Non ho mai mandato un WhatsApp vocale.
Mi sembra di avere capito che basta schiacciare l’iconcina con quel microfono che sembra un fiore e inviare.
Ma non mi sembra di vedere il passaggio intermedio che sarebbe il riascolto, quello che corrisponde alla rilettura di un testo scritto.
L’hanno saltato.
Per esempio, il riascolto sta in tutti i file audio che registro per lavoro, funzione che dà la possibilità di cancellare, rifare, perdere mezza giornata appresso a una consonante.
Voi mi direte che il riascolto non c’era nemmeno quando si lasciava un messaggio su una segreteria telefonica. D’accordo, ma quello era e sembrava un telefono, il meccanismo mentale era il medesimo, ti chiamo, non ti trovo, dico alla tua segreteria quello che volevo dire a te.
Certe volte era pure meglio.
Ammetto di essere stata una grande sostenitrice delle segreterie telefoniche.
Ma procediamo con ordine.
Invece, di WhatsApp vocali ne ricevo parecchi. E spesso essi sono corredati dalla frase scusami, ma sto guidando, sto camminando, in questo momento non posso scrivere, tutte frasi che mi suonano alienanti, perché poi quella che mi arriva è una voce, ovvero uno degli aspetti più intimi e immediatamente percepibili di una persona, dunque non capisco più il motivo delle scuse, dovrei ringraziare io per questa comunicazione così privata.
La voce è uno degli aspetti che prediligo in una persona.
Questo funziona anche al rovescio.
Voi pensate a una bella donna con una brutta voce.
Voi pensate a una donna brutta con una bella voce.
Certo, l’ideale sarebbe una bella donna con una bella voce. Poi, però, bisogna vedere quello che dice.
(Eh, quante ne vuoi).
A causa della mia professione, ho problemi di voce. Ce li ho da sempre, solo che ho impiegato anni a dare loro un nome, non dico a gestirli, visto che non sono capace di farlo.
Infatti scrivo questo articolo in una domenica in cui avrei voluto prepararmi una lezione, cosa al momento del tutto inutile, visto che la lezione non la farò perché non ho la voce per farla.
Non ho patologie.
Questo almeno fino all’ultima visita di controllo.
Se avessi patologie, probabilmente non ne parlerei. Già un blog è uno spazio confessionale, non apprezzo che diventi una cartella clinica.
Non ho patologie ma soffro di abuso, quindi il mio è un problema organizzativo.
Al termine abuso sono arrivata in un momento di crisi brutta, con un’audiologa che, in un gabbiotto provvisorio del Policlinico e con il ricettario sulle ginocchia, mi mise, letteralmente, con le spalle al muro.
Seguirono sei mesi sospesi e silenziosi, dopo i quali ricominciai a sentire la mia voce.
(Pensavo continuamente a quello che avrei potuto fare se la voce non mi fosse tornata: cameriera in una pizzeria, sono una donna piuttosto svelta e versatile. Non mi veniva in mente altro).
Fermo restando che nessuno di noi può sentire la propria voce così come la sentono gli altri: tutto il nostro corpo è una cassa di risonanza.
Per sentire la nostra voce per come è, dovremmo registrarla in una sala insonorizzata, come quelle del doppiaggio.
Voi capite che il mondo è tutt’altro che insonorizzato, dunque, resta questa incapacità che abbiamo di sentirci, magnifica metafora della difficoltà che abbiamo tutti a conoscere noi stessi.
In seguito ho cercato di non ricascarci.
Inutile dire che ci sono ricascata di continuo, come succede con tutti gli abusi, altrimenti che abusi sarebbero.
Per rimediare, ho fatto tutto quello che c’era da fare, dai medici alle terme, passando per il capitolo a parte delle logopediste, tutte donne, almeno quelle in cui sono incappata io, tutte parecchio compiaciute di se stesse, alcune del tutto inette, l’ultima, interessante, anche se perfettamente allineata nel mettere la sua persona prima del paziente. Che, in quel caso, ero io.
