Ma chi l’ha detto ma perché
Non devo più pensare a te…
Quasi mi insulto:
«Perché non lo hai ancora ricomprato».
«Perché vado tutte le settimane in centro e lo compro quando voglio. E poi ho trovato chiuso il negozio a piazza di Spagna».
«Potevi comprarlo da queste parti. Metti che non arrivino i rifornimenti, non lo trovi più nemmeno in internet».
«Comunque ho ancora più della metà dell’altro».
«Sì, però, se non arrivano i rifornimenti, come fai senza fondotinta».
«Se è per questo, ho quasi finito anche il correttore».
Le Torri cominciarono a cadere poco prima delle tre del pomeriggio.
Sentii la notizia alla radio e subito dopo mi arrivò un messaggio che diceva: «Le Torri Gemelle in fiamme!».
Pure con il punto esclamativo. Che quella volta ci voleva.
Il mio primo pensiero fu architettonico. Meglio loro che il Chrysler o il Seagram Building.
Poi arrivò il pensiero sentimentale: poco tempo prima eravamo stati una decina di giorni in un albergo di SoHo che si dava delle arie e le vedevamo tutte le mattina uscendo, sulla destra.
Non guardo la televisione, ma quella volta andai ad accenderla.
E vidi le Torri Gemelle che cadevano fino a notte.
Continuarono a cadere, in un loop ipnotico.
La mattina dopo avevo gli esami. Presi il treno e andai in Accademia.
Dopo la Storia, cominciarono le storie.
A parte i pompieri eroici e i cani con la bandiera americana sulla groppa, mi colpì quella dell’uomo separato dalla moglie, che si mise a cercarla fra le macerie.
Disperato.
Ma come, disperato. Se vi eravate lasciati.
Non è vero che non è mai troppo tardi.
Certe volte è troppo tardi.
Ieri un giornalista da Milano diceva che gli sembrava di stare a Ground Zero. Un’esagerazione, un po’.
Raccontava dei luoghi deputati, il Duomo, La Scala, io avrei aggiunto la Galleria, che erano deserti, straniti, senza il viavai di sempre.
Poi seguiva un’intervista a due giovani scrittori, uno che abita nel capoluogo lombardo nel quartiere Lazzaretto, quando si dice, stare sul pezzo; l’altro, nel Basso Lodigiano, un posto che lui stesso definiva di passaggio.
Entrambi raccontavano il vuoto, il rifornimento di serie per la tv e l’assenza di relazioni nella giornata.
Poi, la sera, ci si ritrovava.
Non si può vivere da soli.
Io che, se ogni tanto non ci fosse qualcosa o qualcuno che mi tira fuori da casa mia, sarei una specie di hikikomori, stavo in macchina e mi sono messa a pensare a ciò che poteva servirmi come rifornimento che ancora non avevo.
A parte il fondotinta e il correttore, qualche altro pacco di spaghetti e qualche altra bottiglia di vino.
Sì, poi, però, che fai.
Quello che faccio sempre.
Studio, leggo, scrivo.
Invito qualcuno a cena.
Guardo le serie.
La settimana scorsa mi si è liberato mezzo pomeriggio e allora ho assistito ai funerali di Patroclo.
E mi sono commossa.
E come fai a non commuoverti, il ragazzo, così giovane e bello.
E mi sono scese le lacrime.
E le lacrime mi sono continuate a scendere quando è morto Ettore, mi dispiaceva tanto pure per lui.
Ma quante volte li hai visti morire, l’uno e l’altro. Ma che c’entra, gli eroi sono sempre giovani e belli e, quando muoiono, mi fanno piangere.
Poi c’è stato il fatto del cavallo e di Ilio, che viene invasa, saccheggiata, data alle fiamme.
E Achille che si mette come un matto a cercare Briseide.
Ma come, non l’avevi lasciata andare via.
Sì, però, che c’entra, si può pure cambiare idea.
E pure lì c’era da commuoversi, del resto si è commosso pure Canova, che riduce l’episodio alla sua essenza, senza quasi nessuna ambientazione, ma che lei sia dispiaciuta si capisce da come se lo guarda.
Del resto lui le aveva sollevato una ciocca di capelli e l’aveva annusata, comprendendo dall’odore che lei è un’aristocratica.
(A me nessuno mi ha mai sollevato una ciocca di capelli per annusarla, nemmeno mia madre quando fumavo di nascosto. Misuro da questa mancanza la povertà della mia vita di relazione).
Mi sono commossa per i funerali di Patroclo.
Mi sono commossa per la morte di Ettore.
Mi sono commossa così tanto, che quando muore Achille avevo quasi finito le scorte di commozione.
Lui, che si era messo a cercare Briseide come un matto, andando controcorrente fra tutti che scappavano come impazziti, fra i cavalli imbizzarriti, le fiamme che cominciavano a divampare, la trova e la prende fra le braccia.
Ma pure per lui è troppo tardi.
Paride carica l’arco, lo tende e scocca la freccia fatale, che trapassa il tallone dell’eroe.
Lei grida, lui è ferito a morte, le annusa di nuovo i capelli, le dice che gli ha dato pace in una vita di guerra, la manda via un’altra volta, la città è destinata alla distruzione, lo sappiamo tutti e ce lo racconta pure Raffaello nell’affresco il cui particolare vi ho messo in apertura.
Ma di questo parliamo fra un momento.
