La strada statale Aurelia ha il numero 1 e arriva fino in Francia.
A dirla tutta, uno non pensa che un’arteria così importante sia anche così inospitale. È larghissima, una specie di autostrada, e ha marciapiedi stretti, attacca da piazza Irnerio, che non è nemmeno una piazza, pensavo, vedendola, a Times Square, che però ha un altro fascino.
La metropolitana mi ha lasciato un po’ lontano, cammino volentieri, mi dico che per fortuna la segretaria del professore mi ha spostato l’appuntamento dalle 19:20 alle 16:40, almeno è ancora giorno.
Supero una zona militare, negletta, supero una casa religiosa, tutto intorno a me è brutto, il mercato chiuso con l’odore di pesce, un paio di alberghi.
Arrivo alla clinica, sta al 559. C’è un parcheggio ma è stracolmo, ho fatto bene a non venire in macchina.
Mi perdo un po’ all’interno del labirinto di corridoi, mi dico che deve essere tristissimo stare in un posto così squallido se ti fanno una diagnosi infausta, ripenso a quello che scrive Gio Ponti: «amate i buoni architetti moderni…essi devono fare…cliniche perfette per la vostra guarigione…esigete da loro città felici e civilissime».
Il pensiero di Gio Ponti, anche in tanto squallore, come sempre mi riconforta.
Adesso faccio così: vado all’appuntamento con il mio foniatra, lui mi fa una visita di controllo, poi ci sediamo a tavolino io e lui, ci guardiamo negli occhi e io gli chiedo: «Professore, che vogliamo fare della mia professione, ovvero della mia esistenza».
La diva ha finito di truccarsi, ha in testa una parrucchetta rossa, è abbigliata in modo succinto, riconosco l’aria di Zerbinetta dall’Ariadne auf Naxos di Strauss.
Dopo poco la vediamo vestita allo stesso modo ma non più sul palcoscenico, è buttata su un divano in camerino, qualcosa sembra essersi spezzato dentro di lei.
All’indomani della generale, lei ha annullato il contratto con l’Opéra Bastille: non si sente di andare in scena.
I suoi non sono capricci.
La diva, vestita come una donna normale, va dal suo medico e fa con lei il punto della situazione: non vuole più essere sottoposta agli umori della sua voce, non canta da nove giorni, oggi potrebbe farlo, ha la voce pulita, ma non va sempre in questo modo.
Nathalie Dessay è uno dei più grandi soprani dei nostri giorni.
Mutevole, vivace, aperta, ha accettato di esporsi alla videocamera della regista israeliana Esti, che si presenta come «Femme caméra, une Alice aux pays des merveilles, toujours en voyage à la rencontre des petites vérités des autres, pour dévoiler la mienne, de vérité, et en faire des films».
Ovvero «Donna-cinepresa, un’Alice nel paese delle meraviglie, sempre in viaggio incontro alle piccole verità degli altri, per svelare la mia, di verità, e farne dei film».
Il prodotto che ne è uscito fuori è singolare, crudo, poetico, io l’ho trovato per caso, anzi, proprio come Alice, nel buco o nella tana del coniglio, non mi ricordo mai, ci sono cascata dentro.
Avevo problemi di voce, cercavo esperienze in internet, non speravo di trovarne una così completa, a ciascuno il suo, la diva è una grande artista, io mi guadagno da vivere con la mia voce.
Sentiamo, dunque, che cosa le capita.
Le corde vocali sono due e stanno all’interno della laringe. Per capire dove stanno, guardate dove gli uomini hanno il pomo d’Adamo. Dietro, è il loro posto, pure per le donne.
Esse sono parallele al pavimento e assomigliano a dei tendini.
Esse sono di colore bianco.
Le corde vocali, al passaggio dell’aria, vibrano e da lì nasce quella cosa suggestiva, miracolosa e così emotivamente coinvolgente che è la voce.
