Sto arrampicata sulla scala e sistemo le scatole di fazzoletti nello sportello in alto dell’armadio della cucina.
Irina/Irene, che ama farsi i fatti miei, arriva con lo straccio in mano, guarda, resta a bocca aperta e mi chiede perché ho tutte quelle scatole di fazzoletti.
«Perché sono una piagnona».
E le spiego la locuzione italiana avere le lacrime in tasca.
Io sono una con le lacrime in tasca.
Piango perché mi commuovo; piango perché sono triste; piango, ovviamente, per amore; piango perché sono preoccupata per il futuro.
(Veramente anche per il presente).
Eccetera.
A dar retta a me, la vita è una valle di lacrime.
Lei mi chiede se piangere fa bene.
Attacco una disamina del pianto, che esprime e libera le emozioni che, tenute dentro, fanno male.
Poi chioso che, potendo, io non piangerei. Per le due lacrimucce che mi scendono quando mi commuovo, faccio presto a riprendermi, basta lo stick per il contorno occhi con la biglia metallica che tengo in frigo.
Per le sere storte, impiego due giorni di impacchi di camomilla fredda cambiati ogni quindici minuti e accompagnati dalla cantilena quanto sono scema, quanto sono scema.
Ma, alla fine, sputo l’osso.
Ho comprato tutte quelle scatole di fazzoletti perché le vendono solo in un negozio che trovo volgare e che cerco di frequentare il meno possibile, è uno di quelli in cui tu entri e quelli ti danno del tu e ti dicono «Ciao, cara», ma chi ti conosce e come ti permetti, e allora perché ci vai, perché solo da loro trovo il detersivo per la lavatrice in formato casa e non caserma, il fustino del supermercato che mi fa tanto madre di famiglia con quattro figli maschi che giocano tutti a pallone due volte a settimana e sporcano quintali di magliette, calzoncini e calzini.
Per non parlare delle mutande.
(Con tutto che pure io lavo tantissimo).
E poi perché solo da loro trovo le scatole di fazzoletti che piacciono a me: morbidezza e resistenza con un tocco di seta naturale.
(Ma chi ci crede).
Le uniche scatole di fazzoletti che, per il design e il colore, mi piace avere nella mia stanza da bagno.
E poi i fazzoletti erano in offerta, cosa che per me non ha alcuna importanza ma che per Irina/Irene è l’argomento decisivo, che finalmente le chiude la bocca.
Mi commuove, presso gli esseri umani, la volontà intensa di frequentarsi.
Feste, cene, degustazioni, vacanze in barca con gli amici suscitano in me la medesima impressione che suscita il tennis.
Non capisco.
Con la differenza che il tennis non l’ho mai capito e che, invece, ho frequentato anch’io intensamente un sacco di gente per metà della mia esistenza.
Poi, ho smesso.
Adesso, provate a interrogarvi: quante persone davvero interessanti, che valeva la pena frequentare, avete conosciuto in vita vostra?
Secondo me non si arriva a una dozzina.
Questa domanda ben si accosta alle altre due: quante volte ci si innamora per davvero nella propria esistenza; quanti giocatori davvero eccelsi ci sono stati nella storia del calcio.
Per gli amori, io che pure sono una passionale che perde la testa, non arrivo a una mezza dozzina.
Per i giocatori, questo è scientifico, non più di tre. Anzi, i primi due sono certi e sempre quelli, il terzo muta continuamente, quindi è opinabile, ipotetico e soggettivo.
Frequentare gente è una cosa faticosissima, devi tenere viva la conversazione, rilanciarla, assorbire il timido nella mischia, essere capace di ascolto, di scegliere il vino e di stare a tavola.
Io, che non vedo mai più di una persona alla volta a meno che non si tratti di faccende professionali, ho comunque messo a punto una locuzione, che nella sostanza è identica a quella che utilizzo per il tennis.
Per quest’ultimo, prendo fiato un attimo e dico quello che diceva il mio amico Paoletto, che frequentavo quando io avevo venticinque anni e lui ventitré: «È un gioco così geometrico». Certe volte sottolineo anche il così; così sembro pure una che sa un paio di cose di tennis.
