King Size. Non apprezzo il formato famiglia, soprattutto, mettiamo, nel detersivo per la lavatrice, il fustino mi fa squadra di pallavolo, con tutti che dormono e sporcano sotto il mio tetto.
Compro le confezioni da quindici lavaggi, mi durano poco e le ricompro, fra l’altro l’odore del detersivo si sparge dappertutto e non è che sia sempre un odore buono, voi pensatelo sui fazzoletti di carta.
Non compro i fazzoletti di carta in un certo negozio di detersivi perché secondo me li tengono accanto ai fustini, così tu ti fai un bel pianto liberatorio, che però è guastato dall’odore del detersivo per i panni.
Per un periodo mi andavo addirittura a comprare dei pacchetti per pochi lavaggi, li vendevano in un paio di supermercati accanto alla stazione, mi ero fatta l’idea che fossero per i turisti, che ne so, uno sta a Roma in un appartamento per tre giorni e si compra quello. Mi faccio scorte, certamente, olio, carta di tutti i generi, scatole di pomodoro.
La scorta del vino, non lo so com’è, non riesco mai a farmela, i consumi a casa mia vanno a velocità superiore alla possibilità di fare scorta. Una specie di décalage.
Per i cosmetici mi piacciono le confezioni grandi solo del latte detergente, così uno è incentivato a struccarsi.
Dunque è stato un po’ controvoglia che ho comprato il mio shampoo in offerta, ml 400, che è una quantità da parrucchiere, in più anche superconcentrato.
A me delle offerte non interessa niente.
La domestica, quando veniva (vedi oltre), mi diceva che lei prendeva un tipo qualunque di carta igienica, purché fosse in offerta.
Ma come, dicevo io, pure quella con sopra i cagnolini e i fiori di camomilla.
Sì, sì, faceva lei, che non capiva che sulla carta igienica l’asino casca sempre.
Come quella volta che andai a cena a casa di uno e mi andai a lavare le mani prima di mettermi a tavola.
Tutto l’equilibrio miracoloso del piccolo appartamento, virilissimo, soprattutto per le dimensioni sovradimensionate del televisore e del letto, era guastato dal solecismo della carta igienica rosa.
Gliene chiesi il motivo.
«Compro sempre quella che è in offerta» – mi rispose lui.
Ma bravo, butti all’aria tutto il progetto del decoratore d’interni, ammesso che ne avesse utilizzato uno, per trenta centesimi di risparmio.
Ma dicevamo, lo shampoo in offerta. Vederlo adesso, appoggiato alla mia vasca da bagno, in giorni in cui non si sa che ne sarà di noi, mi conforta.
Guardo il flacone, guardo il tubo di balsamo che è accanto.
E penso: vada come vada, almeno ho di che lavarmi i capelli.
Finché in cielo ci saranno due lune. Il romanzo 1Q84 di Murakami Haruki è una delle cose più belle che abbia letto in vita mia. La narrazione si sviluppa nei libri 1, 2 e 3, ovvero per 1113 pagine.
Tutta la storia, complessa e coinvolgente, si svolge in due mondi paralleli, uno dei quali si riconosce perché ha due lune. Sì, due lune in cielo.
I protagonisti, all’inizio e alla fine, passano da un mondo all’altro. L’idea di due lune, ovvero di due mondi che sembrano uguali e che sono in comunicazione fra loro attraverso una certa scala di sicurezza che è sulla tangenziale, attiene alla sfera del genio.
E della metafora, che c’è sempre nei grandi romanzi.
Da che sono venuta a sapere delle due lune, penso spesso di ascoltare discorsi che sono in un mondo e di vivere, io, in un altro.
Come quando alla radio ho sentito tutte le storie delle donne che andavano a fare le pulizie a ore, che si erano ritrovate senza lavoro perché le signore non le chiamavano più.
Invece, da me era la mia domestica che non veniva, perché aveva timore che l’arrestassero sul pianerottolo.
Piangeva al telefono e mi diceva che non voleva stare a casa.
Casa sua.
A proposito dell’aiuto per le faccende, avevo chiesto a un amico e collega. Lui mi aveva risposto che la sua colf andava da lui a chiamata e che lui non la chiamava.
