Ho comprato su Amazon un nuovo tappetino yoga.
Ho scelto quello più costoso. Niente di che, il prezzo di una cena in un locale normale, però, per un tappetino, con quella cifra si ha diritto a un oggetto solido, antiscivolo, di fascia alta, pesante.
Se non te lo devi portare in giro (non me lo devo portare in giro), pesante è meglio, non scappa da tutte le parti, sta incollato al pavimento, quando lo arrotoli, sta in piedi da solo.
Quello vecchio ormai era tutto scollato.
Con un tappetino, un paio di pesetti, detti manubri, e uno smartphone, tu hai la palestra in casa.
Ti scegli l’istruttore.
Io ho tutte istruttrici, che cambio a seconda dell’umore. Esse sono tutte americane e tutte brave, molto più brave di tutti gli istruttori che ho incontrato in vita mia.
Io con la palestra e gli istruttori ho fatto quello che tanta gente che conosco ha fatto con la scuola e i professori: non ci siamo presi.
Quello che non si capisce mai è di chi è la colpa.
Io ho incontrato solo istruttori che non avevano voglia di stare dove stavano, io li capisco, povere creature, loro, che si destinavano a una carriera di atleta di alto livello, ridotti a una palestra di quartiere sporca e male insonorizzata, spesso in corsi femminili, che si chiamavano proprio così e che loro non amavano e allora vai con le battute, il gineceo, il pollaio, l’ultimo dei miei istruttori scherzava sempre in questo modo e intanto si guardava allo specchio.
La caratteristica comune di tutti gli istruttori di palestra che ho avuto era che si guardavano allo specchio come ossessi, guardavano solo se stessi, mai che dessero un’occhiata al corso, io li capisco, povere creature, sei così ben fatto e così pieno di muscoli, che perché dovresti guardare altrove oltre che nello specchio.
Ovvio, che se tutti facessero così, professori in aula scocciati, cassiere al supermercato scocciate, medici in ospedale scocciati, autisti della metropolitana scocciati, camerieri in pizzeria scocciati, donne delle pulizie scocciate, il mondo sarebbe ancora peggio di quello che è.
Un tappetino, fra l’altro grigio e rosa, quindi, elegante, due pesetti, detti manubri, uno smartphone e exit tutti gli istruttori.
Se si potesse fare lo stesso coi professori, le cassiere, i medici, gli autisti, i camerieri e le donne delle pulizie, la vita sarebbe fantastica.
Voglio comprare una nuova lampada da terra per il mio salotto.
Mi sono accorta ieri che la base di quella che ho è molto rovinata, che perde una strana polvere e che rischia di cadere.
Ho cercato qualcosa, anzi, io avrei già trovato.
È il modello 2564 disegnato da Josef Frank per Svenskt Tenn negli anni ’50, è un pezzo autentico, in vendita nel più bel negozio di modernariato di Stoccolma.
Ci sono stata una volta.
Il colore sarebbe perfetto per il mio pavimento, che è fatto di marmette bianche e verdi.
Non ce l’ho messo io, ce l’ho trovato e lo trovo bellissimo.
Certo, condiziona tutto, però, pure, tutto orienta.
Sul sito non c’è il prezzo.
C’è scritto Price: on application, e quando c’è scritto così, sono dolori.
I dolori riguardano parecchie delle lampade che mi interessano, per esempio, quelle di Gio Ponti e quelle déco.
Queste ultime, invero, sono quasi accessibili, solo, bisogna vedere chi le vende, rischi di metterti in casa un falso che hai pagato come autentico.
Il negozio di Stoccolma è al di sopra di ogni sospetto.
Sto dietro a questa lampada da prima di accorgermi che quella in servizio è da sostituire, quindi, l’idea già mi era venuta.
Ora dovrei decidermi, almeno, a chiedere il prezzo.
E che vuoi che sia, una lampada che costa quanto una macchina di media cilindrata ma che poi, un po’ come la macchina, ti cambia la vita.
In meglio.
A forza di avere rapporti con loro, mi sono resa conto che tutti i rumeni hanno lo stesso problema con la voce.
Quando parlano in italiano, chi bene, chi male, gli uomini tirano sempre fuori una vocetta femminile piccola piccola e le donne tirano fuori un vocione che quasi spaventa.
Una cosa stranissima.
Visto che la voce rivela tutto, genere, provenienza geografica, cultura, questa cosa qualcosa significa.
A questo proposito: come va la voce?
La vostra, spero bene.
La mia, male, grazie.
Ancora a proposito di voce. Quella di Catherine Deneuve, come ho già detto da qualche parte, è la più bella che abbia sentito in vita mia, un velluto cremisi che si muove sinuosamente sotto la luce.
Lei è una donna che stimo profondamente, bella, con una carriera difficile da contenere in una sola definizione, intelligente, generosa e aperta al mondo.
Mica come gli istruttori della palestra, che guardano solo se stessi allo specchio.
In una intervista di qualche giorno fa, lei risponde a una domanda sensibile: il lavoro dell’attore è molto cambiato da quando i film sono realizzati in digitale?
La risposta è complessa e articolata. Fra l’altro lei ha avuto la possibilità di girare di recente in pellicola con un regista giapponese.
