmeno il mondo, sarebbero gli stessi. Il nome, tradotto, significa «L’aria del tempo». E intendo inserire qui gli articoli che dell’aria del tempo si occupano: tecnologia; amori con i diverticoli, ovvero intestinali, sensibili e dolenti; oppure amori asmatici, ovvero che procedono per attacchi e a intermittenza. E poi tutto il resto.

CORONA BLUES, 9: À LA GUERRE COMME À LA GUERRE

Scarpe con suola in legno e ferro (di cavallo), Seconda guerra mondiale

Le ore passavano lentamente; non avevamo niente da fare, e non facevamo niente

Simone de Beauvoir, L’età forte

Al filo diretto della rassegna stampa la giornalista parla con una donna con la voce rotta dal pianto.
Lei le dice che si guadagna da vivere facendo i servizi a ore, che non ha un mezzo proprio e che ora ha paura a prendere l’autobus.
La giornalista ci pensa su un attimo, poi le risponde che le pulizie domestiche non sono servizi indispensabili.
Se lo dice lei.
Il conduttore si rivolge al ministro, donna, delle Pari Opportunità con una domanda che a me non sembra scema: come fare con la baby sitter, la colf e la badante, che vengono da fuori casa e che quindi possono portare contagio.
La signora ministro risponde che tanto sono tutte in regola e che pure con loro si rispetta la distanza di un metro.
Dopo l’eros via chat o WhatsApp, che può pure avere il suo appeal, insomma, dipende da chi c’è dall’altra parte, adesso anche la cura dei piccoli e degli anziani senza contatto fisico.
Per le pulizie, medesima cosa.
Adoro le donne in professione, anche quando sono di fronte a interrogativi metafisici che stenderebbero un bufalo, sono capaci di tenere i piedi ben piantati per terra.

Ma fatemi il piacere.

Continua a leggere

CORONA BLUES, 8: L’AMORE FRA LE ROVINE

Lee Miller, Among the Ruins of the Blitz, London, 1941

La mamma ha (quasi) sempre ragione. Mi esasperavano, le litanie di mia madre.
Mi esasperavano e le trovavo fuori luogo.
Nel senso che quello che lei diceva non mi riguardava, avrei gradito un’educazione più personalizzata e non quelle sue cantilene generiche.
Fra tutto quel borbottio continuo, quel rosario sgranato, trovavo particolarmente irritante il suo «da’ tempo al tempo».
Io, il tempo, lo volevo tutto dalla mia parte.
E poi quel suo ritornello «tu non sei mai contenta perché non ti accontenti mai». Da sempre mi sfugge perché ci si debba accontentare.
E quell’altro, «guarda chi sta peggio di te» che, però, mi torna continuamente in mente in questi giorni, un po’ sospesi, con un ritmo tutto loro che sto cercando, non mi sembra, infatti, che stiamo così male.

Anzi, so che c’è chi è stato peggio.
Per esempio in questi giorni mi tornano continuamente in mente alcuni fatti di cui ho letto, successi nella Seconda Guerra mondiale.

Continua a leggere

CORONA BLUES, 6: SEGNI DI VITA

Al supermercato fai trenta minuti di fila per entrare.
Belli sgranati.
Dentro e fuori, indossano tutti mascherina e guanti, anche il pakistano dei cestini e dei carrelli che guadagna quattro soldi stando lì dalla mattina alla sera (con l’intervallo del pranzo) e la mendicante all’uscita seduta su una cassetta.
Il Direttore mi fa il segno dei muscoli con tutte e due le braccia quando gli chiedo come va.
Uno dei ragazzi mi dice che l’Appia Nuova ormai sembra sempre quella della domenica mattina, quando lui attacca alle sette.
Comunque, nessuno di noi ha mai visto niente di simile in vita sua.
Certo, abbiamo visto città simili al cinema.

Ma mai, così, la città nostra.

Continua a leggere

CORONA BLUES, 5: VIRUS PORN, seconda parte

Villa Cimbrone, Ravello

Il contagio. Parlerei più di addizione che di dipendenza. Addizione nel senso di aggiungere. La dipendenza mi sembra altro. Se sei dipendente dal fumo, è difficile che tu possa aumentare la tua quantità di sigarette giornaliere. Se sei dipendente dall’alcol, pure lì di solito non vai oltre un certo limite.
Di solito.
Invece è addizione, per esempio, quella dei tatuaggi, per cui ieri uno dei ragazzi maschi del mio parrucchiere, che già si era tatuato da poco il braccio destro fino a ricongiungere il disegno con quello che aveva da prima sulla spalla, mi continuava a dire ma come, non vedi niente.
A ben guardare, si era tatuato pure il braccio sinistro. E aveva sopra un teschio enorme, che era tale fino alla conca nasale inferiore e che poi diventava un grande occhio, molto truccato, con lunghe ciglia, di colore verde. Una decorazione che, di notte, se entra una lama di luna piena nella tua stanza e ti svegli, la vedi e non ti ricordi quello che ci hai messo, ti fa prendere un colpo.
Perché con i tatuaggi sembra che non ci si possa fermare.
Come con i piercing, che pure loro sono come i baci e le ciliegie: uno tira l’altro.
Ed è così, evidentemente, anche con tutto ciò che si può aggiungere al corpo, come ci dice chiaramente un universo oggi così facilmente accessibile: quello del porno.

