Stupenda l’isola è,
il clima è dolce intorno a me,
ci sono palme e bambù,
è un luogo pieno di virtù.
Steso al sole ad asciugarmi corpo e viso,
guardo in faccia il paradiso…Paolo Conte, Onda su onda
Sola, perduta.
Peggio di me stanno messe solo la Traviata e Manon Lescaut.
Che pure stavano messe maluccio.
La seconda più della prima.
È che il grande sogno degli italiani è andare alle Maldive.
Laddove io le Maldive non so manco dove stanno e l’ultimo posto (uno degli ultimi posti) al mondo dove vorrei andare è proprio quello.
Ma che ti hanno fatto le Maldive.
Niente.
Però hanno le palme.
Appena vedo le palme, mi viene voglia di scappare.
Peggio del paesaggio con le palme, c’è solo il paesaggio del Chianti, quello che ti fanno vedere ogni volta che parlano di vino, tutto uguale, tutto pieno di vigne.
Manco fossi un turista inglese, che abbocca.
Il turista inglese con il Chianti abbocca sempre.
Mentre gli italiani sempre abboccano con le Maldive.
Appena mi sposto da una parte all’altra, temo probabilmente di trovarmi fra i piedi tutti i turisti italiani. Come temo con ogni probabilità di trovarmi fra i piedi tutti i turisti inglesi.
Ma che ti hanno fatto.
Perché, a voi i turisti italiani non hanno fatto niente.
Ma che ti hanno fatto gli inglesi.
Niente, direi, anche se li conosco poco.
Comunque, per quel poco che li conosco, li trovo strambi. E poi abboccano sempre con il Chianti.
Ma proviamo a ragionare su che cosa mi hanno fatto le palme.
E partiamo da questa foto di Martin Parr che mette uno specchio davanti alla faccia del mondo perché si guardi.
Il suo lavoro Small World, dedicato al turismo di massa e con ormai trent’anni di vita sulle spalle, cosa che significa che la situazione è di trent’anni peggiore, lo ha condotto in giro per il mondo con lo scopo di dimostrare che non c’è più un angolo che non sia stato raggiunto dal turista di turno.
Dalla Piramide di Giza all’Himalaya, passando per il passo del Kleine Scheidegg e facendo una puntata sotto al Partenone che, come ebbe giustamente a dire la mia podologa, «è tutto rotto», gruppi di simpatici turisti vanno, stanno, si fanno fotografie.
E si fanno fotografare da lui.
Che cosa ha di terribile la foto che vi mostro, scattata nella terribile Firenze aggredita dal turismo?
Bravi.
Le palme.
Le palme stampate sulla camicia del turista, che chissà dove l’ha presa e chissà perché e chissà se l’ha scelta la mattina, avendola prima messa in valigia e poi sistemata nell’armadio dell’albergo, con l’idea che davanti a Palazzo Vecchio e al Biancone dell’Ammannati il suo indumento sarebbe stato adatto.
Del resto indossava una camicia con le palme, completa di collana di fiori al collo, pure il severissimo addetto al check-in dell’Aeroporto di Boston un 31 ottobre di qualche anno fa, che mi tormentò con un interrogatorio poliziesco, mica una di quelle cose bonarie che si usano da noi, chi ero, che facevo lì, chi aveva fatto il mio bagaglio e che cosa ci stava dentro: lame, coltelli, esplosivo, materiale sovversivo.
Non avevo mai visto una cosa simile, sembravano tutti diventati matti, tutti erano travestiti da qualche cosa e a me erano toccate le palme.
Salita sull’aereo, capii che Halloween non lasciava scampo, quelli ci credevano sul serio, grandi e piccini, e me lo confermò un’assistente di volo che, pragmatica come solo un’americana sa essere, trovò molto efficiente indicarmi il mio posto e insieme farmi vedere il teschio che aveva appuntato sull’inappuntabile divisa che, dopo la carica che lei gli aveva dato, si mise a battere i denti muovendo la mandibola, unico osso, appunto, mobile del capo.
Fortunatamente si era già in fase di attenzione ai terroristi, per cui la cabina di pilotaggio era sigillata. Avrei trovato sconveniente essere riportata a casa da un pilota travestito da morto vivente.
Ormai sono convinta che Gauguin piaccia tanto per via delle palme.
Tu metti un paio di palme e fa subito esotico.
Pure se lui esotico lo era sul serio.
E pure se appena sto alle prese con uno di quegli artisti che piacciono, mi insospettisco e comincio a guardarlo in tralice.
Non è che questo piace per motivi che esulano dal suo vero genio.
Non è che Gauguin, per esempio, piace per via delle palme.
Passo la vita a consumarmi le corde vocali per spiegare che cosa c’è in un’opera d’arte e quelli che mi sentono vedono solo le palme.
Pure se per me la cosa più esotica che esiste al mondo è la presa elettrica inglese.
Alla quale io non sono mai stata capace di abituarmi ogni volta che ne vedo una, anche ultimamente, arrampicata sull’armadio alto della cucina per prendere una lampadina, quando mi è venuta in mano la busta trasparente con dentro la prolunga con la ciabatta (che a Napoli chiamano pantofola, sempre poetici, i partenopei), che uso quando sono a Londra in albergo per infilare la presa dell’asciugacapelli, per forza di cose davanti a uno specchio adatto.