«Io non sporco», c’era scritto sul suo WhatsApp.
«Io, invece, sporco moltissimo» – avevo risposto.
Semplicemente, avevo rivolto la domanda all’interlocutore sbagliato.
Una persona a me cara che segue, quando ci sono, le mie lezioni e che vive con una georgiana di quarantacinque anni, mi ha scritto: «Ma non riesci a aggeggiare da sola?».
Io avevo già aggeggiato una volta, per dare una rassettata alla casa, che cominciava a dare segni di uscita dai gangheri.
Avevo cioè attaccato l’aspirapolvere e passato i pavimenti con lo straccio.
Però la cosa sarebbe stata lunga, di questo ero certa, dunque dovevo organizzarmi.
Per lavoro si può uscire, con le dovute precauzioni.
E con le dovute precauzioni, mascherina, guanti e panino in borsa, per rinforzare gli spuntini che le offro io, è venuta ad aiutarmi la supplente, quella che viene di solito da me nel mese di luglio, quando la domestica se ne va in ferie.
Bionda, piccoletta, di nazionalità rumena, la ragazza non teme l’arresto.
Perché lavora.
In questo periodo non va dagli anziani con cui di solito collabora perché ha paura, un po’ per sé (uno ha sempre la tosse), un po’ per loro.
Quindi è stata ben contenta.
E così puliamo la casa, lei lustra tutto e si arrampica sulla scala, io mi occupo delle minuzie, le mensole dei cosmetici, il guardaroba, lo stiro.
Mangia come una lupa, è vanitosa, primitiva, curiosissima, mi chiede quanto ho pagato questo e quanto quell’altro, conduce una vita dai bisogni civettuoli e primordiali, maglie, scarpe, capelli ma non ha ancora imparato i nomi delle dita della mano.
«Ripeti con me: pollice, indice, medio», a medio già si è scocciata.
Le faccio un altro caffè e lei torna ad arrampicarsi sulla scala, armata di stracci e di spazzola per i libri.
Altro che aggeggiare.
E di un mondo tutto chiuso in una via. Io ho imparato ad andare in bicicletta in Piemonte, durante un’estate in cui avrò avuto cinque anni e stavo in vacanza dai nonni materni.
La bicicletta era la libertà. Dopo la serie di cadute nel fosso, andavo in giro per strade di campagna in un mondo senza confini. Andavo anche a trovare la mia amica Gabriella, che era ben più grande di me, che mi aveva insegnato a stare in sella e che poi mi portava nelle sue avventure amorose come complice e testimone.
Sotto casa mia c’è un giardino e nel giardino c’è un grande e solenne cedro del Libano. Credo che sia stato piantato insieme alla posa della prima pietra, quindi ha poco meno di cento anni.
Le case che affacciano sul giardino sono del 1937.
Il cedro del Libano ha grandi radici, che formano una piccola collina.
Ieri si buttava giù dalla collina un bambinetto con una biciclettina piccola piccola, più piccola della mia di quando ho imparato ad andare in bicicletta.
Si buttata audacemente dalla collinetta e urlava di gusto.
Faceva due metri e ricominciava.
Triste, l’infanzia, al tempo del Coronavirus? Non lo so, non mi è sembrato.
Tutto sommato, la dimensione del giardino era come quella della biciclettina: proporzionata e giusta.
La madre del bambino stava lì e lo guardava, sorridendo.
Stamattina la bicicletta stava a terra.
Più tardi mi affaccio al balconcino e guardo se il mio giovane amichetto è tornato a pedalare.
Amori a carattere sparso. È un’epoca di paura e di incertezze, quindi, capisco tutto. Insomma, fino a un certo punto.
Capisco i tabaccai aperti. E non mi vengano a dire che è per pagare il bollo della macchina.
Il bollo della macchina è come il paradiso: può attendere.
I tabaccai sono aperti perché vendono le sigarette.
E i fumatori, come fanno, senza.
Capisco pure gli spacciatori, che continuano, con guanti e mascherina, il loro lavoro. A un tossico poco importa, di quello che succede fuori da lui, non abbiamo forse detto che l’eroinomane basta a se stesso, che se ne sta lì in uno stato che a noi sembra di estremo disagio e che a lui, invece, sembra un eden tutto suo.