Essa dichiara tutto: il sesso, la cultura, la provenienza regionale, lo stato d’animo, l’umore.
Con la voce si può fare tutto: parlare, cantare, sussurrare, innamorare, sedurre, condannare, perdonare, avvolgere, istruire, divertire.
Eccetera eccetera.
La diva si sottopone a un esame che noi vediamo chiaramente. Sullo schermo appaiono le sue corde vocali, lei ha emesso un suono, esse vibrano.
Le corde vocali dovrebbero essere dritte, belle tirate, è lei a dire no, no, qui c’è qualcosa e indica sullo schermo un piccolissimo gonfiore, un’escrescenza talmente minimale che il medico nemmeno l’ha vista.
Chiede alla foniatra di prendere una fotografia di due corde vocali perfette, così possono fare un confronto e capire la differenza. Il medico dice che forse il difetto è congenito. La diva risponde che non gliene importa niente, dice che quella cosa la disturba.
Il medico dice alla videocamera che conosce bene la sua paziente, che l’ha visitata fra le cinquanta e le cento volte e che ha sempre messo insieme quello che lei le dice, quello che lei sente e quello che lei, da medico, vede.
C’è la possibilità di un intervento chirurgico, ma deve decidere lei, la diva.
Cambio di scena, siamo in macchina sul Lungosenna, Nathalie spiega alla regista che l’operazione è rischiosa. E che succede se va male.
Succede che lei non canta più.
Conosciamo il chirurgo, che osserva con attenzione estrema tutte le immagini. La foniatra commenta e aggiunge che lei, pure se canta bene, si stanca, il pianissimo è così duro da eseguire.
Il chirurgo, caloroso come di rado sono i chirurghi, ci spiega che per toccare una corda vocale, essa non deve muoversi.
Quando si pratica un’anestesia, l’ultima cosa che si immobilizza sono le corde vocali. Esse chiudono l’accesso alla trachea e ai polmoni e sono l’estrema barriera, quella che respinge la saliva quando dormiamo, come respinge pure l’acqua. Il chirurgo fa un esempio sorridente, dice voi dormite sul bordo di un fiume e ci cascate dentro, mettiamo che siate su un materassino gonfiabile.
Le vostre corde vocali vi impediscono di affogare.
(Come sempre, metafore dappertutto).
È un riflesso vitale. Le corde vocali resistono a molte droghe, che vi addormentano ma che non agiscono su di loro.
Il chirurgo compie un gesto con le dita di entrambe le mani, unisce gli indici e li allontana, simula, così, il movimento.
Dice che per bloccare le corde vocali, bisogna addormentare il paziente in modo molto profondo, aggiungendo all’anestetico del curaro, che le paralizza aperte.
La diva è molto chiara: vuole che il chirurgo intervenga, non può andare avanti così.
Lei insiste: decide lei. E può pure decidere di cambiare mestiere.
Quando si dice, il coraggio.
Il mio foniatra, l’ultimo di una lunga serie, è un bell’uomo, alto, asciutto, è un chirurgo, quindi ci va giù diretto, è un appassionato d’arte e farcisce ogni nostro incontro con citazioni e domande. Ha un curriculum brillantissimo, insegna, sta al Policlinico, è uno d’assalto.
Mi controlla in tutti i modi e poi mi invita ad alzarmi e a guardare lo schermo.
Si vede bene, lo vedo anch’io.
Mia madre, se vedesse le mie corde vocali, ne definirebbe una offesa. Lei chiamava offesa la gamba dello storpio e il braccio paralizzato del cartolaio che aveva la cartoleria poco lontano dalla Standa, la sua definizione era pervasa di candore e di compassione e a modo suo aveva ragione, la Treccani parla di danno, di risentimento, di pene fisiche o morali, poi dice «Di parte del corpo, che ha subìto una lesione traumatica: l’organo offeso».
Ancora una volta, la corda sinistra. E dal video si vede chiaramente che è la destra a fare tutto il lavoro: ecco perché da un po’ esco da qualunque aula mi trovi sempre così stanca.
