Uno, non lo guarderei nemmeno se facessimo naufragio noi due soli sull’isola delle barzellette con la palmetta.
Non oggi, ma da sempre.
Nel film indossa pure un abito non ho capito se in fustagno, giallino, ma non giallo come l’impermeabile di Dick Tracy, che è color zabaione, quel giallo là è fatto con le uova di una gallina anemica.
Dell’altro, un piripicchio che nel film ha pure i capelli lunghi, non ho mai capito del tutto il senso, un amico una volta mi maltrattò e mi disse ma come, non capisci, lui recita anche con le mani.
A parte che pure tutti gli italiani sono bravi in questo, il tipo parlava di un attore che aveva visto al cinema solo doppiato, per cui diceva castronerie, cioè parlava di uno che parlava con la voce di un altro.
Laddove noi tutti siamo la nostra voce.
Se ve lo dico io, che ho il dente che duole, potete crederci.
Figuriamoci se un attore non è la voce sua.
Tutti gli uomini del presidente è un brutto film, meglio, è un film inguardabile.
Terzo componente della Trilogia della paranoia di Alan J. Pakula, mi dispensa dal vedere il secondo, che al momento non ho trovato.
Evidentemente il primo gli è riuscito bene per caso, e dire bene è troppo poco.
Nell’ultimo pezzo si racconta del caso Watergate, una faccenda di intercettazioni che portò alle dimissioni del presidente Nixon. Cinquanta anni fa, dunque oggi l’interesse è meno acceso.
I due giornalisti del Washington Post che condussero l’inchiesta nel film sono interpretati da Robert Redford e da Dustin Hoffman, nessuno dei quali, come si sarà capito, tiene desta la mia curiosità.
Non solo.
Sarà pure vero che il film, che è del 1976, funziona ancora oggi come ottimo rapporto sul giornalismo americano, però quei giornalisti sembrano un po’ delle macchiette, il direttore del giornale, per esempio, dovunque arriva mette i piedi sul tavolo, e pure gli altri in questo senso non scherzano, Hoffman va a casa di una e piazza un piede sul pouf di stoffa tutto inghirlandato e poi fuma dappertutto, pure in ascensore e fanno battute cretine eccetera.
Comunque, le donne che si lamentano della scarsità del loro medesimo genere agli alti livelli della politica possono vedere il film per consolarsi: praticamente non c’è un solo personaggio femminile di rilievo, tutte le signorine e le signore fanno le segretarie o, al massimo, le benefattrici, la partita se la giocano gli uomini da soli, che siano o no del presidente.
Da cinquant’anni a questa parte, ne abbiamo fatta di strada.
A causa del film, mi è andato di traverso il sabato pomeriggio.
Ma non solo per sua colpa.
Vedi oltre.
Mi chiedo come una persona dotata di un minimo (ho detto minimo) spirito critico possa sopportare la logopedia.
Prima del film di cui sopra avevo passato un altro pezzo del sabato pomeriggio facendo i fumenti e gli esercizi.
Questi ultimi consistono in una interessantissima suite di parole.
Parole, insomma, non del tutto.
Suoni, si tratta di suoni:
Mi mamma
Mi mammina
Mi ninna
Mi ninnananna
Mi mano
Mi mente
Mi mare
Mi mela
Mi nonno
Mi nuvola
Capisco che, letta così, la suite possa sembrare una produzione d’avanguardia del Gruppo ’63.
Ma non si tratta di questo.
Il giochino sta nel fatto che prima la lettera m, poi la n sono facili da pronunciare, nel senso che impegnano poco le corde vocali.
Esse servono (pare) anche come massaggio delle medesime. Probabile che esse, così, si rilassino. Va’ a capire.
L’emissione di suoni si fa su una respirazione semplicemente naturale, sull’uscita dell’aria, come sempre si fa parlando.
Il tono della suite è salmodiato, ovvero: cantilenato.
