Bagatelle Cross Section, Château Bagatelle in miniatura, Mulvany & Rogers

in illo tempore la domenica alla messa
(Annie Ernaux, Les Années, 2008)

Ho paura dei morti.
Vado per cimiteri perché sono una gotica e furiosamente romantica ma ho paura dei morti.
Tutto per via di quelle maledette domeniche a messa a San Pietro.
Che mi sembrava enorme.
(Lo era).
Che mi sembrava funerea.
(Lo era).
Che era piena di tombe paranoiche.
(Lo sono).
Avrei impiegato anni a fare amicizia con il barocco romano e ad arrivare a uno stato di tenera ammirazione per Bernini.
Intanto erano incubi notturni, sempre il medesimo, con il papa che stava imbalsamato in una teca di cristallo e si alzava.
Sono sicura di aver visto qualcosa di simile da molto bambina per via di un riflesso di luce.
La notte mi svegliavo urlando di terrore e nessuno mi capiva.
Bergman ha raffigurato molto bene i suoi e i miei incubi, per esempio in Sussurri e grida, quando la defunta alza le braccia e prende al collo la sorella, che scappa inorridita ma non riesce a liberarsi da quella stretta, mortale.
Il regista svedese ha anche vissuto esperienze di necrofilia; io, per carità.
E questo deve essere chiaro.
Dunque, se ad ascoltare il podcast che la radio ha miracolosamente saputo produrre mi è venuta voglia di lavorare con i morti, vuol dire che il podcast era fatto proprio bene.
Adesso vi racconto.

La radio manda programmi inascoltabili, triti, ritriti, banali, senza un’idea. Ci sono delle eccezioni, ma sono poche.
Forse una o due cose al giorno.
E allora perché tu l’ascolti.
Perché già non vedo la televisione, mi ci manca che non sento manco la radio e dico qui che sto parlando dell’unico canale culturale esistente in Italia.
Se ce ne fosse un altro, lo verrei a sapere.
Dunque qualche giorno fa smetto un momento di lavorare ed entro in una stanza dove la radio è sempre accesa.
Trasecolo.
Non c’è la solita roba del pomeriggio, che è meglio che non la sento, perché ogni volta mi arrabbio.
C’è una cosa nuova, che mi prende subito. Mi siedo e ascolto.
Un medico legale, donna, racconta la sua esperienza presso il Laboratorio di Antropologia e Odontologia Forense dell’Università degli Studi di Milano.
Il suo lavoro consiste «nella restituzione dell’identità e nella interpretazione di segni di violenza e di crimine, sia su resti umani antichi o recenti, sia su viventi».
Parlano in tanti e narrano di naufraghi, prostitute, vittime bambine, martiri cristiani.
Lei è molto limpida, dice che questo lavoro dà un senso alla sua professione di medico, dice che tutti hanno il diritto di essere riconosciuti e di avere un nome, dice che il lutto senza un corpo è impossibile.
I colleghi e i collaboratori raccontano in naturalezza ricomposizioni di cadaveri fatti a pezzi grossi pochi centimetri, di stive di navi piene di membra umane, un giovane uomo ricorda di aver fatto una sera un bagno nel medesimo mare di cui aveva analizzato di giorno i corpi annegati e di essersi immerso nel tentativo di togliersi di dosso il loro fetore.
Ascolto, attenta.
Tutto è misurato, non c’è compiacimento, dopo pochi secondi ci sto dentro anch’io, mi dico ma perché non mi è mai venuto in mente di fare qualcosa di simile, veramente già avevo le idee vaghe su quello che fa un medico legale, figuriamoci se sarei mai arrivata a pensare a un’organizzazione di questo genere.
Loro parlano di denti, di quanto siano importanti nel riconoscimento gli incisivi superiori, quelli che si vedono subito, mi ricordo che ogni tanto scherzo con il mio odontoiatra e gli dico che noi due abbiamo un rapporto molto intimo, se mi capita un guaio definitivo, è lui che viene chiamato per capire se sono io e lui lo capisce dai miei denti, che lui conosce.
Alla fine della settimana, in cinque puntate di podcast dal ritmo che ti toglie il respiro, con la voce perfetta per le letture, la musica che si infila nelle ruote degli ingranaggi narrativi come se fossero stati, tutti, appena unti di olio, un argomento che ha tutto per non mollarti, mi chiedo perché non producano di più di questa roba.
Se è venuta a me, che ho paura dei morti, la voglia di lavorare con i cadaveri, come niente funziona pure con gli italiani che non hanno più voglia di fare certi lavori: i fornai; le estetiste; le donne delle pulizie; i benzinai; i muratori; i falegnami (alcuni esempi insigni della storia: San Giuseppe e Geppetto); gli idraulici.
I trasportatori a domicilio di elettrodomestici.