Per la vita pubblica, pure lì, se mi ci metto, riesco a sospirare lievemente e a dire: «L’uomo è un animale sociale, è talmente chiaro».
E qui, se voglio fare effetto, sottolineo talmente; talmente tutti ci credono, che posso cambiare discorso e passare ad altro.
In Accademia sono in vista le elezioni del direttore. Hanno presentato la loro candidatura tre donne. Dunque, a qualcuno è venuto in mente di parlare di «elezione della direttrice».
E qui vi voglio vedere come vi mettete con la vicedirezione.
Che, grammaticalmente e secondo la vostra logica, sarebbe assegnata a un o a una vicedirettrice.
Adesso, il vicedirettrice rischia di non vedere la luce nemmeno se tutta la Crusca si schiera dalla sua parte.
E vicedirettore non ha senso.
La soluzione potrebbe essere l’abbreviazione che cita la Treccani: «talora, nell’uso corrente e fam., il secondo elemento viene sottinteso per brevità, e vice viene adoperato come s. m. e f.: c’è il vice?, sono io la sua vice».
Per brevità.
Non perché ancora una volta vi siete infilati con la testa nel sacco di una questione che non si sarebbe mai dovuta mettere sul tavolo perché di peso praticamente inesistente.
Perché non sta lì il problema e voi continuate a guardare il dito invece che la luna.
Ragionavo sul fatto che gli uomini sono stati capaci di pensarsi in modalità simbolica, ovvero di staccarsi dalla mera sostanza fisica, alto, basso, peso, età, forma e dimensione del naso, prestazioni virili, e di essere considerati dunque al di là dei dati elencati e in base, mettiamo, all’intelligenza, al titolo di studio, alla professione, anche al ruolo sociale e, d’accordo, al portafogli.
Abbiamo già detto che la loro abilità è arrivata allo spostamento semantico di quella che loro chiamano pancia, che nel loro immaginario sta dove in realtà c’è lo stomaco.
Invece la pancia delle donne è rimasta al suo posto. Faccio notare, fra l’altro, che essa è capace di estendersi tale e quale a uno stomaco maschile, infatti certe volte una donna gravida arriva al medesimo volume fisico di un uomo che non sa regolarsi a tavola.
Ma gli uomini hanno fatto credere a tutti che se loro hanno la pancia, è perché essa è tutta potenza e sostanza.
Dunque, voi continuate a infilarvi nel vicolo cieco della lingua, senza occuparvi mai della questione primaria: le donne sono sempre e solo considerate in base alla data di nascita e all’aspetto fisico.
E poi, questo lo dico io, quando presentano in massa una candidatura a una qualsivoglia elezione, creano un sacco di problemi.
Non solo linguistici.
Ma del rapporto delle donne con il potere, parliamo casomai un’altra volta.
Mercoledì 9 settembre scorso è partita la mia prima Newsletter. L’operazione di invio è stata emozionante. Alle 8:50, ora locale, mi sono seduta alla mia scrivania. Era tutto pronto. Come deciso, dovevo solo cliccare SEND alle 9:00. Dieci minuti di batticuore.
E se non parte.
E se nessuno la apre.
E se nessuno la legge.
Uno stato d’animo parallelo a quello che precede da sempre l’inizio di ogni corso: e se nessuno vuole frequentarlo.
Poi è sempre andata diversamente.
Alle 9:00 in punto ho cliccato SEND.
Mi è comparsa una schermata tutta effervescente ed eccitata, che diceva più o meno quanto sei stato bravo, ce l’hai fatta.
La Newsletter è arrivata anche a me, dunque, l’ho vista.
E ho cominciato a controllare le statistiche con le percentuali di apertura.
Affascinata.
Che cosa si sono inventati questi.
E guardate che anche per questo blog io ho accesso a tutte le statistiche. Ma la Newsletter è una cosa più immediata, più rapida e poi è una cosa nuova, che voglio coltivare.
È andata benissimo, la Newsletter l’hanno aperta in tanti e in tanti mi hanno scritto.
E dopo l’emozione è arrivata la commozione.
E vai con lo stick per il contorno occhi con la biglia metallica che tengo in frigo.