E adesso che facciamo.
Adesso, facciamo.
Ancora Lungosenna, ancora in macchina. Una bellissima voce di soprano accompagna con una melodia senza parole lo scorrere lento del fiume, che vediamo inquadrato di tanto in tanto.
È autunno, i colori ce lo dicono.
Luogo di cura, sono le 12:29, la diva dice che fra un’ora si fa operare.
Camera.
Spera che l’intervento dia il risultato giusto, lei vuole progredire e andare avanti, vuole avere fiducia nei suoi mezzi.
(Tu sali su un palcoscenico, tu entri in un’aula, solo se hai fiducia nei tuoi mezzi, altrimenti è meglio che te ne stai a casa).
Con il camice da sala operatoria e la cuffia in testa, la diva intona un’aria, la voce va bene.
La voce è bellissima.
Come quando sale sul palcoscenico, un’ora prima è tranquilla. È dieci minuti prima che va male.
Arriva il chirurgo.
Quando tempo dura l’operazione? Dura il tempo che serve.
Seguiamo la barella fino alla sala operatoria.
Ancora un’aria intonata, sembra una ninnananna.
Un video silenzioso ci mostra l’intervento del chirurgo, lo strappo sulle corde vocali, immobili.
Tre ore dopo la diva viene riportata nella sua stanza, le prime notizie sono buone, vediamo inquadrata una breve lettera con alcune note tecniche, la prima parola è NATHALIE, tutto maiuscolo. Le altre parole sono normali.
Lei scrive a sua volta che aveva ragione, che c’era qualcosa di fastidioso.
Aggiunge che pensare la propria voce è più importante della pratica fisica.
Il chirurgo viene a trovarla, è contento, ha dato un colpo di forbici, bello dritto.
Lei scrive molto grande sul suo quaderno MERCI.
E glielo mostra.
La ritroviamo in convalescenza in riva al mare, truccata e con gli orecchini.
Verremo a sapere che è a Fécamp, in Normandia.
Per sette giorni deve rispettare il riposo delle corde vocali, non deve parlare, non deve tossire, non deve ridere.
Può piangere, ma in silenzio.
Al ristorante scrive che cosa sceglie dal menu.
Il cameriere la prega di assaggiare il vino.
Lei lo assaggia e assume un’espressione di estasi.
Lei è una grande cantante, dunque anche una grande attrice. Ogni sua espressione è più eloquente di un intero vocabolario.
Le sue prime, nuove parole sono per il gabbiano con cui ha fatto amicizia, che viene a fare colazione con lei tutte le mattine.
In francese c’è anche il gioco di parole muette = muta e mouette = gabbiano.
Dalla foniatra, l’esame istologico. Si trattava di un polipo. Non è stato un problema di tecnica sbagliata, è una patologia che accade.
Ora si capiscono tante cose.
La corda è bella dritta.
La diva dichiara: «Due cose sono importanti nella vita: l’istinto e il destino».
Fine di un periodo di due anni e mezzo di dubbio e di malessere profondo, lei non aveva immaginato niente, tutto era reale.
Lei si domanda se si è liberata di tutti i suoi demoni.
Casa, famiglia, gatti che fanno le fusa.
Due mesi e mezzo dopo l’intervento, esercizi: la voce esce libera, facile, galleggia nell’aria, è pura e cristallina.
Riabilitazione alla parola.
Riabilitazione al canto.
Passa altro tempo, le viene anche assegnato il premio di Migliore cantante dell’anno, lei ride, un paradosso, meno canta, più le danno premi.
Poi c’è il ritorno alla vita.
Théâtre des Champs-Élysées, recital.
Lei indossa un fantastico abito rosa shocking.
Si esibisce in tutto il suo talento, è una virtuosa della voce e la voce la domina di nuovo perfettamente.
In sala anche la foniatra e il chirurgo.
Applausi.