Però un conto è la lezione con la logopedista, che mi registro sul mio super tecnologico smartphone, che ha il registratore vocale di serie, aggeggio di cui quello precedente mancava.
Lì credo che funzioni il meccanismo del luogo della terapia, che diventa, a modo suo, magico.
Un altro conto è il mio salotto, con altre diecimila cose più interessanti che avrei da fare.
E che vorrei fare, invece di esasperarmi a ripetere un seguito demente di simil suoni.
Ho anche specificato che voglio sapere quando passiamo alle parole, quelle autentiche, cui seguono, si intuisce, le frasi e i discorsi.
Cento anni sono sufficienti?
Come si capisce, sono perennemente sull’orlo della crisi logopedica, però la mia creatività sta ancora lì, intatta, e mi suggerisce delle variazioni:
Mi ammorbo
Mi annoio
Mi ammazzo (se va avanti così un altro po’).
Baudelaire ha sempre ragione.
E vorrei vedere. Per esempio, nel foglio n° 20 dei suoi Razzi, parte dal lavoro, che per lui è un’ossessione, e arriva al denaro.
In questo modo: «Un po’ di lavoro, ripetuto tre cento sessantacinque volte, dà tre cento sessantacinque volte un po’ di denaro, vale a dire una somma enorme…Nello stesso modo, una folla di piccoli godimenti compongono la felicità».
E adesso, partendo da Baudelaire, vi dico come si fanno i soldi.
Non come li faccio io, che sono praticamente negata in questo senso, visto che mi piace spendere, anche di più di quello che guadagno.
Altrimenti dove sta il gusto.
Vi dico come fanno i soldi i commercianti, portandovi a esempio le mie spese di ieri.
Voi dovete sapere che la farmacia vicino a casa mia è diventata inespugnabile, con file che fanno il giro non solo dell’angolo, ma del palazzo. Dunque, ho deciso di andare nella farmacia di Porta Pia tornando da via Veneto, dopo essere andata a comprare la mia rivista francese settimanale.
Lì riesco a parcheggiare la macchina cinque minuti e non ho mai trovato troppa gente.
Lista degli acquisti: un collirio; due spazzolini da denti monociuffo; un olio per le ciglia. Già lì lo scontrino mi era sembrato esorbitante. Rientrando, ho fatto il conto con i medesimi prodotti, di cui avevo le confezioni con il prezzo.
Risultato, su quattro pezzi di scarso peso, € 10,00 di differenza. In più, ovvio.
Voi pensate a Baudelaire e, moltiplicando il mio esubero, pensate pure quale è il guadagno della seconda farmacia.
E sicuramente anche la prima ha il suo tornaconto.
Chiarisco che non ci penso per niente a farmi spostare da dieci euro e che nella vita non faccio mai questioni di principio. Però la constatazione è interessante.
Ma non è finita lì, perché poi, visto che stavo dalle parti di Eataly e sebbene avessi deciso di non metterci più piede, ho seguito l’ispirazione e ci sono andata.
Ma non stavi a Porta Pia e Eataly sta a Ostiense. Sì, però, come canta il duca di Mantova nel Rigoletto, la donna è mobile.
Soprattutto se ha la macchina.
Mi ero autorizzata a comprare il pane.
Ed è di nessuna importanza che sia uscita con tre buste stracolme, con tutti generi di prima necessità: salmone, filetto di trota agli agrumi, mozzarella, che lì è buona, prosciutto, vino, patate bio, basilico.
E peperoncino.
Il peperoncino al mercato ormai è introvabile e io sono stata poco previdente, perché quando c’era, poco ne ho comprato (ma mi sembrava tantissimo).
Come insegna lo Chef, avrei potuto surgelarlo.
Infatti, quello che avevo messo nel freezer si può utilizzare appena tirato fuori, si taglia facilmente.
