Le Bureau des Légendes, stagione 4

eccètera locuz. [dal lat. et cetĕra «e le rimanenti cose»]. – E tutte le altre cose, e tutto il resto, e così via (Treccani)

Otto lavaggi in lavastoviglie e quattro ore abbondanti di lavoro.
Chiedendomi perché quello che ha inventato il frigorifero non ha disegnato un parallelepipedo bianco con all’interno sei ripiani e due cassetti e all’esterno un filo con una spina da infilare nella presa elettrica.
No.
Ha fatto una cosa complicatissima, sportelli, griglie con un verso, portauova, portaburro, ripiano in vetro sopra i cassetti, altri cassetti nel congelatore, per non parlare di quello che c’è dietro, un motore, anzi, due motori a vista, con tutta una panoplia di fili, tubi, cavi e uno scambiatore di calore.
Per sbrinare e pulire un frigorifero ci vorrebbe una squadra di ingegneri e poi un drappello di manovali, però se te lo sbrini e te lo pulisci da solo, allora il brivido di quando lo rimetti in moto è solo tuo.
Vuoi mettere.


Nel frattempo c’è voluta la scala e ti ci sei accomodato dentro.
Il mio frigorifero, che è un frigorifero normale, è comunque alto un metro e novanta, dunque, mi contiene benissimo e questo ha fatto: mi ha contenuta mentre mi ci infilavo dentro per pulire tutti gli interstizi.
E mentre la lavastoviglie andava, ogni cassetto del congelatore, un lavaggio, del resto occupa tutto lo spazio, le griglie a gruppi di due perché stanno pure strette, io salivo e scendevo dalla scala e lustravo.
Tutto.
Anche le mattonelle dietro e il pavimento sotto e solo l’idea di poter avere lo spumante freddo per cena ha avuto su di me l’effetto che fa al cavallo la strada della stalla, che ti convince ad accelerare il passo.
La parte creativa c’è pure qua: dunque, eliminazione totale di tutto quello che si era accumulato fra un magnete e l’altro sullo sportello e si riprende daccapo: avendo tenuto l’indispensabile.
Senza creatività, non stai al mondo.

Per cominciare, una richiesta. Adottiamo il sistema dei sottotitoli (se poi i titoli stanno sopra o di lato, poco importa).
Quelli ben fatti, e questi sono fatti molto bene, oltre a essere filologici hanno anche colori diversi: bianco se parla il personaggio inquadrato; giallo, per quello fuori campo.
Io sono una grande sostenitrice della menzogna, mento e prendo per buono tutto quello che mi dicono, però mi farebbe piacere l’introduzione, anche nello scambio personale, del doppio codice: ti dico una cosa vera, bianco. Butto lì una panzana, giallo.
E questo vale anche per i messaggi scritti, non solo per i discorsi.

«Scrittura sublime».
«Probabilmente la serie più intelligente e più credibile del mondo».
«Lodata per la sua scrittura e per il suo senso del realismo».
Non avevo dubbi.
Basta guardarla.
Celebro il ritorno della parola, soprattutto in un momento di auguri sostanzialmente retorici o sdutti, un ritorno che è un trionfo.
E celebro anche il ritorno dell’intelligenza.

Leggo un post che mi sembra eloquente. Un gruppo al femminile, con presenze tutte intellettualmente vivaci e colte, ha uno scambio sul piacere di ritrovare Via col vento e Piccole donne.
Le date: 1939; 1868.
Quindi qui stiamo parlando di un passato sempre attuale che, se ha funzionato per tanto tempo, non si capisce perché non dovrebbe più funzionare.
Non sono una grande ammiratrice di Scarlett, troppo capricciosa perché io possa apprezzarla, ma ricordo benissimo quando un’amica più grande, intellettualmente vivace e colta, mi trascinò al cinema montando tutto un discorso sul vestito da ballo della protagonista.
Che io mi ero figurato moderno, visto che non sapevo niente di Via col vento e che mi lasciò perplessa, perché come fa a piacerti un abito che  giusto a carnevale potresti metterti addosso.
Quanto a Piccole donne, sono invece del tutto d’accordo, del resto è raro trovare un poker completo di femmine ciascuna con il suo carattere. Insomma, tu, con l’una o con l’altra, riesci sempre a identificarti.
Spiegato così un secolo e mezzo di successi.
(Come siamo facili – e sceme – da capire, noi donne).

Abbiamo detto, un modello che funziona.
Poi però, è successo qualcosa.
Se di modello oggi ne funziona un altro.
Ma procediamo con ordine.
Malotru è a Mosca, è stato in galera, sembra un ladro di polli per quanto è malconcio.
Veridicità dei proverbi: d’accordo, che l’abito non fa il monaco.
Ma pure «vesti un ciocco, pare un fiocco».