«Welcome to Palm Beach!», grida Auste a Sangaile alla finestra di un condominio agghiacciante in Lituania.
Il film Summer di Alanté Kavaïté è bellissimo e se non lo avete visto, è perché da noi film così belli non arrivano.
Esso narra di vertigini da volo acrobatico e di un’estate iniziatica, in cui due giovanissime donne si incontrano e si innamorano una dell’altra.
Un film carnale, poetico, ipnotico, in cui ogni momento e ogni cosa sono trasfigurati dalla fantasia e dalla capacità di trovare l’avventura in tutti i recessi della vita.
Non so bene dove sta Palm Beach, ma ho il film qui davanti a me e stasera me lo rivedo, da quindici giorni ho la televisione nuova con il nuovo lettore e devo pure benedire l’una e l’altro con qualcosa di avvincente.
Al polo opposto, e sto parlando non del tutto geograficamente, della grazia, una ombrosa, l’altra creativa e gioiosa, delle ragazze, ci sono le ciabatte portate in istrada, di cui le Havaianas sono un buon esempio.
E a me non pare un caso che anch’esse siano piene di palme.
E che gli italiani le amino tanto, al punto da non sfilarsele mai, mai se non quando stanno sulla metropolitana, sull’autobus o seduti al tavolo per l’aperitivo.
Chissà perché non si capisce che le palme, oltretutto con i piedi sfuggiti dalle calzature nelle quali stanno, in città sono così fuori posto.
Eppure nella mia città ho presenti due piazze adorne di palme.
Ora, Roma è stata celebrata per secoli per la perfetta fusione di natura e storia nel suo paesaggio e per la sua «bellezza desolata e selvaggia», esaltata dalla cultura romantica.
La Campagna romana, che la Guida Rossa del Touring scrive giustamente con la maiuscola, è stata a lungo sconfinata, solcata dalle vie consolari e punteggiata da «torri, castelli, casali, cappelle e santuari».
Poi, però, dicevo che in città ci sono due piazze con le palme.
Come siano uscite fuori, non lo so.
Inoltre, gli alberi di Roma, lo capisce chiunque, sono i pini e i platani, questi ultimi, sul Lungotevere.
I pini sono stati cantati anche da Ottorino Respighi, nel suo poema sinfonico del 1924.
I platani, uno si accorge che esistono in autunno, quando in un ingorgo del traffico ti cade una foglia sul parabrezza e te la porti dietro, impigliata nei tergicristalli, fino a che non hai parcheggiato la macchina.
Trovo le palme di piazza di Spagna capaci di suggerirmi un cambio di scena repentino quando esco dalla metropolitana.
E con le palme di piazza Cavour ho un rapporto intricato. Sono andata a scuola, medie, ginnasio e liceo, lì vicino, la mia vita era praticamente chiusa nel quartiere, me ne sono accorta solo quando sono andata a vivere altrove, e mi ricordo che le incursioni nella piazza vicina avevano il sapore dell’avventura.
Ho perfino conservato una foto di me, sedicenne, seduta a terra con la schiena appoggiata contro il tronco di una palma.
Credo di averla nella cassettiera dell’ingresso.
Io butto tutto, ma quello scatto l’ho conservato.
E, scura e imbronciata, mi riconosco alla perfezione.
(Certe volte mi chiedo perché non provo un sentimento di tenerezza nei confronti delle palme).
Palme sono nei cortei trionfali romani a indicare la vittoria.
E nel medioevo la palma è simbolo di castità.
Palma per i santi, segno di martirio.
Vi mostro a questo proposito la bellissima Sant’Apollonia di Zurbarán.
Lei, per aver rifiutato di sacrificare agli dei pagani martirizzata sul rogo, ma prima sottoposta all’avulsione di tutti i denti, lo capisco, che è una cosa orrenda, per questo ci stanno oggi e finalmente i dentisti bravi, uno dei quali è il mio, che ti fa passare ogni sospetto di martirio, lei dicevo, in un’eleganza insuperabile incede tenendo una palma insieme alle tenaglie con infilzato un dente.
La sua bellezza è tale che, come sempre con Zurbarán, ti fa venire la voglia di martirio.
Per la voglia di dentista, trovatevene uno bravo come il dentista mio e voi e il vostro sorriso sarete a posto.
C’è una palma, per giunta d’oro, per premiare a Cannes i film che valgono.
Essa è la memoria dei cortei romani che vi ho detto.
Insomma, ci sono palme e palme.
E poi c’è pure l’olio di palma, che mica ho capito che cos’è.
Però quello che ho capito è che sta nella Nutella, che io ho in uggia, proprio come ho in uggia il gelato, il cocomero e le Maldive.
Dunque, ora vi dico che cosa penso di quei 60 milioni di italiani che amano tutti la Nutella e che stanno tutti alle Maldive (non oso pensare agli ingorghi di traffico): se quando tornate avete mal di pancia per via di tutto l’olio di palma che si siete ingurgitati, ben vi sta.
E che diamine.
Ci sarà pure un limite all’esotico.
E alle sue palme.