L’altro giorno ho comprato per € 1,00 dieci pezzi di peperoncino da un pakistano.
L’ho assaggiato e non mi è piaciuto (il peperoncino).
Quando da Eataly ho trovato un piccolo ma intero banco, ho pensato adesso mi faccio una scorta.
C’era pure l’esperto, che sapeva tutto, un autentico peperoncinologo.
Ci saranno stati quaranta tipi diversi di quella bacca, rossi, verdi e gialli, una festa per gli occhi.
Gli ho detto che volevo qualcosa di normale, per fare il sugo. Mi ha confezionato dieci pezzi di diavoletto calabrese e di messicani, cinque più cinque, in una bustina di cellophane.
Quando sono andata a guardare il prezzo, ho visto: € 10,00.
E rientrando ho pure controllato le patate.
Che ho pagato € 2,60 al chilo, laddove a dicembre esse stavano al massimo, altrove, a € 0,99.
E dopo avervi dato prova di quanto io sia versata nell’economia domestica, chiudo questo paragrafo e passo ad altro.
Dicendo che a Porta Pia ho risparmiato un sacco di tempo e non ho preso freddo e che da Eataly mi sono divertita.
Il peperoncino, fra l’altro, è buonissimo.
Le patate, devo ancora provarle.
Nel frattempo, voi avete capito come si fanno i soldi.
Camillo Langone è tornato a parlare.
Voi sapete, come quelle statue della Madonna che di tanto in tanto versano lacrime.
Insomma, anche se sono andata avanti io con la lettura, mi piace pensare che sia lui a essersi di nuovo espresso.
Facendo il miracolo.
Langone è tornato a parlare dello spritz.
«Il Veneto è felice perché in Veneto si beve tanto e si beve male…Bere poco e bere bene è un programma melanconico, da ricchi pensionati…Mentre se in Italia esiste ancora una bella gioventù, e in Veneto esiste, questa beve spritz. Non importa che cosa ci sia dentro, importa che sia alcolico e che scenda giù in gran copia».
Non fa una piega e poi se lo dice lui, deve essere vero.
Scrivo questo articolo sorseggiando non uno spritz, ma un rosato della Basilicata, bello freddo, nel mio bicchiere che sembra, anzi, è un bocciolo di rosa.
Questo è il mio post della domenica. Leopardiano, perché cita due volte Leopardi, che parla del dì di festa nel Sabato del villaggio e nella lirica che di questo giorno racconta la sera.
Il post è un gioco, un divertissement e come sempre è confessionale.
Io scrivo quello che ho voglia di scrivere, se ho voglia di scrivere un saggio professionale di arte, lo faccio.
Altrimenti, scrivo altro.
Ho corredato il post di una serie di creazioni di due giovani di talento, Davide Columbro e Pamela Pascale, che cito in ordine di apparizione (nella mia vita).
Insieme, loro sono Farcia pasta all’uovo.
E sono bravissimi.
Mi hanno fatto venire voglia di fare la pasta in casa, l’ultima volta è stata un paio di anni fa, è pure venuta bene, ma adesso vorrei rimettermi all’opera.
Ammetto che il motivo principale per cui io cucino poco è che non mi piace sporcare la cucina, che nella mia casa, e non solo, è un luogo polivalente, dove succede di tutto.
Succedono i pasti, certamente, ma anche i discorsi, la lettura, la scrittura, gli affetti, i progetti.
Leopardianamente, succedono anche la tristezza e la noia.
Ma questa pasta fatta in casa ha tanto di quel talento dentro da cambiare radicalmente i termini del discorso.
Crea.
Forme, colori.
Attiene a concetti, rivisita la tradizione, getta le basi per fondarne una nuova.
Con i miei complimenti e il progetto di comprarmi, almeno, il tarocco, che poi sarebbe la spatola tagliapasta.
Ora mi metto subito a fare una ricerca e a confrontare qualità e prezzi.
Poi vi racconto.