Mi disse subito che avremmo dovuto alzare la voce, nel senso di schiarirla. Ebbi l’impressione di essere dal parrucchiere: uno che mi diceva che bisognava intervenire per arrivare al cambiamento, voce o capelli, era lo stesso.
Più o meno ci riuscì.
Comunque chiusi lì, approdando all’ultimo specialista, quello che fece piazza pulita di tutto il resto, riprendendo la voce per quello che è, un mistero e un insieme di cose così diverse una dall’altra.
La voce rivela subito tutto: il genere, in primo luogo, uomo o donna. Anche se ci sono uomini con la voce da donna e donne con la voce da uomo e lo straniamento del contatto, soprattutto telefonico, con loro la dice lunga su quanto siano sensibili queste faccende.
Le emozioni. Difficile nasconderle, la voce te le squaderna tutte davanti.
I sentimenti.
Che cosa canta Tosca al suo Mario nella chiesa di Sant’Andrea della Valle, proprio qui a Roma?
Lo dici male.
«Tosca
È luna piena
e il notturno effluvio floreal
inebria il cor! – Non sei contento?
Cavaradossi
(ancora un po’ distratto e peritoso)
Tanto!
Tosca (colpita da quell’accento)
Tornalo a dir!
Cavaradossi
Tanto!
Tosca (stizzita)
Lo dici male:
Non la sospiri la nostra casetta
che tutta ascosa nel verde ci aspetta?
Nido a noi sacro, ignoto al mondo inter,
pien d’amore e di mister?»
Opera di sensi, di passioni, politiche e amorose, opera, come potrebbe essere altrimenti, di voci, racchiude in poche note e tre parole un personaggio: Tosca, grande diva, gelosa e sensuale.
(Pensa tu quante volte abbiamo pensato pure noi che lo diceva ma lo diceva male senza trovare le parole per dirlo).
La voce femminile più bella del mondo è quella di Catherine Deneuve.

Catherine Deneuve, Bella di giorno, 1967
Mito e leggenda, la sua voce è velluto cremisi che si muove fra luce e ombra.
Se non avete mai visto un suo film in versione originale, non sapete che cosa vi siete persi.
La voce maschile più bella del mondo in questo momento non mi viene in mente. Diciamo che è quella che vorrei sentire e siamo già un pezzo avanti.
La voce di Maria Callas è ciò che più mi emoziona sulla faccia della terra.
Ho il dvd di questo suo recital a Parigi.
Siamo nel 1958 e questo è il suo debutto.
Si vede questa donna dagli occhi ardenti, il naso importante, le orecchie non del tutto in regola, le mani lunghissime che prima si guarda intorno e immagino che il colpo d’occhio del teatro stracolmo in ogni ordine di posti sia stato parecchio emozionante.
Poi, semplicemente, canta.
Quando rinasco voglio occuparmi di vino, oppure fare il soprano. Preferirei il contralto, però, a sentire la logopedista ultima e finale, meglio schiarire.
Quindi, alzare.
Non venitemi a parlare di videochiamate.
Le ha inventate uno incapace di ascolto, uno che non ha mai conosciuto il gusto di una serata in penombra con un calice appoggiato in terra, un divano e un telefono.
Non guardo la televisione.
E faccio bene. Ne ho avuto una volta conferma passando davanti a una vetrina di un grosso negozio di elettrodomestici a Napoli, mentre andavo alla stazione e me la prendevo con comodo.
C’era una di quelle trasmissioni in cui tutti parlano, la vetrina era piena di schermi ma non c’era l’audio, si vedevano solo facce deformate da smorfie, volti disumani, sembrava un girone dell’Inferno di Dante.
Provate anche voi a casa vostra.
Togliete l’audio.
Oppure ascoltate solo quello. Vi renderete conto del tono che hanno tutti, tutti che strillano, tutte le voci che si sovrappongono, un coro sgangherato, un universo fuori controllo.
Mi piace la radio, ho anche fatto radio e mi è piaciuto molto, costruire una trasmissione è un po’ come preparare una lezione, forse anche una cena, ci vogliono ingredienti diversi e tutto deve essere pensato per far contento l’ospite, che ascolta o che siede a tavola.