Indispensabile, soprattutto stavolta.
Ho comprato per un periodo una rivista francese di letteratura. Dopo un po’ ho smesso, era uscita nel frattempo una magnifica rivista di filosofia, alla quale mi ero abbonata, e ne leggevo regolarmente una di cinema.
Troppa roba, se si aggiungono i romanzi, i manga, la rivista femminile settimanale (uno dei punti cardine della mia vita, per avere il quale al momento faccio salti mortali: ma è troppo importante) e le riviste di decorazione di interni.
E i saggi.
E tutta l’altra roba professionale.
Ma mi è dispiaciuto e comunque ho tenuto alcuni dei numeri con dei dossier che mi interessavano.
Che sono andata a cercare in questi giorni, semplicemente perché sto preparando un Sorbetto e mi ricordavo di quello che avevo letto.
A parte la bellezza della grafica, sobria ed essenziale, la cosa che subito mi è saltata agli occhi è stata la qualità, eccelsa, dei contenuti.
Niente a che vedere con le cose di oggi, lasciamo perdere quelle nostre e pensiamo a quelle loro, è stato un impatto violento, allora è vero: tempo fa, e sto parlando degli anni ’90, si pubblicavano raffinatezze e singolarità e articoli magnifici e piccoli saggi al fascino dei quali era impossibile sottrarsi.
Poi, però.
Poi, però, ci sono gli articoli e le riviste di oggi.
Ho comprato una televisione nuova e dall’acquisto sono passati a oggi due mesi e sei giorni.
Quante ore ho visto di televisione.
Ore, andiamo, su.
Ho visto una volta venti minuti e un’altra, quaranta.
Che sentimenti ne ho dedotto: che la volgarità è spaventosa; che dappertutto alligna il divertimento più triviale; che le donne sono invitate a scollarsi e a mettersi i tacchi alti dalla mattina alla sera; che il quiz è la forma di vita più diffusa sulla faccia della terra.
Prima c’erano solo i quiz per la patente.
Poi il quiz si è diffuso a macchia d’olio.
Infatti ricordo anch’io il test di ingresso alla Scuola di Perfezionamento di Storia dell’arte medioevale e moderna di Roma in cui mi trovai di fronte alla domanda: Duccio ha lavorato ai mosaici della cupola del Battistero di Firenze?
Sì.
No.
Forse e chissà.
Dopo la patente, la mia prima volta.
E fu così che andai a fare il Perfezionamento a Urbino.
Già lavoravo con la Soprintendenza.
E poi le Marche sono una regione squisita.
E poi c’è nato Raffaello.
E poi fu, comunque, una bella esperienza e questo è ciò che rimane e che conta.
Oggi mi sono dedicata all’arte danese. Partita da un dipinto che aveva come soggetto una donna allo specchio che faceva toletta, tema sul quale sto lavorando, sono approdata altrove.
E ho incontrato l’immagine che vi ho messo in apertura: apparentemente, una ragazzina con davanti una tazza.
Poi, però.
Poi, però, lei è la figlia di un altro artista e questi danesi sono bravissimi e così suggestivi e mi fanno venire voglia di tornare a Copenhagen a vederli.
La città me la ricordo carnale e piena di cose interessanti, fra l’altro si mangia e si beve benissimo.
E poi siamo praticamente a metà mese e da loro l’estate è finita da un pezzo e le impressioni di settembre sono quelle dei primi freddi e della vita che è ripresa alla grande.
Noi, no.
Da noi un sacco di gente sta ancora in vacanza.
Una vacanza perpetua, un po’ come c’è scritto sui gratta e vinci che si chiamano Turista per Sempre.
Praticamente, un incubo.
Peggio di Paolo e Francesca, innamorati e costretti a stare avvinghiati l’uno all’altra, senza possibilità di fuga, condannati in eterno a frequentarsi in quel modo ossessivo.
Francesca parla.
Paolo tace e piange.
Dante, sopraffatto dal turbamento, sviene.
Ecco, questo, ve lo ricordo nel caso aveste dei dubbi, è ciò che si chiama: Inferno.
Proprio come la vacanza di chi sta sempre in vacanza.