Jean-Etienne Liotard, Nature morte à la chocolatière, sec. XVIII

Voi prendete le visite guidate. Sono la manovalanza e la gavetta dello storico dell’arte.
E ciò per motivi diversi, i principali dei quali vi elenco: 1. Vedi le opere sul campo; 2. Impari a gestire la relazione con il pubblico, ti accorgi se capiscono, se si annoiano, se ti stanno seguendo o se non vedono l’ora che finisca.
(E se non te ne accorgi, vuol dire che non capisci niente).
Io ho fatto visite guidate in quantità industriale; poi ho smesso perché mi ero stancata e ho delegato; poi ho ricominciato perché le facevo meglio io e perché non ne potevo più di sentirmi rispondere non il sabato, non la domenica. E quando le vuoi fare, le visite guidate, se non il sabato e la domenica, ovvero quando la gente può parteciparvi.
Ora tutto è sospeso.
E non mi dispiace per niente.
Anzi, credo che non farò mai più visite guidate, forse esaurirò un impegno in sospeso, ma mi sto chiedendo se c’è un motivo per cui, mettiamo, al Grand Palais di Parigi, il posto più illustre al mondo per le mostre, le visite guidate sono, con qualche rara eccezione, proibite e nelle mostre nostre ci sono praticamente solo visite guidate: per gruppi e scuole.


Il visitatore singolo si trova cumuli perenni di gente fra i piedi. E quando non ci sono cumuli, si aggira con attaccata all’orecchio o al collo l’audioguida.
Io non ho mai preso un’audioguida in vita mia perché mi fa zombie.
Preferisco mille volte leggere una nota illustrativa.
E qui sta il punto.
Le note illustrative devono essere brevi e chiare, perché una mostra è in sé una cosa difficile e complessa e il pubblico deve poter capire come è fatta. Però una mostra è pure una cosa faticosa, perché il pubblico sta in piedi e perché gli si richiede un impegno intellettuale.
E devono essere chiare le didascalie delle opere. E devi capire al volo a quale opera si riferisce quella didascalia. E la didascalia deve essere completa, nel senso che tu non puoi omettere la tecnica e le dimensioni.
Insomma, in questi giorni in cui uno è costretto a continue riflessioni, mi viene da riflettere che forse questa sosta obbligata, che non si sa quando e se finisce, forse sarebbe bene utilizzarla per azzerare tutto e tutto ricominciare daccapo.
Tutto e dappertutto, sia chiaro.

Tutti stanno (stavano) con le gambe accavallate.
Tutti stanno (stavano) dappertutto con le gambe accavallate: in metropolitana, dove non è difficile capire che ingombri; in aula, dove uno si deve anche ritenere fortunato, visto che allo studente piace stare allungato sulla sedia con i piedi infilati dove è possibile, una volta ho ripreso un ragazzo pugliese piccoletto che aveva infilato una scarpa in una staffa del tavolo, che era aperto e che io, quindi, avevo davanti agli occhi; al ristorante.
Come si possa stare seduti a tavola quando si mangia con le gambe accavallate, per me è un mistero.
Vicino a casa mia ci sono due pizzerie con veranda, molto utilizzata di questi tempi. Dunque, lo spettacolo degli avventori è continuo: gambe accavallate e gomiti sul tavolo.
Una sera, a cena da un amico, è arrivata la figlia adolescente, che è stata venti minuti a tavola immusonita ed è poi scomparsa e che in quei venti minuti è stata con le gambe accavallate e i gomiti appoggiati oltre il piatto.
Il giorno dopo ho provato a replicare la sua postura e non ci sono riuscita: troppo acrobatica.
Mi sono ricordata di un altro amico che aveva un portamento elegantissimo e che raccontava che, durante l’infanzia, era stato sottoposto a un autentico dressage: libri sotto le braccia quando si mangia.
Un po’ eccessivo, ma i risultati erano lusinghieri.
L’unico posto dove la gente non accavalla le gambe è il parrucchiere: se ti vede in quella posizione, ci pensa lui a darti un leggero colpetto sulla spalla e, se non capisci, il colpo diventa più assertivo.
Il fatto è che, quando lui ti taglia i capelli, devi stare dritto, altrimenti a lui il taglio viene storto.

