Mutatis mutandis.
La mia insegnante di Storia e Geografia delle scuole medie, severa e molto brava, un giorno ci spiegò che cosa significava la locuzione: cambiato ciò che deve essere cambiato, ovvero, con le dovute variazioni, due situazioni che si somigliano sono, nella sostanza, uguali.
Dunque, mutatis mutandis non significa cambiatevi le mutande.
Anche se le mutande si chiamano così perché devono essere cambiate.
Spero di essere riuscita a spiegarmi.
Le mutande sono un argomento intimo e privato e la cosa più carina che le riguarda e che cito spesso è la posizione di Francesco, che impose a tutti i suoi frati di indossarle sempre, laddove Benedetto, nella sua Regola, aveva prescritto «che solo durante il viaggio i monaci portassero eccezionalmente le brache, per motivi di pudore e convenienza, quando potevano aver bisogno di sollevare la veste per preservarla dal fango o per avere più liberi i movimenti».
Al ritorno, l’indumento andava lavato e restituito al superiore.
Francesco «fa delle brache un capo stabilmente presente», come se lui e i suoi frati fossero sempre in cammino.
Ci racconta questa piccola cosa deliziosa Chiara Frugoni, che non si chiama Chiara per caso e che ha scritto cose molto belle dedicate al suo santo di elezione.
Ma torno al cuore del mio discorso: tutto ci dice che le mutande sono una faccenda delicata, voi pensate solo all’altra locuzione: restare in mutande, che equivale a «rimanere senza soldi, in estrema povertà».
Insomma, non c’è da augurarsi di trovarsi in questo stato.
Il nostro capo di biancheria prende vari nomi: culotte, tanga, perizoma, slip, boxer e diventa un accrescitivo, mutandoni, se si riferisce all’intimo del passato e un diminutivo se viene indossato da un uomo per tuffarsi in mare: mutandine da bagno.
E fin qui ci siamo.
Ma ora passiamo a parlare del tema di oggi: il matrimonio.
Vi dico subito che di esso penso tutto il male possibile, e non mi sto riferendo al legame in sé, che, anzi, trovo parecchio interessante, ma alla cerimonia.
Che invece non è interessante affatto, che dura sempre troppo, che vede episodi di maleducazione inauditi, come quando gli sposi abbandonano gli invitati per tre ore di orologio perché devono andare a fare le foto, e allora che li avete invitati a fare, per farli aspettare prima del pranzo.
Aggiungo che sono rimasta stupita della sospensione dei matrimoni durante la pandemia.
Quelli che si dovevano sposare hanno aspettato tutti, laddove per sposarsi occorrono solo cinque persone, lui, lei, i due testimoni, il celebrante e io, se fossi stata in situazione prematrimoniale, avrei approfittato al volo dell’occasione, casomai mostrandomi cortesemente dispiaciuta della mancata festa, cosa che invece mi avrebbe resa raggiante.
E invece.
E invece la festa sembra il fatto più importante del matrimonio, anzi, a volte ho l’impressione che sia l’unica cosa sopravvissuta al rituale, un po’ come l’ansia agli esami, gli studenti non studiano più, ma sono divorati da essa.
Un guscio vuoto, è diventata la vita.
Ma sto facendo tutti questi ragionamenti per arrivare all’aspetto più interessante del matrimonio: l’abito della sposa.
Che la dice sempre lunga, che rivela desideri inespressi, antiche frustrazioni, modelli agghiaccianti, riferimenti culturali che stanno agli antipodi della vita che la sposa ha fatto fino a quel lieto giorno e che, in definitiva, è il perfetto ritratto di chi lo indossa.
Una volta mi confrontai con una collega dell’Accademia di Napoli e le chiesi perché secondo lei le nostre studentesse si sposavano tutte, senza eccezione, con addosso abiti bianchi super tradizionali, che le facevano sembrare delle meringhe, con strascichi improbabili, non ne avevo vista nemmeno una alle prese con un tentativo diverso, guardate che non sto parlando dell’eccentrico, che non mi piace mai, figuriamoci se lo apprezzo a un matrimonio.
Le chiesi come si era sposata lei e se secondo lei pesava il Sud, così legato alla tradizione, o le madri, o la chiesa o che altro.
Anche lei era perplessa tanto quanto me, sosteneva che quelle generazioni non si ponevano il problema.
Ma come fai a non portelo.
Una sposa intelligente alla quale mi sentii di fare la domanda mi rispose che è una trappola, quando scegli la chiesa, hai chiuso, scatta tutta una serie di obblighi, dal fotografo al ristorante, per non parlare del dover rendere conto. A tutti, dalla famiglia ai parenti più o meno stretti.
Ed è stato così che mi sono messa a vedere come si era sposata l’influencer.
Uno dice ma che ultimamente ce l’hai con loro, dopo la maglia di Pia, adesso il matrimonio di Camille.
No, non è questo, è che faccio quello che fanno le donne, guardo che cosa fanno le altre e mi chiedo io che cosa farei al loro posto, come mi comporterei, che cosa mi metterei addosso.
Questa influencer qui è una da un milione e duecentomila Follower.
Un abisso la divide da Pia, 99.000 seguaci, lo scrivo in cifre perché altrimenti qui mi impiccio, però hanno età diverse e sono uscite fuori in momenti fra loro lontani.
Ripeto che la nostra (la loro) Chiara Ferragni sta a venticinquemilioni e settecentomila.