Dicevo che mi sono piaciute molto le segreterie telefoniche. La mia era diventata il simbolo della mia vita indipendente, le dedicavo molta attenzione, registravo con cura il messaggio di benvenuto, non vedevo l’ora di rientrare per ascoltarla.
Una segreteria telefonica vera, con il nastro e i tasti, una di quelle che ti davano la possibilità di non esserci pure quando c’eri, «tanto lo so che stai lì, rispondi», parapiglia e vendette amorose meglio che con le spunte.
Le segreterie telefoniche invisibili, quelle che stanno dentro il telefono e che ti rispondono con una voce meccanica e non occhieggiano con la lucetta nel buio le ha inventate un altro incapace di ascolto, uno che non ha mai conosciuto il gusto di una vera casa. C’è casa vera quando hai un altro pezzo di vita esterna che ti aspetta oltre la soglia.
Segreteria telefonica come libertà di movimento; praticamente il contrario di uno smartphone, al quale stai attaccato continuamente.
Paradosso dei nostri giorni moderni. Finisce spesso che ti scambi messaggi ma che la voce non c’entra.
Sono così fortunata di avere fra le persone che conosco almeno un paio di volenterosi che mi telefonano solo per sentirmi, per dirmi, fra un milione di comunicazioni inutili, altre cose inutili ma, loro, avvolgenti, come stai, ti va di bere una cosa insieme quando usciamo dall’Accademia, come va, ti stai ambientando, a che cosa stai lavorando, che novità si sono.
Il gusto della conversazione e dell’amicizia, sepolto da faccette e disegnetti che dovrebbero esprimere sentimenti e che esprimono soprattutto se stessi.
Come uno strumento musicale, abbiamo anche noi delle corde.
Le nostre corde vocali sono due e sono sistemate profondamente in gola, parallelamente al pavimento.
Per puro gusto dell’orrido seguo dei blog in cui cantanti lirici si lamentano delle loro patologie, che vanno dalla laringite che fatica a guarire ad altro e di peggio.
Nelle mie fasi di silenzio obbligato ho seguito le vicende di Natalie Dessay, grandissimo soprano, che aveva cominciato a dare forfait troppo spesso prima di salire sul palcoscenico.
Non si sentiva di cantare.
Con senso dello spettacolo ha pubblicato una serie di video in cui ricostruiva le tappe di una patologia a una corda vocale quasi invisibile che stava concludendo malamente la sua carriera. Se ne accorge lei stessa, si vede l’ecografia e lei che dice ecco, è lì, e il medico che dice ma dove, non vedo niente.
C’è un intervento chirurgico e c’è lei che dice che non sa con che voce uscirà dalla camera operatoria.
C’è la convalescenza e la guarigione e un coraggio che ha dato coraggio a me, che pure ho una carriera diversa.
La voce degli animali.
La scena più terribile de La pelle di Curzio Malaparte, romanzo comunque terribile, è quando lui ritrova il suo cane Febo, che aveva smarrito, all’Università, alla Clinica Veterinaria, sottoposto a vivisezione e con le corde vocali tagliate perché non ci siano lamenti a disturbare l’esperimento.
«…mi sentivo nel cavo degli occhi un che di freddo, di liscio, mi pareva di aver gli occhi di vetro».
La scena di Ultimo tango a Parigi in cui Paul e Jeanne, allacciati sul pavimento, si presentano l’uno all’altra con una voce animale al posto dei nomi, in quel limbo che si erano ricavati, già inutili e inutilizzabili.

Ultimo tango a Parigi, 1972
La voce della mia prima gatta e la voce della gatta ultima e finale, che mi aspettava dietro la porta e miagolava. E non ho mai capito se passasse il giorno a dormire e poi mettesse in scena quella pantomima quando sentiva le chiavi o se davvero stesse ad aspettarmi per delle ore.
Voce come comunicazione.
Voce come assenza.