Io, però, una soluzione a tutto questo ce l’avrei: in televisione, un bel corso di comportamento, gestito da una di quelle signore aristocratiche e antipatiche, di quelle con montagne di storie, storiette e pettegolezzi da raccontare.
In più, che non ha mai fatto niente in vita sua e che quindi si annoia e che, dunque, si metterebbe di buzzo buono a dare vita a un programma destinato al successo.
Lei sarebbe di quelli che sanno che la frittata non si taglia con il coltello e che il cucchiaio si porta alla bocca dal lato e non, torpedo-like, dalla fine dello strumento.
Insegnerebbe come si beve il vino, come si rifiuta una portata, come mangiare cibi specifici: minestra, uova di quaglia, insalate, pâté e terrine, carciofi, asparagi, piselli, banana (mai monkey-style), fichi e ananas.
Il programma avrebbe un seguito che farebbe invidia a Lascia o raddoppia?, che invece non aveva concorrenti e farebbe gola a diverse categorie di sponsor: detersivi e candeggina per una tavola immacolata; produttori di pasta e di pomodoro in scatola al momento degli spaghetti; manifatture di cristalli e porcellane; piccoli e grandi elettrodomestici.
Se nessuno ci ha ancora pensato, è perché stanno tutti a tavola con le gambe accavallate e non capiscono le possibilità, anche di sfruttamento commerciale, di un mondo più educato, elegante, capace di stare con la schiena dritta.

Se bevi vino regolarmente e spesso ti concedi bottiglie che costano il 2% del mio stipendio di docente a fine carriera e livello massimo e tutto il resto, e per aprirle non hai un cavatappi decente (quando, di cavatappi, io ne ho cinque), semplicemente: sei un inetto.
E non voglio più tornare sull’argomento.

Ogni volta che vado a cena fuori, me ne pento.
In pizzeria ormai devi prenotare con quattro giorni di anticipo, fra un po’, causa posti limitati, andare a farsi una pizza sarà come cenare in pompa magna alla Tour d’Argent, sei mesi di prenotazione per un tavolo con vista sull’abside di Notre-Dame e abbigliamento all’altezza.
Stavolta, però, per una pizza.
Inoltre, tu ti siedi e arriva il cameriere che ti chiede se vuoi un prosecchino.
Certo che sì.
E lui, letteralmente, ti sporca il fondo del bicchiere, in modo tale che la bottiglia, di qualità comunque media, basti per almeno una trentina di clienti.
Intuisco che si era infatti parlato di prosecchino  e che loro  intendono il termine come diminutivo relativamente alla dose che, secondo i loro calcoli, ti spetta.
Se pensavi di cominciare a ubriacarti, hai sbagliato tutto.
E se non ti ubriachi, la sera non scorre.
E la pizza costa quanto una bistecca.
E l’atmosfera è talmente informale che le gambe accavallate si sprecano sotto a ogni tavolo.
Tutte bene in vista, mancando i tavoli di tovaglie.
In uno dei ristoranti più eleganti di Roma, le verdure grigliate erano mezze crude e il polpo bruciacchiato.
Però lì, almeno, sono riuscita a ubriacarmi.
Programma che, paradossalmente, non ho portato a compimento in enoteca, dove gli unici cibi caldi che puoi ordinare sono surgelati e passati al microonde e dove ti devi accontentare di un piattino con quattro fette di salame e prosciutto e quattro striscioline di formaggio.
Essendo le ore 20:30, non ti viene il dubbio che sia ora di cena?
E, inoltre.
Penso di cominciare a portarmi il tovagliolo da casa.
Ci sono ristoranti dove puoi portarti il vino, non capisco perché io non possa portarmi la mia biancheria.
Arriva un calice di prosecco, stavolta riempito al punto giusto, accompagnato da un quadratino di carta gialla a un solo velo, piccolo piccolo.
Chiedo un tovagliolo.
Il titolare, personaggio esperto e navigato, mi prende un po’ in giro e mi chiede se voglio un rotolo di Scottex.
Non avevo capito che ero alla sagra della porchetta.
No, voglio un tovagliolo.
E un coltello e una forchetta.
Visto che non ho alcuna intenzione di mangiare il salame e il formaggio con le mani, non avendo nemmeno dove pulirmele.
Arriva una salvietta di carta di poco più grande della prima, che lui, in cattiva fede totale, mi fa notare essere un sottobicchiere.
Anche questa salvietta qui è a un solo velo.
A casa mia i tovaglioli di carta di veli ne hanno tre e misurano 40 x 40.
Inoltre, ormai, sono usati con parsimonia: colazione rapida, venti minuti invece di quaranta, cene con irruzione di rossetto.
In quest’ultimo caso, il tovagliolo di carta è discretamente fatto scivolare in quello di lino, grande, 50 x 50, candeggiato, lavato e stirato personalmente dalla padrona di casa.
Che sono io.
Insomma, io considero i tovaglioli sacri e importanti.
A questo proposito, il mio galateo inglese, Etiquette & Modern Manners, che potrebbe essere adottato come libro di testo dall’aristocratica citata, alla voce Napkins fa un discorso molto chiaro: mai chiamarli serviettes, si allargano sulle ginocchia immediatamente, appena ci si siede a tavola, non si imboccano (to tuck) negli abiti. Si usano per tamponare le labbra, non per scorticarle o per asciugare il bordo del bicchiere fra due sorsate di vino.
A fine pasto si lasciano scrunched, ovvero accartocciati o stropicciati, a lato del piatto.

