Saint-Sever, Manufacture de Plumes et Duvets

Furba.
La lineetta del gallio segna 38,4 a tre giorni dalla partenza.
Il tutto dopo più di un mese trascorso in reclusione, parlando niente, poco o male, aspettando che la voce tornasse e si mettesse a posto.
Il corpo, quello di cui discorrono sempre coloro che si sono messi in fase con l’universo, che hanno fiducia nel loro cammino di illuminazione interiore, che hanno deciso di rallentare, di vivere in piena coscienza, meditando e mangiando sano, diventando, già che ci sono, astemi e, con un po’ di buona volontà, pure santi, insomma, il corpo, per me rappresentato dal termometro che mi bolliva in mano, aveva un suo punto di vista.
«Ci vai tu, a sbatterti fra macchina, aerei e treni; a farti a piedi quindici chilometri al giorno di passaggi sotterranei della metropolitana; a dormire nell’albergo del decoratore inglese; a vedere mostre e musei con l’obbligo di osservare tutte le disposizioni sanitarie; a passare in rassegna bar à cocktail, bistrot, ristoranti; a scapicollarti in quella fila di negozi che hai messo uno dopo l’altro insieme alla lista acquisti. Io faccio altro. E sai che faccio: mangio e dormo, poi dormo e mangio e quando ho finito di mangiare e di dormire, ricomincio a dormire e a mangiare».

Mi arrendo.

Cancello tutto e aspetto di sfebbrare.
E mentre aspetto, controllo febbrilmente la mia Home di Instagram, a scorrere la quale si sarebbe detto che tutto il mondo dormiva nel mio albergo, visitava le mie mostre, mandava giù il mio cocktail, beveva il mio vino, mangiava nel mio piatto.

Furba.

In guardaroba avevo già due piumini.
Entrambi di quella marca iperchic che aveva fatto avanti e indré fra Francia e Italia.
L’uno, incontrato la prima volta nel punto vendita dell’aeroporto, dove mi aveva innamorata e dove mi ero fatta scrivere dalla commessa tutto, modello e taglia, me lo ero regalata appena rientrata, dopo averci pensato su pochissimo, visto che costava una follia e che, se mi ci fossi messa a pensare un po’ di più, non avrei dovuto comprarlo.
Il piumino, diciamocelo, è uno dei capi di abbigliamento più goffi che ci siano sulla faccia della terra.
I ragazzini che ci stanno dentro non si capisce mai dove cominciano e dove finiscono.
Gli uomini, gli uomini, Dio mio, assomigliano tutti a Bibendum, medesima allure da insaccato che avanza con i suoi rotoli orizzontali di salsicce.

Bibendum

Degli uomini con addosso il piumino praticamente si vede solo l’altezza, quello che c’è dentro, se ti piacciono le sorprese, sarà una scoperta.
Le donne, poi, non si capisce perché non si diano un’occhiata allo specchio prima di uscire, trasformate in fagotti ambulanti a causa del freddo.
Il mio piumino, invece, no.
Rigorosamente nero, in un tessuto tecnologico elastico, che consentiva un taglio che lo faceva assomigliare a una redingote, stretto in vita, collo avvolgente, appena sceso sui fianchi, sembrava appartenere a un altro ordine di abbigliamento.

Affiche Moncler anni ’60

Quell’inverno non solo commisi diversi peccati di vanità, ma mi era presa pure la voglia di uscire di continuo e io, che sono la persona più refrattaria alla mondanità che conosco, stavo sempre di qua e di là, ad animare incontri, cene, degustazioni, annoiandomi come previsto, però sfoggiando il mio piumino, che era poi l’unico motivo per cui accettavo tutti gli inviti che ricevevo.

Nel mio immaginario, ci avrei dovuto passare la vita avvolta dentro, ammortizzando il costo e sicura di aver fatto un investimento.
Invece.
La stagione successiva, dopo un passaggio dal signor Michele che, fino a prova contraria, gestisce la lavanderia artigiana migliore della città, esso aveva praticamente tirato le cuoia.
Aveva perso smalto, perdeva le piume e io persi una mattina per riportarlo nel negozio di piazza di Spagna.
Dove furono correttissimi e mi dissero che in effetti.
In effetti quel modello della collezione dell’anno prima era stato un esperimento.
Riuscito male.
Avevano tentato la strada di un nuovo tessuto, che veniva tagliato e cucito senza l’intercapedine che è poi quella che secondo me causa l’effetto-salsiccia. Sembrava che avessero trovato la soluzione.
E invece.
Mi proposero di ritirarlo e di cambiarlo con un capo a mia scelta.
Ringraziai, rifiutai perché mi ci ero affezionata e, più o meno, lo rimisi in guardaroba più che altro per guardarlo.
Un paio di mesi dopo mi comprai un piumino di tutt’altra razza, un Longue Season, ancora nero, di quelli che ad aprile ti fanno morire di caldo e a dicembre di freddo, che però sono perfetti ficcati in borsa quando stai in viaggio e ti risolvono un sacco di situazioni.
Dopo un periodo di prove e fallimenti, andò a regime ed è quello che lavo in lavatrice e che porto a gonfiare dalla signora Anna.
È in un ottimo stato di conservazione, anche se gli elastici dei polsi si sono allentati, cosa che non sarebbe dovuta succedere. Però di nuovo al negozio mi hanno dato il nome del loro sarto, dal quale lo porterò a primavera, perché adesso, se glielo lascio, finisce che lo rivedo il prossimo anno.
Costo del Longue Season: la metà di quell’altro.
Comunque sempre un prezzo alto.