(Nemmeno troppo di rado mi capita di invidiare l’eroinomane per la sua autonomia e la sua indipendenza. Difficile che, di autonomia e di indipendenza, ce ne siano di così radicali).
Dunque, mi sono un po’ alterata quando ho letto i post di un paio di ragazzette, una delle quali aizzava a denunciare l’estetista e la parrucchiera che fossero state sorprese ad andare a domicilio a offrire i loro servizi; l’altra, che dichiarava che da dieci giorni non vedeva il fidanzato e che, questa, dunque, era la regola.
Bell’impiccio, certo.
Fra un po’ avrò bisogno di tagliarmi i capelli.
Abbiamo lasciato la frangia lunga, per un mese sarebbe stata benissimo.
Un mese, appunto.
E poi, l’estetista, la civilizzazione resa concreta, con segni visibili sul corpo.
Forse le signorine dovrebbero evitare di esprimere pareri.
Questo è il tempo della scienza. Dovrebbe essere.
Seguo un virologo e un fisico.
Il virologo è quello che dà indicazioni di comportamento.
Il fisico le dà anche lui, ma fa anche altro.
È bravissimo, propone tutti calcoli, è chiaro, radicale, legge i numeri e li commenta.
Pubblica uno o due post al giorno, che divoro.
In quello di quindici ore fa scrive «Il problema sono le ditte. Ora che ve lo ha detto anche il decreto che i runner solitari li dovete lasciar perdere e farvi gli affari vostri, possiamo parlare dei problemi veri?».
#sprangatelefabbriche.
Lui aveva richiesto il #lockdown precocemente.
(Oddio, pure io avevo chiesto la chiusura dell’Accademia dove insegno alla metà del mese di gennaio. E certamente senza saper gestire i numeri come lui).
Inoltre lui ha una gran bella scrittura, pulita, chiara, affettuosa, credo che sia un grandissimo docente, miracolo dei concetti più astrusi, che con lui diventano accessibili.
Fatevi gli affari vostri.
Un mio contatto, col quale non so se ho mai avuto contatti sul serio e che si presenta come Anarchist & chef & Novelist; Photographer e anche altro, ha pubblicato un post che mi ha intenerita: «Avevo un amore in corso…Finito dietro una mascherina».
La giovane donna che gestisce l’account Instagram, e non solo, che si chiama Amours solitaires e che dà voce ai messaggi in bottiglia di, appunto, innamorati solitari, qualche giorno fa ha pubblicato un bellissimo «Viens dans ma quarantaine», «Vieni nella mia quarantena».
Sprangate le fabbriche e lasciate in libertà i cuori.
#fatevigliaffarivostri.
L’Uomo-marketing e il suo tempo. Vi ho già raccontato qui le mie Newsletter predilette.
Quella di ieri dell’Uomo-marketing mostrava segni di costernazione.
Esordiva così: «Non lo nego, ogni settimana è più difficile. Non solo perché trovare cose interessanti da commentare è raro…ma anche perché davvero mi sembra complicato trovare un registro che sia leggero, di questi tempi».
Lui, che fa marketing, considera il marketing un argomento futile, fuori luogo in questi giorni.
E sono pure d’accordo.
Però è esattamente da questa considerazione iniziale che poi scaturisce la sua scrittura, una scrittura modernissima, con tutti i pregi e gli inciampi della modernità, che ti avvolge, ti spiega, ti narra, dotata di un’immediatezza che se tu dici adesso mi metto lì e voglio scrivere una cosa immediata, la cosa immediata non ti uscirà mai come esce a lui.
Anzi, siccome stavolta lui è stato meno tecnico del solito, la sua Newsletter più del solito mi è piaciuta.
Lui non scrive solo a me, ovvio, anzi, se devo essere precisa (sono precisa) gli iscritti alla sua Newletter sono 4494.
Quindi, lui scrive a un mare di gente.
E questa è, fra le altre, la sua bravura. Quella di farti sentire l’unico destinatario di una sua corrispondenza personale.
E infatti e dunque da un paio di settimane gli rispondo, cerco di non sbrodolare e di essere sintetica, non voglio fargli perdere tempo pure se io sono una che sbrodola, però gli scrivo di rimando.
