Il ragazzino sembra uscito da un film di Larry Clark.
Sta fermo vicino ai cassonetti con in mano un pallone sgonfio.
Avrà undici anni.
Mi guarda con aria smarrita.
Gli chiedo se ha bisogno di qualcosa, mi dice se posso aiutarlo a capire dove buttare il suo pallone.
Nella raccolta indifferenziata.
E ciò nonostante i cassonetti siano tutti pieni fino a scoppiare, quindi logica vorrebbe che sia corretto usare quello con ancora un po’ di spazio.
Troviamo un buco per il pallone.
Gli chiedo se da grande vuole fare il calciatore. Dice che non lo sa.
Come, non lo sai, se Totti lo andavano a prendere i responsabili della Roma Primavera all’uscita del catechismo quando aveva otto anni.
Delizioso racconto che mi ha fatto una volta una signora della medesima parrocchia.
Il ragazzino non sa che cosa vuole fare da grande.
Gli auguro di fare qualcosa di bello.
Per favore, non lo youtuber.
Casomai l’ingegnere edile o il geografo.
Una cosa seria.
(Ma il pallone, non puoi ripararlo?)
Abito nel quartiere dell’Eneide.
Fra via Eurialo e via Turno ci sono due rubacuori.
Uno lavora dal fornaio e mi ha detto che a casa ha la coppa di Miglior Baciatore della Costa Adriatica.
Non sono mai andata in vacanza da quelle parti, vuoi vedere che mi sono persa qualcosa, un uomo che bacia bene già sta a buon punto.
L’altro ha una botteguccia da calzolaio, con scritto su un’anta della porta Speedy Shoes Centre. È un uomo ignorante e rozzo, che ha avuto motociclette e donne (donne e motociclette fanno sempre bon ménage) e ha frequentato parecchie discoteche.
Una volta mi raccontò che la moglie se ne era andata da casa con i due figli piccoli e si era unita ai Testimoni di Genova. Mi ricordo che mi domandai per due giorni come fosse possibile che un terremoto tale si abbattesse sulla tua vita senza liberarti della tua ignoranza.
Cioè. Tua moglie si unisce a una setta di gente ligure che ha assistito a un tamponamento e tu le dai retta.
I due rubacuori al momento sono spennati e imbolsiti.
Ma perché invecchiate, dico io, con tutti i sistemi che ci sono oggi per rallentare lo scorrere del tempo, in certi casi, per invertirlo.
Ve lo dico io, che nemmeno a vent’anni avevo la pelle bella come ce l’ho adesso.
Quando penso queste cose mi sento cretina.
La voluttà di sentirsi cretini non è da sottovalutare, certe volte è pari alla voluttà di sentirsi intelligenti.
E poi il mondo è pieno di cretini.
Cretina come la podologa, che va in crociera in Grecia, va in escursione sull’Acropoli di Atene, rientra e, mentre armeggia con i ferri chirurgici, mi dice ma quanto sono cretini questi (le camembert qui dit au roquefort «tu pues», 1), lassù c’era quel coso tutto rotto e quelli non ci pensano, ad aggiustarlo.
Limpida visione del tempio più importante di tutta la storia dell’umanità, simbolo assoluto di perfezione, di intensità, di pulizia e di bellezza.
Cretina come la giovane sposa, che pure veleggiava ampiamente oltre i trenta e che, dunque, qualche esperienza doveva averla fatta, pure lei in Grecia, in viaggio di nozze, ma nell’interno, che prima si prende la dissenteria perché ha mangiato l’insalata, poi rientra e dice ma quanto sono cretini questi (le camembert qui dit au roquefort «tu pues», 2), ancora non hanno imparato a cucinare gli spaghetti, stanno sempre lì, con quegli spiedini rinsecchiti di carne.
Perché invecchiate, mi domando.
Il calzolaio nella sua ignoranza è comunque molto abile nel suo lavoro.
Dunque gli ho portato le mie scarpe, davvero malconce, peggio che in un film di Chaplin, le ho messe sul bancone e gli ho chiesto: «Che facciamo, le buttiamo?».
Certo, che ho altre scarpe, un paio fra l’altro nuovo, appena regalato dall’azienda che produce il modello che io porto sempre per risarcirmi di un difetto di lavorazione di un paio precedente.
Però volevo recuperare quelle.
Perché ci vado in bicicletta.
Ma è una scusa.
Perché in realtà penso che ormai siamo ficcati in un film di fantascienza, in cui il mondo cade a pezzi (Pris in Blade Runner ha le calze tutte rotte e si nasconde nella spazzatura) e in questo film tutto sarà sempre più in frantumi, la gente diventerà sempre più aggressiva, le file per la farmacia saranno interminabili, le città la sera saranno vuote in eterno, le relazioni diventeranno sempre più astratte e rarefatte, nessuno avrà più voglia di comprarsi biancheria nuova.
Mi dispiace?
No, me ne importa poco o niente e penso con sospetto a quando avevo voglia di un’altra sciarpa.
(Ieri l’altro).