Malotru a Mosca

Prima c’è stato tutto un gioco di parole, per cui lui lavora in uno di quei camion che vendono cibo e ha detto a un paio di simpatiche ragazze che l’insalata niçoise si chiama così perché viene da nice.
E pure io, ogni volta che passo a piazza Zama, dove c’è un locale che si chiama Nice Bar, mi chiedo se sia un posto grazioso o nizzardo.
Allora Malotru saluta una di queste donne, quella che lavora al supermercato lì accanto, dicendole che lei è molto niçoise.
Lei si chiama Samara, un nome ebraico scelto da un padre che non era ebreo ed è una russa così come io, che sono italiana, mi immagino una russa sul posto: robusta, con la gonna jeans e le scarpe da ginnastica.

Alexander Deineka, Corsa campestre, 1944

Insomma, una donna come quelle che racconta Deineka.
Malotru e Samara si frequentano, si vede che lui cerca pace e lei un po’ di guerra, comunque, finisce che i due imbastiscono una vicenda. Lei ha già due figli e, a un certo punto, viene affrontata dal cattivo di turno, che la minaccia. Se non rivelerà ogni dettaglio dell’uomo che sta vedendo, loro ci andranno di mezzo.

Samara

E che cosa le dice. Mica cita Via col vento o Piccole donne, non ci pensa per niente. Le dice tu pensavi di aver trovato un uomo a posto, invece, ancora una volta, hai estratto il numero sbagliato. Che, tradotto, significa «ti è andata proprio male».
E pure questo è un modello in cui identificarsi.
Dopo l’età dell’innocenza, benvenuti in quella dell’ansia.

Ritorno dell’arte, dopo quello della parola e quello dell’intelligenza.

Iraq, il sonno della donna-soldato

Un’immagine di una sosta notturna di Jonas, che è in missione in Iraq: una donna che dorme, avvolta in una coperta.
La fonte: un artista svizzero naturalizzato francese, fra i più fantastici della storia.

Félix Vallotton, Donna addormentata, 1899

Prova ulteriore della qualità alla Hitchcock: tutti apprezzano il film, poi, quelli del mestiere, e sto parlando di qualunque mestiere, ci trovano dentro qualcosa in più che li riguarda.

E che li colpisce al cuore.

Siamo invitati in un ambiente informatico underground a Mosca.
E poi in una stanza del Bureau a Parigi in cui un drappello di hacker giovanissimi pesta ciascuno sulla tastiera del suo computer alle prese con dei programmi.
E assistiamo a un cyber attacco mozzafiato.

MY OTHER COMPUTER IS YOUR COMPUTER

Alla parete, è appeso un manifesto con il loro motto: MY OTHER COMPUTER IS YOUR COMPUTER.
Il computer di chi.
Il mio certamente, ma anche il vostro.
Questi arrivano a tutto, trovano il vostro indirizzo, la vostra data di nascita, il vostro conto in banca, sono a conoscenza di tutte le vostre password.
Pericolosi?
Ma no, perché, questi sono tutti assoldati dal Bureau, sono geni dell’informatica, stanno lì per proteggerci.

César/Pacemaker

(Anche se è legittimo avere dei dubbi).
La squadra dei geni ragazzi è diretta dal genio ragazzo più genio di tutti: César.
Esile, sempre in T-shirt e camicia a quadri, assumerà per una missione l’identità di un collega, di poco meno bravo di lui, e si chiamerà Pacemaker.
E pure lui va a Mosca, dove, lo capiamo, sta succedendo di tutto.
E siamo a Mosca pure noi, controllati dal controspionaggio locale.
Ed è a Mosca anche Marina, che ha cambiato nome, si chiama Rocambole (dunque, Phénomène non esiste più. Possiamo approfittarne) e ha cominciato a frequentare un altro giovane esperto di informatica, Misha.
E, visto che parliamo di pirati, per quanto informatici, lei dirà a lui che lui è riuscito a penetrare la rete.

Marina e Misha

Per quanto ci seduca per la ricchezza delle situazioni e dei personaggi, la trama non ci interessa: essa è troppo fitta di strategie geopolitiche e di tradimenti per riferirla.
A noi interessa l’aria del tempo.
Che è il tempo della memoria sentimentale ridotta a macerie; dell’annientamento dei legami affettivi; dell’introduzione della nozione di felicità, peraltro sempre compromessa; della malinconia, anzi, della tristezza; della desolazione; della quasi rassegnazione, comunque amara.

Ed è il tempo delle identità molteplici, nelle quali tutti i personaggi si perdono perché ne hanno troppe, proprio come noi, che sempre più a fatica e quando ci va bene riusciamo solo a dire «ciò che non siamo, ciò che non vogliamo».
E pure noi, come Rocambole, siamo perplessi davanti all’inattività.
E come lei, aspettiamo istruzioni.

Non so voi come state e che cosa aspettate.
Siamo pure in un momento in cui come fai ad avere un obiettivo o un progetto sentimentale.
Però, come sempre, ci serve almeno una ragione per voler sopravvivere.
Pure a noi, mica solo a quelli de Le Bureau des légendes.

Ma almeno ci sono loro.
Almeno, abbiamo una serie alla quale chiedere, se possibile, istruzioni e progetti.