Questo deve pur significare qualcosa, per esempio che in Italia diamo (danno) retta a una Fata Turchina che non si capisce bene come sia arrivata dove è arrivata.
Cioè, si capisce benissimo.
Credo che molto del suo successo dipenda da come stiamo messi noi dalle nostre parti, in modo un po’ diverso da come stanno altrove.
Ma, dicevamo, Camille.
Lei chi è. Una, direi, eccezionalmente in gamba, francese di nascita ma con madre inglese, autrice di un blog à succès che si chiamava Camille Over the Rainbow, che adesso esiste solo come schermata sul vostro computer, ma che è stato importante, all’inizio solo per lei.
Che, formatasi come giurista, aveva seguito il suo petit ami a Londra, guadagnandoci una delusione d’amore cocente, della quale ha parlato sans fard.
Questo significa che anche le donne più giovani e più belle non sono al riparo dal mal d’amore.
Cosa molto interessante.
Lei comunque dichiara che Londra le ha «dato le ali» ovvero che l’ha fatta volare.
All’inizio lei lavora nella finanza.
Ed è infelice come mai è stata in vita sua.
L’ambiente è sessista e lei è soprannominata TT, tiny tits.
Non sto a tradurre, anche perché io trovo i seni piccoli bellissimi.
Mentre lavora e soffre, come si lavora e si soffre solo a Londra, lei comincia a occuparsi di moda, a fare fotografie di streetstyle, viene notata dalle aziende, che la contattano e che cominciano a farle delle proposte.
Una storia moderna.
Nel giro di poco decide di lasciare la finanza e di monetizzare il suo blog, riuscendoci benissimo, perché la cercano per il suo occhio, la sua penna, le sue idee e il suo pubblico.
Avrei voluto mettervi un link con un’intervista a Camille Charrière del 2015, ma essa è scomparsa.
Se ve ne parlo, è solo perché me la sono stampata all’epoca e perché l’ho messa con cura da parte.
Questa è la rete, dice cose che poi si rimangia, cancella le sue tracce, impedisce di ricostruire la storia di una influencer.
Lei, la vedo da un pezzo che pubblica su Instagram post che sono professionali. Ormai scritti solo in un inglese talmente idiomatico che si fa fatica a capirli, raccontano anche la sua nuova storia d’amore con un giovane regista, che sembra attagliarsi a lei perfettamente.
Il matrimonio è annunciato per almeno un anno. E con sapienza infinita.
Lui c’è sempre, è un bell’uomo, qualunque donna lo sposerebbe volentieri, loro viaggiano molto, stanno spesso in vacanza, loro sembrano condurre un’esistenza di spiagge e di feste, che chissà se poi se è vera, diciamo che è una favola dei nostri giorni, con lei che tagga accuratamente il fashion designer che le ha prestato l’abito e l’azienda che le ha dato i sandali.
In tutto questo, comunque, la luce di una storia d’amore, che sembra consolarla di quella delusione con la quale lei era diventata un tutt’uno.
Come lei ha detto chiaramente, l’identificazione con quel dolore era stata totale: «For months — years even — I let this breakup define who I was».
Se non vi è mai capitato, non sapete che cosa esistenzialmente vi siete persi.
Ma allora, come si sposa Camille.
In un giorno di dicembre, a Parigi, indossando tre abiti diversi, che poi non sono nemmeno tanti, lei è una che lavora con la moda, si cambiano d’abito spose che non si capisce perché non si accontentino di una sola mise, il mio parrucchiere mi ha raccontato che è stato presente dalla mattina alla sera al matrimonio di una cliente che doveva variare pettinatura a ogni momento, cerimonia, pranzo e festa finale, con tutti che si buttano, vestiti, nella piscina dell’albergo.
Non posso immaginare niente di più orripilante.
E Camille si sposa, elegantissima, in mutande.
Indossando un abito trasparente, con un’acconciatura fatta di petali di neve e un bouquet minimale.
Poi, magistralmente, mano a mano che la giornata va avanti, lei si rivela sempre di più, fino ad arrivare all’abito della festa in discoteca, praticamente un merletto buttato addosso alla biancheria intima.
Che giornata memorabile.
E, a giudicare dalle foto, perfettamente riuscita, con molti amici e molto festeggiamento.
E che stile.
Ho fatto vedere le foto degli abiti alla ragazza che fa le ore e che deve sposarsi.
Si è quasi risentita, ma come si fa a sposarsi in mutande.
Insomma, dipende da chi le indossa.
E una Follower ha commentato che per una sposa gli abiti erano un po’ troppo trasparenti.
E la sposa, che è una che non le manda a dire, ha, come sempre fa, giocato con le parole e ha detto che la sposa fra quello che le pare.
Le foto, fra l’altro, sono arrivate col contagocce, l’orchestrazione della comunicazione è stata magistrale.
Qualche giorno dopo, compare il post con tutti i # ringraziamenti, il make up, il fioraio, l’albergo che ha ospitato il cambio di abito, il fotografo, gli stilisti.
E io, che cosa penso.
Che questo è un matrimonio completamente nella tradizione ma rivisitato e diverso, per niente eccentrico, perché c’erano tutti gli elementi usuali, però esso è probabilmente il matrimonio dell’anno e continuerà a esserlo per parecchio.
E che cosa avrei fatto io al suo posto.
E che ne so, mica sono una influencer.
Però ho molto apprezzato queste citazioni da un matrimonio, che sono, secondo me, l’essenza medesima del cerimoniale.
Con i miei migliori auguri.
Di vita felice e contenta.