Dunque, stando così la situazione del mio guardaroba, avevo deciso che a Parigi sarei andata a comprarmi una loro doudoune, che, tradotta, è una giacca a sbuffo, ma che è poi il nostro piumino.
Dato che ero rimasta a bocca asciutta per via del corpo, decisi di ovviare all’inconveniente offrendogli in segno di pace un bel capo di abbigliamento per l’inverno, acquistato in internet.
Come in internet mi andavo consolando di tutto, vedevo i filmati delle mostre, ispezionavo il mio albergo, annegavo il mio dispiacere nel bicchiere del mio cocktail.

La doudoune

Impiego un secondo e mezzo a scegliere il modello e il colore.
Il nodo era la taglia.

La modella fa m 1,74 e indossa una 36.
Dunque, sei centimetri più alta di me, ma secca secca, niente spalle, niente seni, niente fianchi, carinissima, ma anche molto simile a uno stecchino di quelli che intorno hanno il ghiacciolo.
Faccio i primi conti e penso: 38.
Controllo la guide des tailles: poitrine, hanches.
La doudoune ci manca solo che sia larga.
Mi viene pure l’idea di cercare in guardaroba, figuriamoci se non ho un paio di giacche francesi per verifica.
Il numero ritorna.
Guardo la tabella di conversione delle misure.
Studio accuratamente la produzione, raccontata sul sito nei dettagli, una manifattura che da 160 anni sta ai piedi dei Pirenei, che rispetta le oche, di cui è pieno il territorio, produce capi «haut de gamme et performants», sperimentati nel cuore dei ghiacciai.
«Un’esperienza unica di comfort e leggerezza».
I francesi sì, che sanno come si sta al mondo.
La mia doudoune è suggerita per temperature dai 5 ai 15 gradi: Roma in inverno.
Il prezzo: inferiore al Longue Season, ragionevole e ineccepibile.
Clicco.
Pago.
Aspetto.
Nel senso che mi metto in uno stato di attesa nel quale c’era tutto: il viaggio mancato, le mostre, i cocktail.
Alla doudoune era affidato il compito di rimettere in sesto la stagione.
Per non parlare del resto.

Quel giorno ero passata al garage per vedere se c’erano pacchi per me e il garagista si era messo a ridere e mi aveva chiesto se avevo portato il carrello.
In effetti mi ero un po’ anticipata il Natale e avevo ordinato utensili professionali per la cucina, un libro, un film.
La montagna di scatole prometteva bene, era leggera e variata.
Solo una volta raggiunto l’ingresso del mio appartamento mi accorgo che in quella torre di confezioni Amazon c’era anche qualcosa di diverso.
La doudoune era arrivata.
Accurato lavaggio delle mani.
Calice con aperitivo.
Mi lascio il pacchetto più sensibile per ultimo.
Dal cartone, perfettamente imballato, esce una confezione accurata, avvolta nella carta velina, piena di strizzate d’occhio, nastri, biglietti, informazioni.
Siamo così felici che voi abbiate ordinato da noi la vostra nuova doudoune e speriamo che vi piaccia.
Se non dovesse piacervi, questa è l’etichetta per il ritorno, avete trenta giorni di tempo per pensarci.
Trenta giorni.
Un’era geologica.
Io penso sempre rapido ed efficiente, perché rapida ed efficiente sono.
Oddio, quando il corpo non ci si mette di mezzo.
Accendo tutte le luci, l’aperitivo scintilla nel mio calice, musica di sottofondo.
Trasporto come se fosse una pisside la doudoune sul mio letto.
La svolgo, la apro, la estraggo dalla sua busta come il numero vincente.
La stendo.
Mi sembra bellissima: svelta, minimale, praticamente, come Mary Poppins, perfetta sotto tutti i punti di vista.
Ora non mi resta che vedere se ho azzeccato la taglia.
Ci siamo.
Gli elastici delle maniche si arrestano ai polsi e la stoffa, lo sbuffo, sfiora il dorso della mano.
Le spalle ci stanno dentro tutte.
Ai fianchi, si chiude come se fosse stata fatta su misura, non un centimetro in meno, non uno in più.
Decido che è il caso di procedere dall’aperitivo in direzione della scelta del vino per la sera.
In un attacco di virtuosismo, provo la doudoune con sotto diversi spessori: una maglia, una T-shirt, un toppino di seta piccolo piccolo.
La vestibilità cambia, però l’effetto seyant si conferma.
Non solo.
La schiena, che nella modella si risolveva in un sacchetto, su di me ha un bellissimo accostamento alla vita, insomma, una linea.
Mi sfilo la doudoune e me la studio.
Mi ricordo che una volta passai un pomeriggio a mettere sotto la lente un trench Burberry.

