Sono sempre molto vicina ai suicidi.
Da un pezzo non penso più se si sarebbe potuto fare qualcosa, il suicidio è un atto molto complesso, alla realizzazione del quale concorrono più fattori, quindi tutto sfugge, anche se ogni tanto mi chiedo che cosa sarebbe successo se fosse suonato il citofono, squillato il telefono, se fosse arrivato un WhatsApp.
Diciamo che credo che la decisione sarebbe solo stata rimandata.
Quando penso al suicida, penso alla sua solitudine e alla sua paura.
Ci penso anche a distanza di decine di anni, è un pensiero dal quale non riesco a liberarmi.
Comunque nel 1940 uno non si portava dietro il telefono e non c’era nemmeno WhatsApp. Quindi la decisione di Walter Benjamin di, si dice così, togliersi la vita si sarebbe potuta trasformare in altro solo in altro modo.
Intellettuale sfaccettato, profondo, singolare, moderno, Walter Benjamin è noto a tutti coloro che si occupano di arte, di filosofia, di letteratura, di sociologia.
O, almeno, noto dovrebbe essere.
Per dirne una, all’inizio, ma proprio all’inizio della mia carriera accademica, un mio collega sosteneva di aver fatto la tesi su di lui.
Ma poi ne pronunciava il nome all’inglese, laddove lui era tedesco, quindi era evidente che il collega non solo non aveva mai letto un suo testo in lingua originale, cosa che sarebbe alla base di ogni studio serio, ma che nemmeno sapeva dove stava di casa tutta quella sapienza.
Quella di Benjamin, intendo.
Walter Benjamin si suicida a Portbou, un paesone di 1.400 abitanti, al confine fra Francia e Spagna. Inseguito dai nazisti, in fuga da mesi, attendeva un visto per l’America che, dice la leggenda, sarebbe arrivato il giorno dopo.
Benjamin era stato uno sperimentatore di stupefacenti: hashish, morfina, oppio, mescalina.
Si suicida ingerendo venticinque pastiglie di morfina. Tutto quello che aveva.
Immagino che sia stata una morte dolce, seppure in solitudine e in paura.
Tutti coloro che si occupano di storia dell’arte sanno che il grande intellettuale aveva con sé l’Angelus Novus di Paul Klee.
A me questa cosa è sempre sembrata consolatoria, insomma, tu ti ammazzi, sì, ma con vicino un’opera di uno dei massimi artisti del secolo XX.
Non sono mai stata a Portbou e chissà se ci andrò mai.
Però lì è approdata una collega di cui abbiamo già parlato qui.
Catherine Millet, storico dell’arte e signora libertina (le due cose non sono in disaccordo), va nella cittadina francese e si fa fotografare nuda, aprendo la vestaglietta, proprio nella stazione del paesone, dal suo compagno di sempre, quello con cui vive da trent’anni.
La foto non sono niente di che, però il gusto probabilmente c’è stato, voi pensate solo alla possibilità di essere sorpresi da qualcuno della sorveglianza.
Poi c’è però da dire chissà che cosa avrebbe pensato il suicida di Portbou di questo omaggio.
In questi giorni sono ritornata da Walter Benjamin, per la precisione attraverso la sua opera incompiuta, alla quale l’autore lavorò per tredici anni, che si intitola I «passages» di Parigi.
La mia è una gran bella edizione Einaudi in due volumi.
Di che si occupano i passages? Di Parigi, in prima battuta, Parigi come centro del mondo; poi di merce, di prostituzione, di gioco, di noia, di art nouveau, del sogno, degli specchi, della bambola e dell’automa, della Senna e dell’ozio, della modernità tutta, del collezionismo e, come dice il titolo, di quelle gallerie coperte che a noi sembrano la vera incarnazione dei tempi moderni, realizzate come sono in vetro e ferro, una novità assoluta in un mondo che andava cambiando a velocità violenta.
E naturalmente si occupano di Baudelaire e del flâneur, che è colui che se ne va a passeggio e che guarda.
In questo giorno quasi tutto dedicato a Benjamin, in questo ritorno su questa sua opera frammentata e bellissima, annoto tre momenti diversi, sui quali mi sono fermata a lungo mentre preparavo la mia lezione.
Questi sono i miei appunti:
- «Nel 1839 era elegante portare con sé una tartaruga andando a passeggio. Il che dà un’idea del ritmo del flâneur nei passages»
(Vi ho messo in apertura un’illustrazione di ispirazione) - A Parigi si mangia (e si beve) sempre bene.
Il menu dei Trois frères Provençaux consta di «36 pagine per la cucina, 4 per la cantina». L’opuscolo è rilegato in velluto, ci sono «20 hors d’oeuvres e 33 minestre…46 pietanze di carne di manzo, tra cui 7 diverse bistecche e 8 filetti…34 specialità di selvaggina, 47 contorni di verdura e 71 portate di frutta». Questo a detta di un viaggiatore del 1867. Benjamin annota «Flânerie del programma gastronomico», credo che intenda qualcosa di simile a una lunga passeggiata fra le proposte della carta.
Peccato che il restaurant sia scomparso, stava a Palais Royal, sarei andata volentieri a ordinare una cosa semplice semplice godendomi la lettura del menu per tutta la cena. - Il flâneur non sempre lascia la sua abitazione, anzi. C’è un piccolo racconto di un ragazzino che chiede al padre il permesso di uscire. Il padre glielo rifiuta ma gli propone in cambio di passeggiare su e giù per la stanza, tenendolo per mano. I due, allora, escono dal grande portone e vanno dove vogliono. Passeggiano per la stanza e «il padre raccontava tutto quello che vedevano, salutavano i passanti, le carrozze li sfioravano, coprendo col loro rumore la voce…i frutti canditi della pasticceria erano più allettanti che mai…».
Ecco, questa possibilità che ha il flâneur di stare in mezzo alla folla senza mescolarsi a essa, di guardare, ascoltare, mangiare con gli occhi, godere della città senza muoversi dalla sua stanza la trovo bellissima.
Ci voleva Walter Benjamin a farmici pensare, io che sono così poco mondana e che tanto amo starmene a casa mia, ho avuto la conferma di quello che penso: la città è di chi se la vive a modo suo, fosse pure senza nemmeno infilare il portone d’uscita, perché è la fantasia che fa il viaggio ed è l’immaginazione che ti porta dove quelli che stanno sempre in giro e sempre fuori casa mai arriveranno.