Il calzolaio mi ha recuperato le scarpe, non dico che sembrano nuove, dico che posso indossarle quando non mi metto sur mon trente-et-un, ché allora vado pure con gli stivaletti con i tacchi.
E con le scarpe nuove.
Sabato scorso ho avuto un piccolo incidente.
Avevo visto che i pantaloni di velluto erano molto lisi e mi ero detta devo portarli a Jakir, pure lui sta a via Eurialo.
Viene dal Bangladesh, dove recuperano tutto.
Lui è bravissimo, mi ha rammendato i blue jeans, le lenzuola, adesso gli ho anche portato degli asciugamani di spugna che avranno cento anni che avevo preso in internet.
Asciugamani di spugna con il monogramma ricamato, rendiamoci conto.
Dicevamo, l’incidente.
Salgo in macchina e sento l’inconfondibile rumore di uno strappo.
«E ora come faccio», penso, come Rodolfo all’inizio della Bohème.
Stavo a via Veneto e volevo comprare le mie riviste.
Non sono una che si perde d’animo, ho anni di pendolarismo sulle spalle e quando stai fuori casa ti succede di tutto.
Ho fatto come si fa in montagna quando hai caldo, mi sono tolta il piumino leggero e me lo sono legato in vita.
Solo che avevo freddo, dunque, siccome volevo anche andare al mercato e non volevo ripassare da casa a cambiarmi, ho risolto rimettendomi il piumino e avvolgendomi intorno ai fianchi la sciarpa.
Che ci stava pure bene.
Lunedì sono andata da Jakir.
Gli ho detto: «Non ridere».
Lo strappo era di dimensioni abissali.
«Li metto per andare in bicicletta», ho mentito ancora una volta.
Perché in realtà penso che nel film di fantascienza in cui ormai siamo ficcati (in Blade Runner tutti gli edifici sono in rovina e disabitati, l’acqua cola dalle tubature, le luci vanno e vengono), in questo film, che sarà come una serie di quelle che non si sa quando e se avranno mai fine, tutto dovrà essere recuperato e non è che non avremo la possibilità di indossare abiti nuovi, semplicemente avremo voglia di indossare abiti che rispecchiano il nostro stato d’animo, frusto, consunto, sdrucito, logorato dall’attesa di una conclusione che come niente ci riguarda tutti fin troppo da vicino.
Jakir ha mani piccole e mobilissime, quando toccano la stoffa si muovono come se fossero animaletti che percorrono rapidamente un terreno scosceso.
La mani di un uomo dicono sempre molto più di tutte le parole che stanno in un vocabolario.
Le mani di un uomo mi affascinano.
Jakir prima prende i miei pantaloni di velluto, in effetti i lembi di stoffa che stanno intorno alla squarcio, poi li stende spianando tutto sul bancone.
Mi spiega per filo e per segno come intende costruire il rattoppo: dall’esterno, così non mi dà fastidio sulla pelle; con una stoffa di colore simile, che sta già pensando dove trovare.
Poi passa in rassegna gli orli, che sono un po’ sfilacciati e che hanno anche qualche lacerazione di poco conto.
Mi dice: «Qui ti lascio tutto perché fa moda».
Ci sto. In effetti, per quanto io non mi compri mai roba già rotta perché la pratica mi sembra demente, il modello dei miei blue jeans più recenti si chiama Mece Mid Blue Trash e in quel trash ci stanno le sfilacciature sull’orlo e sulle tasche, il filo di rifinitura dell’asola lasciato lungo ad arte e le solite subtle whiskering and fading, che sono poi le stropicciature e le scoloriture che mi chiedo sempre se varino da paio a paio.
Il grunge eletto a modello di vita.
A saperlo.
Jakir mi ha fatto un lavoro magnifico, in ventiquattr’ore e facendomi pagare una cifra irrisoria.
E mi ha pure consolata, nel caso ne avessi avuto bisogno. E mi ha detto che pure lui ha l’armadio pieno di vestiti ma indossa sempre e solo pochi capi: quelli cui è più affezionato, che si sente meglio addosso e che, metti oggi e metti domani, è ovvio che prima o poi cadono a pezzi.
Però c’è lui che tutto recupera e rattoppa, così anche i miei pantaloni che, si vede benissimo, hanno già fatto un sacco di battaglie, lui me li ha rimessi in sella e in campo, in modo che possano affrontare nuovi scontri.
Jakir parla un italiano approssimativo ma poetico e poi capisce tutto quello che gli dico.
Quando torno a prendermi gli asciugamani con il monogramma, voglio ricordarmi di chiedergli se le regole che lui applica al recupero degli abiti si possono usare pure con i sentimenti, per ritrovarseli meno laceri e meno a straccio.
Insomma, quella cosa veneta che mi fece tanto ridere quando la sentii la prima volta, non è detto che poi sia corretta.
Xe pèso el tacòn del buso, sì, ma fino a un certo punto.
C’è toppa e toppa.
E certe toppe fatte ad arte certo sono meglio del buco che rattoppano.