E la cosa più bella è che lui mi risponde, quattro parole, ma calde e affettuose, suggellate da un abbraccio.
In questi giorni in cui sono saltati tutti i riferimenti, in cui le relazioni sono, per forza di cose, rarefatte, essere del proprio tempo significa anche questo.
Avere un interlocutore, un amico che conosce il significato delle parole: calore e vicinanza.
Una fine gloriosa. Qualche giorno fa mi si è rotto il televisore. Stavo vedendo un film e lo schermo è diventato tutto bianco, ho pensato ma tu guarda, il dvd è difettato (ma pure difettoso andava bene).
E invece no.
Ho inserito il dvd nel computer e ho capito.
Che il mio televisore era arrivato alla conclusione della sua gloriosa storia.
Io non guardo la televisione, in un anno metto insieme sì e no quattro ore di permanenza davanti al video.
Quest’anno stavo a un’ora e dieci minuti, avendo visto un pezzo della sfilata del 2 giugno.
Ma uso il televisore per vedere i miei film.
Usavo.
Perché il mio vecchio televisore ha tirato le cuoia.
Ha esalato l’ultimo respiro.
Peccato, perché si vedeva benissimo, magnifici colori e grande profondità di campo.
Me lo disse pure il tecnico, quando venne a sistemarmi le righe che faceva per un collegamento inadeguato con il lettore.
Cominciò col prendermi in giro, il tecnico, chiedendomi perché non lo butta.
Ora, in un mondo che vorrebbe che io chiudessi il rubinetto dell’acqua quando mi lavo i denti e che mi guarda in tralice perché stampo quando scrivo (se non stampo, non capisco. E stampo pure solo da una parte perché i fogli troppo pieni mi infastidiscono), il fatto che io ci tenessi, al mio vecchio televisore, suscitava ilarità e commenti arguti.
Ma il tecnico si era ricreduto non appena lo aveva sistemato.
E acceso.
Mi disse «ma lo sa, che colori magnifici, ma guardi lei, che profondità ha di campo».
Gli dissi più o meno che ero una professionista dell’immagine e che, quindi, non è che fossi poco preparata sui modi che abbiamo di vedere.
E comunque avevo stabilito che avrei cambiato il televisore solo quando avessi sentito un botto che veniva dal soggiorno.
Completo di fumo.
Ma è andata diversamente.
Il mio televisore si è spento (verbo che per gli esseri viventi trovo sempre ipocrita ma che per lui va benissimo) senza nemmeno un lamento.
Ho fatto qualche telefonata a qualche tecnico ma nessuno è operativo.
Proprio come la mia domestica.
E alcuni non riparano nemmeno i televisori vecchi.
Comunque, al momento non è possibile e non è cosa.
Poco male.
A me poco me ne importa.
Mi sono attrezzata nel mio piccolo studio un angolo per girare lo schermo del computer, mettere una poltrona, appoggiare il vassoio della cena e il calice di vino del giorno.
E vedere i miei film.
In questa dimensione inedita dei rapporti, degli amori e dei servizi (tutti allo stesso livello, anche se non sto dicendo che l’uno vale l’altro), forse sono capace di inventare modi nuovi e alternativi di passare il tempo e di stare al mondo.
Forse.
Antonella
22 marzo 2020 — 8:27
Sicuro ritrovare in noi quella forza creduta perduta per sempre dei nostri genitori. Mia mamma rammagliava le calze in tempo di guerra con i suoi capelli fini e biondi…i racconti e ricordi ora sono oro😉♥️😘
Rosella Gallo
22 marzo 2020 — 9:01
Infatti. Io me lo ricordo, il negozietto dove c’erano signorine che rammagliavano le calze anche in tempi lontani dalla guerra. Poi sparì. Era arrivato l’usa e getta. In modo incongruo, però, perché quando mi capitò di acquistare un collant di merletto costosissimo, che volevo aggiustare, capii che c’erano possibilità di recupero per tanta roba. Me lo cucii da sola, mi disse come una signora che faceva rammendi. E fu pure una soddisfazione. Grazie, Antonella, di tutto. Con i migliori pensieri