Ditemi voi come si fa a mettere in scena un simile rituale con quei pezzetti di carta a un velo che ti danno in enoteca.
E come fai a ubriacarti, visto che alla fine del calice di rosso è finito anche il piattino di salame, prosciutto e formaggio e che io, che pure sono una disappetente, non dico che agogno a una carbonara corretta e fumante, ma almeno a un piatto corretto di spaghetti pomodoro e basilico.
Che sono uno dei miei cavalli di battaglia e che mi vengono benissimo per via dell’aglio rosso di Nubia che mi sono procurata, del peperoncino che vado cercando in tutti i mercati e del basilico, che allevo con cura sul mio balconcino.
E a casa mia il prosecco si può consumare a volontà, fino, se è il caso, all’ebbrezza.
E qualche altra bottiglia di vino da aprire si trova sempre.
Qui mi sa che, per quanto io sia solitaria, asociale e poco ospitale, prima o poi dovrò ricominciare a ricevere.

Almeno avrei la garanzia di serate belle.
Almeno io.
Nel senso che, almeno per me, tali serate, belle sarebbero.

C’è una locuzione che ritorna e che non capisci se non ne hai fatto l’esperienza.
E fare l’esperienza di tutto è impossibile.
Non solo. Ci sono esperienze che io non voglio fare e che comunque mi interessano.
Per esempio: l’alpinismo ad alto livello; la cocaina; il cammino di Santiago de Campostela.
Dunque, sono avida di interviste, per esempio, di coloro che hanno scalato l’Himalaya.
Non pensavo che quell’orso di Reinhold Messner fosse un intellettuale capace di raccontare che cosa si prova di fronte a una natura feroce e ostile.
E invece.
Inoltre, lui è uno bravissimo a descrivere la noia, che è un sentimento che mi tormenta, e dice che proprio per la noia dell’infanzia in montagna lui ha cominciato ad arrampicarsi.
All’inizio, sugli alberi.
Poi.
Alcuni scrittori parlano benissimo della loro relazione con la cocaina. Ne cito due a caso: Pitigrilli e Angie David.
Io sono sempre talmente su di giri, che davvero mai potrei rischiare di uscire dall’orbita nella quale, faticosamente, cerco di stare.
Però mi piacciono i racconti.
Quanto al cammino di Santiago, l’olandese Caes Nooteboom ha scritto cose di una pienezza tale da risparmiarmi la fatica del viaggio.

Sto dicendo che da una parte c’è il turista onnivoro che viaggia e non capisce niente di quello che vede.
Per esempio la cliente del mio parrucchiere che, martedì scorso, al lavaggio, a voce sgradevole e alta, diceva che lei era stata in Cina e che la Cina era bellissima.
Siccome in Cina ci sono stata anch’io, sapevo che lei diceva stupidaggini e che la Cina è brutta, ha città orrende, cinesi che sputano di continuo, nessuna antichità perché ogni antichità è rifatta.
E sto dicendo, dall’altra parte, che ci sono quelli che viaggiano e che sanno che cosa stanno facendo, cito i primi due che mi vengono in mente, l’orso Messner che abbiano detto e Sylvain Tesson, che per me è un mito: uno scalatore che è cascato scalando il balcone di casa sua a Parigi una sera che aveva dimenticato le chiavi.
Ed era, giustamente, ubriaco.
E che, paradosso a parte, ha raccontato questa drammatica esperienza con accenti di una tale profondità da farmi desiderare di dimenticare anch’io le chiavi.

Anche se, in quel caso, io avrei chiamato i pompieri.

Ma divago.

E torno alla locuzione alla quale fa riferimento anche il titolo di questo post, lo strano concetto che ritorna.
Giocatori che dicono che è la partita a giocarli.
Scrittori che raccontano che il loro racconto li scrive.
Musicisti, in questo caso Giovanni Sollima, violoncellista, che ieri alla radio ha dichiarato che la musica suona lui.

Una cosa stranissima, un po’ astratta, concettuale, che non capisco bene che cosa significhi ma che mi attrae, come una calamita potente.
La statua che sta già dentro al marmo e che Michelangelo deve solo tirare fuori.
Il protagonista del romanzo che, lo dicono tutti quelli che scrivono, a un certo punto esce dalla scrittura e vive una vita sua.

La magia dell’esistenza.
Pure quando l’esistenza è assenza e desiderio.

E cercavo un’immagine iniziale di questo articolo e l’immagine è venuta a me con prepotenza.
Perché Liotard è un pittore immenso.
Perché, pure se io non bevo cioccolata calda, la sola idea di poterla bere mi riscalda.

Perché quella tazzina e, soprattutto, quel cucchiaino sono di una bellezza tale da risolvere in sé tutte le tazze e tutte le posate del mondo.

Perché è arrivato l’autunno, la pandemia impazza e io comincio a essere, stavolta sì, preoccupata sul serio.
E ho bisogno di consolazione.
E di distrarmi.