Voce difficile da fissare nella memoria. Spesso prendo appunti mentali: chiara, lievemente nasale; esitante; odiosa, è una persona ignorante; mi avvolge come un filo di seta; è una donna sgraziata; è un uomo grasso e si sente soprattutto quando ride, è come se il suono della risata fosse amplificato dalla pancia; è sempre in imbarazzo quando mi parla; è secca, asciutta, mi infastidisce; è una voce infantile fuori tempo massimo.
La voce degli studenti agli esami: quante volte vi ho detto ripetete a voce alta.
La voce con un accento regionale.
Non mi piace nelle donne. Mi piace molto negli uomini.
(Ma è un ragionamento sessista? Come mi ha chiesto giorni fa un mio studente a proposito di un altro ragionamento. Sì, è un ragionamento sessista. C’è qualche problema?).
Ma, chiarisco, deve essere un accento meridionale.
Il gusto del maschio meridionale che vuole che tu conosca la sua cultura e la sua origine non ha pari al mondo, è come se in lui fremesse tutto il Mediterraneo.
Mediterranea anch’io, sento il richiamo della foresta.
Potendo, si può alzare la voce.
Oppure parlare sottovoce, situazione di complicità.
I maschi cambiano voce, addio voci bianche.
Alle femmine questo cambiamento, che immagino violento, non è imposto, con tutto che si riconosce perfettamente la voce di una donna adulta da quella di una bambina. Insomma, non sempre, questo vizio che hanno le donne di non voler crescere nemmeno da vecchie mi sembra una costante.
Non solo uomini e animali hanno la voce, voi pensate alla voce delle campane, a quella del mare, del tuono, alle voci del bosco.
Si può contraddire qualcuno dandogli sulla voce.
In alcune case si sentono delle voci, di solito di fantasmi.
Le voci localizzate solo in un ambiente della casa sono voci di corridoio e secondo me non bisogna ascoltarle.
E spesso, dal corridoio, le voci si spargono.
Hanno la loro voce la ragione, la coscienza, il cuore.
Il sangue, poi, non ne parliamo.
Hanno la voce i verbi, il vocabolario, l’enciclopedia, il bilancio, le tariffe postali.
Il padrone, poi, come tutti sappiamo, ha una voce tutta sua.
A tutto questo non avevate mai pensato, vero? Nemmeno io.
Fino a che non ho inciampato sulla voce mia.
E, come sempre succede, mi viene in mente quando si rompe la macchina e tu vieni a sapere che esisteva, che so, il filo dell’acceleratore (che una volta mi si è rotto in una situazione di traffico congestionato sul Lungotevere), oppure quando ti fai male da qualche parte del corpo che non avevi mai considerato o quando un tuo sentimento mai o mal individuato viene ferito, insomma, si sa, la felicità la riconosci dal rumore che fa andandosene.
Lo stesso è successo a me con la voce, ho cominciato a occuparmene quando lei ha protestato perché la trattavo male.
Perché ne abusavo. Del resto abusiamo di un sacco di cose, del tempo, della salute, della pazienza.
Eccessi, esagerazioni, che hanno come cura e contrario la misura, la moderazione, la sobrietà, la temperanza.
D’accordo, tutte cose noiosissime.
Oppure no. Non lo so, stasera in questa fine del pomeriggio in cui ho dovuto cambiare tutti i miei programmi, in cui dalla radio arrivano le voci dei cantanti per la prima al Teatro dell’Opera, le medesime voci che ho ascoltato un paio di giorni fa dal vivo con i miei studenti in una rappresentazione del Rigoletto riservata ai più giovani, e io stavo completamente afona, dunque davvero dalla parte opposta e, forse, proprio per questo, più attenta e sensibile a tutto quello che accadeva sul palcoscenico, insomma, dicevo, forse, in questa situazione, moderazione e misura mi sembrano stati d’animo desiderabili.
Voce! Invoca talvolta il pubblico quando, a teatro, al cinema, in una sala il volume è basso e non sente.
Voce! anche se a non sentirsi è una colonna sonora, oppure un suono qualunque.
Bello, no?
Voce come essenza dell’ascolto del mondo.
Voce come dialogo, e dialogo privilegiato, col mondo.