Dice che con le cineprese digitali non ci si ferma mai, niente ha un costo e tutto può essere sempre ripreso.
Ci sono pochi limiti.
«Ma qualcosa manca, che può essere l’attenzione a quello che si fa. Quando la pellicola è preziosa, si riflette meglio, si accorda può essere una più grande importanza a ciò che si gira».
Applicate il medesimo ragionamento alla fotografia, alle decine (centinaia) di fotografie che facciamo tutti tutti i giorni e avrete il ritratto del nostro mondo, che si va facendo sempre più brutto.
Pellicola come bellezza.
Giorni fa, rivedendo il film di Krzysztof Kieslowski La doppia vita di Veronica, ho trovato nella confezione del dvd un omaggio: appunto, un pezzo di pellicola.
A parte l’incanto del film, che ricordavo tale e che è rimasto immutato e la convinzione che tutti gli uomini dovrebbero vederlo per imparare a corteggiare una donna, lasciandole nella cassetta della posta degli indizi ed aspettandola per due giorni seduti a un caffè della Gare Saint-Lazare fino a che lei non ha messo insieme le tracce, a parte il film, dicevo che comprando il dvd avevo avuto in dono un pezzo fisico della sua realizzazione.
L’unica cosa che mi lascia perplessa è la tiratura: come può essere 020057 su 20.000.
Ho chiesto a uno che sa la matematica meglio di me.
Mi ha risposto: «È un eccesso».
Non ho capito.
Quello che ho capito è che ho messo il dono, di cui non ricordavo l’esistenza, sul tavolo della cucina e che ce l’ho continuamente sotto gli occhi.
Un monito su cui riflettere: quanto è importante la pellicola, ovvero quanto è importante accordare la nostra attenzione a quello che facciamo.
Le donne mi esasperano sempre di più.
Adesso è uscito fuori il vino femminista.
Mi spiego.
Una caviste, che è una donna che si occupa di vino, segnala le parole sessiste dell’enologia: «il vocabolario della degustazione è stato creato dagli uomini, per gli uomini, all’uso degli uomini, escludendo le donne».
Ma dai. Chi lo avrebbe mai detto.
Dunque lei denuncia «il linguaggio binario con un vino maschile possente e virile e un vino femminile etereo e delicato».
Un bell’impiccio, per sciogliere il quale dovremmo andare a vedere se gli uomini sono davvero possenti e virili e le donne eteree e delicate.
Meglio di no.
Lei insorge contro l’espressione «qui a de la cuisse», che si traduce con «che ha della coscia» e figuriamoci se non sono d’accordo sul fatto che c’è l’abitudine diffusa di fare a pezzi le donne, considerandole seni, poi cosce, poi altro.
Fermo restando che le donne sono le prime a fare a pezzi se stesse.
E a guardarsi.
«Davanti allo specchio si studiava, la curva delle anche, quelle cellule stanche», come cantava Loredana Berté prima di fare scempio di se stessa.
(E non venitemi a parlare del tempo che passa. Dipende da come lo passi, il tempo. Fra l’altro lei ha anche perso la voce).
Ma, stavamo dicendo, il vino che ha la coscia.
La cosa che qui si nega è che la lingua è una convenzione, per cui tutti sappiamo che quello è un bicchiere e quell’altra è una bottiglia.
Genere maschile e genere femminile, punto e basta.
Dunque, io non mi starei a fissare sulla lingua e su come le donne sono presenti e presentate in essa.
Io mi fisserei su qualcosa di più, e come lo chiamo, utile e concreto, la battuta sarcastica, l’allusione, il quotidiano.
Ma, a proposito di cosce.
C’è una rosa, fra l’altro antica, una Rosa Alba, che ha pure lei la coscia.
Ma mica una coscia comune.
Chiamandosi lei Cuisse de nymphe émue, io tradurrei con Coscia di ninfa commossa.
Il suo colore, il più delicato che la natura ha creato, sta anche nella Colour Chart di una importante azienda inglese che produce vernici.
Esso è presentato così: «Cuisse is the ultimate dusty pink with enough umber to avoid being too girly».
Bello, no? Un rosa un po’ polveroso, con un terra di Siena che lo salva dall’essere troppo girly.
Ma non ditelo alla caviste, ché poi si arrabbia e chissà che altro tira fuori.
E non ditele nemmeno che le rose Cuisse de Nymphe sono quelle che cadono sulla Venere di Botticelli quando nasce dalla schiuma del mare, benedicendola.
Laddove lei va maledicendo cosce e vini e uomini e lingua.
Rimanendomi, comunque, simpatica.
Per esempio, quando cita il bar à vin inclusivo, ovvero che ha dentro le donne, di Bordeaux, che si chiama Les Furies Douces.
Messo su da due amiche appassionate di vino, gastronomia e musica, che hanno rilevato un atelier di cui hanno conservato il carattere, il bar privilegia esclusivamente vini prodotti da vigneronnes, ovvero da donne che fanno il vino.
A me, se le Furie sono dolci, sta tutto bene.
Però poi non mi fate infuriare su altro: fissazioni, ossessioni, cosce.