Trench Burberry

«Trench» significa trincea, e non a caso.
L’impermeabile che tutti conosciamo è in realtà un capo da battaglia e ogni elemento, dalla stoffa, un gabardine tecnologicamente avanzatissimo, impermeabile e resistente a tutte le intemperie, ogni tasca, fibbia, spallina, patta frangivento, ogni bottone, la cintura e tutto il resto, tutto, dico tutto, ha una funzione e un senso.
Magari fosse la vita, sgangherata e insensata com’è, fatta come è fatto un trench.

Rivolto la doudoune come un calzino.
Coulisse, chiusure lampo, cuciture.
Non mi tornano le tasche, che sono tre, laddove io ne ho subito viste due, che stanno all’esterno, dove si pensa che le tasche debbano stare, ma non riesco a individuare l’altra.
Cerco, cerco, come la chiave della Bohème e siccome chi cerca trova, alla fine la terza tasca esce fuori: all’interno a sinistra, dove coloro che non sono mancini cercano pure loro, chiusa da una piccola zip, racchiude anche un tesoro, una saccoccetta legata alla fodera con una fettuccia, dotata di coulisse, piccola ma nella quale è evidente che, data la leggerezza, la doudoune ci sta tutta.
Che meraviglia.
Quanto amo la Francia.
Il suo vino.
La sua cultura.
Il suo stile.
La sua art de vivre.
Il suo orgoglio nazionale.
Le sue montagne.
Signorina Maccabei
Venga fuori, dica lei
Dove sono i Pirenei?

La sua doudoune.
Che ha una ben solida etichetta, cucita saldamente all’interno, che recita così: «DUVET FRANÇAIS D’EXCEPTION PURE FRENCH DOWN».

Fisso la data e l’occasione per inaugurare la doudoune.
La mia emozione la potrei toccare perché galleggia nell’aria.

Ma di etichetta ce ne è anche un’altra, spessa come uno Zingarelli, non facilissima da aprire, con, sembra, i «Conseils d’entretien».
Insomma, i suggerimenti di cura e gestione.

Si tratta di un papiello piuttosto consistente, che, ne sono certa, sfiancherebbe chiunque.
Ma non me.
Che vado sempre a cercare il senso delle cose.
Sfoglio, leggo e, finalmente, vedo.

La mia fantastica doudoune è MADE IN CHINA, ovvero, il prodotto proclamato francese, nato e cresciuto ai piedi dei Pirenei, intriso di tutto il savoir-faire artigianale dell’Esagono, incrostato al territorio come una cozza è incrostata allo scoglio, troppi ne ha fatti, di chilometri, insomma, un altro avanti e indré, per andare da qui a là.
E ritorno.

Amélie & Nino

Se avete presente Amélie che, letteralmente, si scioglie quando vede Nino uscire con la sua busta dal Café des deux Moulins, ecco, avete capito il mio stato d’animo.

Che ho deciso di fare.
Niente.
Di tenermi la doudoune, che ho inaugurato e che mi sta bene addosso.
Ma che però sarà l’ultima.
Peccato.
Per me, per loro e per noi tutti.

Navigando in rete, a conti fatti e decisione presa, ho pure trovato un paio di post di vibrata protesta, in cui due acquirenti raccontavano esattamente la mia medesima esperienza.
Comprano la doudoune Pyrenex per essere certi di un prodotto francese e trovano all’interno, bien cachée, la sopresa.

Etichetta Pyrenex Made in China

Un po’ come quando si apre l’insaccato con le salsicce messe per orizzontale.
«…con un prezzo francese perché bisogna pagare il trasporto andata e ritorno delle piume…fanno un sacro discorso sulla loro etica e sul made in Saint-Sever, si pensa di acquistare un prodotto che alleggerisce l’impatto ambientale» e poi ecco che uno paga per ciò che vorrebbe evitare.

«Che vergogna e che comunicazione menzognera».

Del tutto d’accordo.
Delusa. E salva da un ennesimo peccato di vanità.
E come fai, a pavoneggiarti in una doudoune così insincera.

Che brutto mondo.

Vuoi vedere che hanno ragione quelli che hanno intrapreso il cammino di illuminazione interiore, che vivono in piena coscienza, che meditano e mangiano sano.

E che casomai sono sulla strada per diventare santi.

In attesa e già che ci stanno, sono però già, poveretti loro, diventati astemi.