È arrivata.
Portata su per le scale a braccia perché con l’imballo non entrava nell’ascensore, è stata sgusciata sul pianerottolo e mi è venuta incontro: Venere nata dalle acque.
La mia lavatrice nuova è bellissima, elegantissima, ha un oblò gigantesco che la fa sembrare una specie di Polifemo femmina, quando i due, rumeni, rozzi ma sopportabili, l’hanno installata, ha fatto il suo primo lavaggio a vuoto: emettendo piccoli fischi, sospiri, sembrava che pensasse prima di fare un movimento.
Poi si è messa a lavare sul serio e di tutto.
Uno dei rumeni mi ha chiesto con un sorrisetto quanti anni aveva il mio tavolo di marmo.
«Cento. Ed è bellissimo».
E tu i sorrisetti valli a fare nella cucina di tua sorella, chissà che tavoli avete voi in Romania.
Ho telefonato al direttore dell’Experience, gli ho detto che la lavatrice era fantastica.

Lucky pure io

Lui era molto contento e mi ha detto di passare a salutarlo e di cenare da loro appena possibile.
Ho telefonato al falegname e gli ho detto che avevamo svitato la cornice del top della cucina come lui aveva suggerito e che a quel punto i centimetri c’erano tutti, la lavatrice è entrata nel vano come scivolando sulle onde.
Lui mi ha detto: «Sono proprio contento» ed era vero, lo sentivo dalla voce.
Le volte che quest’uomo mi ha cavata dagli impicci.

Brutta bestia, la pandemia.
Oltre tutti i problemi di cui parlano alla radio, ci sono anche quelli più delicati e profondi, che non è semplice affrontare.
Per esempio, il problema del bastone e della carota.
Proposto da un danzatore francese, étoile all’Opéra di Parigi, fisico atipico, è alto m 1,92, tecnica prodigiosa, lui si lamenta.

Hugo

Di che cosa.
Di non avere gli applausi del pubblico.
Si allena tutti i giorni, ha fatto fotografie, scritto un’autobiografia, ha riconoscimenti e denaro.
Ma è tutto solo bastone.
La carota non c’è perché il teatro è chiuso e lui vuole il delirio del pubblico.
Mica facile, da sostituire.
Domando a tutti quelli che mi capitano a tiro di che cosa sentono la mancanza. Le risposte sono a volte faticose, come se non ci avessero pensato, quasi sempre scontate.

Il biliardo la sera.
L’aperitivo con gli amici.

Non gioco a biliardo.
E questa dell’aperitivo continua a darmi da pensare.
Io, in tutti questi mesi, non ne ho saltato nemmeno uno, sarà che prima li evitavo, rischi sempre il prosecco concallato e i discorsi che non si possono sentire.
Da un pezzo mi sono organizzata diversamente. E ho sempre l’alcol nel bicchiere alla temperatura giusta.
Però quella della carota mi è piaciuta molto, soprattutto in questo periodo, ché ne sto mangiando di dolcissime.
Mi è sembrato che la banalità della mancanza delle quattro chiacchiere che, a quel livello, ti fai con tutti e dappertutto, avesse guadagnato ses lettres de noblesse.
Insomma, finalmente uno che vola leggero. E vola alto.

Forse qualcuno si è chiesto come è finita quella faccenda del pepe alla moda, che era arrivato sbagliato.
È finita come succede fra persone che sanno stare al mondo.
Io, su loro invito, mi sono tenuta il pepe che non avevo ordinato.
Loro mi hanno mandato un pacchetto delizioso e accuratissimo con dentro la brochure, una delle loro buste, un biglietto di scuse e, finalmente, il barattolino del Poivre à la mode de Paris.
Pensato per i nomadi, per essere infilato in borsa o in tasca, avevo visto giusto, è il miglior pepe che abbia gustato in vita mia.
Anzi, è una miscela di pepe rosso, verde, nero, sancho (un pepe giapponese con note di menta, limone e citronella) e piment Cascabel, un peperoncino messicano.

Spaghetti alla Nerano

Semplicemente, ti esplode in bocca.
Ve lo mostro all’opera sui miei Spaghetti alla Nerano.
Decenti.
Non fosse che per il pepe che li ha benedetti.
Poi, siccome l’errore era stato loro, hanno aggiunto una confezione di Gomasio Breton, un condimento dal quale riuscirò difficilmente a liberarmi: fatto di grano saraceno, sesamo egiziano, fiore del sale, spezie, si usa cospargendolo all’ultimo momento su insalate, minestre, legumi, riso e formaggi freschi.
Quando si dice: sbagliando, impari un sacco di cose nuove.
Basta sbagliare con le persone giuste.