Briseide, trascinata via da Paride, si volta più di una volta a guardare Achille, l’inquadratura si allarga, lui cade a terra, vediamo i compagni increduli, vediamo le fiamme, aveva proprio ragione Louis Aragon: «il n’y a pas d’amour heureux», «non c’è amore felice».
Questo è uno di quei casi in cui il male comune non ci porta nessun gaudio.
Ogni volta che incrocio la domestica quando arriva, c’è un quarto d’ora di teatrino. Qualche giorno fa c’erano i rimbrotti per quelli che sull’autobus tossivano e starnutivano senza mettersi la mano davanti alla bocca, da oggi i rimbrotti sono rivolti a quelli che non tossiscono e starnutiscono nel gomito.
Le faccio notare che la pratica di tossirsi e starnutirsi nel gomito è eccentrica.
Dice che lo ha detto la televisione e che quindi è giusto.
Dico che potrebbe venire in macchina, potrei accordarmi con il mio garage per il parcheggio.
Le ripeto che l’Appia e pure la Tuscolana, basta imboccarle e poi, dritte, dritte, la portano da me.
Dice che proprio non se ne parla, e se la macchina le si ferma per strada.
Lei in macchina fa sempre e solo due percorsi, va dalla figlia che abita ai Castelli e va nella sua casa natale in Calabria.
Ma a casa mia non sa arrivarci.
Stamattina mi ha fatto vedere che sotto i guanti di pelle aveva indossato quelli di lattice.
Dice che così il virus non passa.
Dico che siamo solo all’inizio e che ne vedremo, di teatrini.
Parecchi.
L’Accademia dove insegno è chiusa, al momento per una settimana.
Il supermercato dove ieri sono andata a fare rifornimenti come tutti i lunedì sera perché per me il lunedì è un giorno sensibile e sto quasi sempre a corto di cibo fresco, era stato saccheggiato.
La fornaia Fiamma ha scosso la testa, desolata.
Mi ha raccontato che la mattina c’era stata gente che di solito compra due paninetti che si era comprata tre filoni.
In tanti avevano fatto incetta di surgelati, scatolette e acqua minerale.
E la città, al momento, è aperta e normale.
Al momento.
Gli intenti con cui Raffaello lavora all’affresco dell’Incendio di Borgo sono ampiamente encomiastici. Rende omaggio a papa Leone X citando un altro Leone, il IV, che nell’anno 847 impartisce la benedizione e spegne miracolosamente l’incendio divampato in Borgo.
Vediamo la scena sullo sfondo e vediamo pure l’antica facciata della basilica.
L’artista in questo momento è immerso in un’attività frenetica, è pieno di idee, fa nuove esperienze, succede a Bramante come architetto nella fabbrica di San Pietro, studia la Roma antica, pensa di rilevare una pianta, fornisce i disegni per gli arazzi della Cappella Sistina.
È un uomo colto, raffinato, pieno di fantasia, con una capacità inesauribile di fornire modelli e soluzioni, qui c’è un estesissimo intervento di aiuti, ma solo perché lui è molto bravo a coordinarli, a guidare tutti, collaboratori e allievi.
Sulla sinistra c’è l’incendio di Troia, con la disperazione della madre che cala dalle mura un bambinetto fasciato fino al collo e il gruppo di Enea che fugge, portando in salvo il padre Anchise, che tiene sulle spalle, e il figlioletto Ascanio.
Ancora un encomio, stavolta rivolto alla leggenda alimentata da Virgilio che vuole Roma fondata dall’eroe troiano che abbandona la città sua per venire a fondare quella mia, fra avventure, dolori, pericoli e vicende amorose sulle quali mi commuovevo fino alle lacrime in quarta ginnasio e che, quando ci penso, mi commuovono fino alle lacrime pure oggi.
Il momento da me prediletto nell’affresco è il gruppo di donne sulla destra, con quella, bellissima, che chiude, o apre, la composizione.
Si affannano, si passano i recipienti pieni di acqua, hanno perso la magnifica e compiuta serenità raffaellesca e annunciano già il Manierismo.
È così che sono i grandi artisti: riassumono in sé, oltre a se stessi, tutti quelli che ci sono stati prima e quelli che verranno.
Come facciano con il futuro non lo so.
Segreto misterioso e impenetrabile dell’arte.
Il cantante qui ha diciannove anni.
È carinissimo, porta molto bene la cravatta scura, ha una gran bella voce, piace a mamme & figlie.
Quando uno piace a mamme & figlie, nella vita, sta a posto.
La canzone è perfetta per lui e anche per noi.
Pure qui c’è una città che brucia, c’è un ragazzo che pensa a una ragazza che sta con un altro, ma possiamo declinare all’infinito questa situazione, come preferiamo, e lui sta come un matto.
È emergenza, è assedio, è pericolo, sono le Torri che cadono, è Ilio divorata dalle fiamme e lui è sicuro che in quella situazione così estrema, in cui i sentimenti sono messi a nudo, scorticati, lampanti ai nostri occhi, lei pure lo cercherebbe.
Intuizione dell’innamorato.
Di quello che non si arrende nemmeno davanti all’evidenza, che ha un cuore che non dorme mai, che è capace di inventarsi (lui usa proprio questo verbo) una situazione diversa, alternativa, che finalmente, davanti al pericolo, che può venire da dentro o da fuori le mura, così come può arrivare da dentro o da fuori noi stessi, rimette le cose a posto e ci fornisce, per una volta, un amore felice.
Con la città resa deserta.
Con quella assediata.
Con quella aperta e normale. Al momento.
Come si vede una volta di più, non tutti i virus vengono per nuocere.