Continua a leggere

CORONA BLUES, 4: VIRUS PORN, prima parte

Io sono il Prologo. Vigliacchi.
Ipocriti.
Codardi, anzi, fifoni.
Io lo so, quello che fate en cachette.
Però quando vi chiedo di accompagnarmi, niente.
E nessuno.
Nemmeno quelli che chiamano tre volte al giorno, cioè ventun volte a settimana; quelli che dicono se vuoi, ti passo a prendere tutte le volte che hai lezione (continuamente); quelli che ti accompagnerebbero pure all’inferno, se tu solo lo chiedessi.
Appunto, all’inferno.
Ma non dove chiedevo di essere accompagnata io.
Mica ci potevo andare da sola. In realtà ci avevo pure pensato, però qualcosa mi diceva che mi sarei messa in un guaio.

Comunque alla fine la mia tenacia fu premiata.
Dunque adesso vi racconto come fu che, da ragazza, finalmente riuscii ad andare a vedere un film in un cinema porno.

Continua a leggere

CORONA BLUES, 3: LOVE ME TENDER

Titoli di testa. In terza media ero a studiare dalla mia compagna Wanda, una ragazza intelligente e brillante.
Si ragionava su quale scuola scegliere di lì a poco. Arriva il padre, entra nel discorso, taglia corto e dice che la figlia non l’avrebbe mandata al liceo.
Il motivo.
Poi lei sarebbe diventata una cavallina di razza.
E il mondo è pieno di somari.
E, allora, una cavallina di razza, con chi l’accoppio?
Il ragionamento non faceva una piega, l’unico errore di impostazione stava nel fatto che cavalli di razza si nasce e non si diventa.

Non ho più rivisto Wanda dopo la fine della scuola.
Comunque suo padre aveva ragione: il mondo è pieno di somari.

Continua a leggere

OH, MY DARLING

Scena numero 1. La prima volta fu in un ascensore del MET.
Metropolitan Museum of Art.
New York.
Un negrone (sì, ho scritto negrone) alto quasi due metri, con secchio e straccio in mano, mi guarda, ciondola la testa e fa: «Have a nice weekend».
Io, che stavo stupefatta davanti a tutto, trovai questo augurio personalizzato e generoso.
Risposi a tono.
L’ascensore arrivò alla terrazza, allestita come una sala del museo, prima mi affacciai su Central Park, poi mi sedetti su una panca che avevano installato lì sopra.
Stavo al centro del mondo.
E quel mondo era accogliente, beneaugurante, al ristorante mi dicevano «Enjoy».
In ascensore, «Have a nice weekend».
Che volevo di più.

Continua a leggere

CORONA BLUES, 1: I SENTIMENTI FRA ASSEDIO E QUARANTENA

Raffaello, Incendio di Borgo, 1514, part.

Ma chi l’ha detto ma perché
Non devo più pensare a te…

Quasi mi insulto:
«Perché non lo hai ancora ricomprato».
«Perché vado tutte le settimane in centro e lo compro quando voglio. E poi ho trovato chiuso il negozio a piazza di Spagna».
«Potevi comprarlo da queste parti. Metti che non arrivino i rifornimenti, non lo trovi più nemmeno in internet».
«Comunque ho ancora più della metà dell’altro».
«Sì, però, se non arrivano i rifornimenti, come fai senza fondotinta».

«Se è per questo, ho quasi finito anche il correttore».

Continua a leggere

NELLE MIE CORDE

Paul Duqueylar, Orpheus, 1800

La strada statale Aurelia ha il numero 1 e arriva fino in Francia.
A dirla tutta, uno non pensa che un’arteria così importante sia anche così inospitale. È larghissima, una specie di autostrada, e ha marciapiedi stretti, attacca da piazza Irnerio, che non è nemmeno una piazza, pensavo, vedendola, a Times Square, che però ha un altro fascino.
La metropolitana mi ha lasciato un po’ lontano, cammino volentieri, mi dico che per fortuna la segretaria del professore mi ha spostato l’appuntamento dalle 19:20 alle 16:40, almeno è ancora giorno.
Supero una zona militare, negletta, supero una casa religiosa, tutto intorno a me è brutto, il mercato chiuso con l’odore di pesce, un paio di alberghi.
Arrivo alla clinica, sta al 559. C’è un parcheggio ma è stracolmo, ho fatto bene a non venire in macchina.
Mi perdo un po’ all’interno del labirinto di corridoi, mi dico che deve essere tristissimo stare in un posto così squallido se ti fanno una diagnosi infausta, ripenso a quello che scrive Gio Ponti: «amate i buoni architetti moderni…essi devono fare…cliniche perfette per la vostra guarigione…esigete da loro città felici e civilissime».
Il pensiero di Gio Ponti, anche in tanto squallore, come sempre mi riconforta.
Adesso faccio così: vado all’appuntamento con il mio foniatra, lui mi fa una visita di controllo, poi ci sediamo a tavolino io e lui, ci guardiamo negli occhi e io gli chiedo: «Professore, che vogliamo fare della mia professione, ovvero della mia esistenza».

Continua a leggere

LE PASSEGGIATE DELLA DOMENICA SERA

Sono sempre molto vicina ai suicidi.
Da un pezzo non penso più se si sarebbe potuto fare qualcosa, il suicidio è un atto molto complesso, alla realizzazione del quale concorrono più fattori, quindi tutto sfugge, anche se ogni tanto mi chiedo che cosa sarebbe successo se fosse suonato il citofono, squillato il telefono, se fosse arrivato un WhatsApp.
Diciamo che credo che la decisione sarebbe solo stata rimandata.
Quando penso al suicida, penso alla sua solitudine e alla sua paura.
Ci penso anche a distanza di decine di anni, è un pensiero dal quale non riesco a liberarmi.
Comunque nel 1940 uno non si portava dietro il telefono e non c’era nemmeno WhatsApp. Quindi la decisione di Walter Benjamin di, si dice così, togliersi la vita si sarebbe potuta trasformare in altro solo in altro modo.

Continua a leggere