Che ci fate con la psicologia, quando c’è l’astrologia.
Il mio lato Ariete (Sole) mi piace molto.
La forza, l’energia inesauribile, il fuoco che arde.
Solo perché devo sopportarlo, sopporto il mio lato Pesci (Ascendente) che, comunque, mi irrita e mi indispone: le ubbie, gli sbalzi di umore, gli stati d’animo.
Tutto ciò che solo da poco riesco a gestire (si fa per dire).
Il lato oscuro e sfuggente.
Detesto e me lo toglierei di dosso volentieri, come una pelle di cui liberarmi, il mio lato Cancro (la Luna, per una donna importantissima).
Io, che butto tutto, ho ancora nel cassetto della biancheria una traduzione del testo della canzone di Joni Mitchell Little Green, battuto a macchina da un amico, un compagno di università che, si dice così, mi stava appresso:

Born with the moon in Cancer
Choose her a name she will answer to
Call her green and the winters cannot fade her…

Devo alla maledetta Luna in Cancro le incurabili malinconie, gli accessi di tristezza, i sentimenti lacerati per l’assenza e la mancanza.
Resta che, lo capisco benissimo, non riuscirei a fare niente di quello (di buono) che faccio, se fossi tutta come è l’Ariete: fanfarone, superficiale, prepotente, capace solo di incornare gli ostacoli che si trova davanti, preda predestinata di tutti i segni più pericolosi e raffinati intellettualmente (gli Scorpioni, che io non frequento) e di quelli leggeri che, facile facile, se lo incartano (i Gemelli, che incontro di continuo).

Appena posso, ridipingo il bagno e la cucina.
È già tutto fatto, nel senso che una volta per tutte già sono stati scelti, e usati, i colori giusti.
Inglesi, ovviamente, perché sono i migliori.
Però, dacché ho fatto la casa l’ultima volta e mi sono appassionata di pitture, mi faccio comunque mandare le Color Cards delle diverse ditte e me le studio.

Esempio di Color Card

Non cambierei i miei bianchi per niente al mondo, però mi diverte guardare i bianchi, e non solo, degli altri.
Sono evidentemente abbonata a tutte le loro Newsletter e stamattina ne è arrivata una.
Dico solo che uno dei colori di questa azienda si chiama Cuisse de Nimphe Emue che, tradotto, significa pari pari Coscia di Ninfa Commossa.
Se volete sapere di che cosa stiamo parlando, vi dico che parliamo di una rosa, il cui colore loro hanno preso in prestito.
(Ma perché la radio non prende mai in prestito niente).

Cuisse de Nimphe Emue

La faccio breve.
Oggi la Newsletter parlava di miniature e del loro fascino: il mini cibo, la mini borsa, il mini cane (orribile. Anche se qualcuno lo trova comodo).
Le miniature, dice la Newsletter, sono accattivanti, esse creano un mondo alternativo e rappresentano una nostalgia dell’infanzia.
(Essendo la mia infanzia stata fatta del papa morto e di domeniche a messa e poi del sugo col soffritto, che mi ha fatto passare per anni la voglia di mangiare, pur essendo una nostalgica, di essa non ho alcuna nostalgia).
Ma, dicevamo, le miniature.
Queste, fantastiche.
Me le rimiro dacché è arrivato il link.
Inglesi, ovviamente. Perché solo gli inglesi sono così matti da fare cose di questo genere.
Guardate qui.

Un produzione filologica, ludica, ossessiva, fantastica, non a caso fatta da storici dell’arte, che di tanto in tanto ne fanno una buona, uno si mette lì, guarda, si domanda quante ore di lavoro e quanta abilità ci vuole a costruire ambienti, stoffe, ringhiere, quadri, legna da ardere, piatti, calici, stufe, vasche da bagno, sedie, candelabri, porte, maniglie, lavandini e lavelli, insomma, case e castelli, tutti piccoli piccoli.

E, soprattutto, a che servono.
Interrogativo che si è posto il medico legale che dà un nome ai cadaveri.
E che mi pongo io, professionalmente, ogni momento, ossessionata, Ariete, Pesci e Cancro, dall’inutilità della mia esistenza.
E che magari si ponessero quello del biliardo e quello dell’aperitivo.
Ma tant’è.

Poi, però, queste case e castelli in miniatura; queste rose che hanno il nome di una parte del corpo, appetitosa e appetibile, di una ninfa; questo grande daffare in campi tutti da esplorare; i cadaveri; le spezie; la decorazione d’interni; i colori, una delle cose più belle che ci siano al mondo; la danza; la lavatrice.

Ma perché la radio non si occupa (quasi) mai di cose come queste.
Perché non ce la fa.
Perché non le sa.

Perché non ci riesce.