In giro è pieno di uomini effemminati.
Che poi finisce che sono più virili di quelli che sembrano maschi sul serio.
Oddio, come diceva il mio studente, poi bisogna vedere da vicino.
Un mio dermatologo, di cui ero paziente tre dermatologi fa, aveva in proposito una sua teoria, che adesso vi espongo.
Lui sosteneva che la colpa o, se volete sfumare, la responsabilità, era degli omogenizzati, che sono pieni di ormoni. A un certo punto i bambini hanno cominciato a mangiarne ed è stato così che i maschi sono diventati morbidi e le femmine aggressive.
Ammetto che la teoria ha il suo fascino, anche se una volta che la esposi in aula davanti ai miei studenti, in tanti ci rimasero malissimo.
Ai ragazzi non era piaciuta la possibilità che le loro vite fossero state indirizzate dai vasetti.
Come se i sentimenti non dipendessero dagli ormoni, maschi e femmine.
Comunque io ormai mi sono fatta l’idea che proprio per colpa o, se volete, responsabilità di quegli alimenti, stia succedendo qualcos’altro nei nostri ventenni. Che non si innamorano e che spesso non si sono mai innamorati in vita loro.
Come è risultato evidente giorni fa in aula quando io ho posto la domanda di rito di inizio corso: «Chi di voi è innamorato?».
Noi stiamo a scuola, quindi funzioniamo per alzata di mano.
Uno alza la mano se deve intervenire per dire qualcosa o se dobbiamo contarci.
Ebbene, mercoledì scorso, alle ore 16:00, nell’aula 207 dell’Accademia di Belle Arti di Roma, ad alzarsi è stata una sola mano.
La mia.
Ho detto non mi avete sentito.
Ho detto non avete capito la domanda.
Mi avevano sentito.
Avevano capito la domanda.
Non erano innamorati.
Almeno la metà di loro non era mai stata innamorata in vita sua.
Io ogni tanto chiedo «sei innamorato» a persone con le quali sono in confidenza. Con un paio di amici, colleghi, uomini, artisti, quindi persone con le quali ogni infinito mondo è possibile, mi sono resa conto che mettevo il dito in una piaga dolente.
Ormai ho capito che se tu vai a domandare a un uomo sposato se è innamorato della moglie, rischi di mandare all’aria il matrimonio, perché quello si mette a pensarci.
Un altro collega e amico, pure lui artista, cui avevo posto la medesima domanda via WhatsApp a un punto che non c’entrava niente nello scambio che stavamo facendo, mi ha invece risposto a vanvera, scrivendo «sì, certo», poi aggiungendo «della vita, del buon vino, delle donne», allora io sono diventata impertinente «pure delle tue ex mogli».
No, di quelle no, per carità.
Ma tu stai menando il can per l’aia, certo che sì, però pure tu, io, gli vado a fare certe domande, come certe domande, perché c’è qualcosa di più importante, come no, fa lui: l’arte.
Sì, d’accordo, cambiamo discorso.
Io mi sono innamorata per la prima volta a cinque anni, lui si chiamava Carletto, eravamo entrambi in vacanza dai nonni in Piemonte, io lo raggiungevo tutti i giorni con la mia bicicletta rossa, il Cirillino, sono sempre stata una intrepida, e giocavamo. L’addio fu straziante.
Io tornai a Roma, lui a Milano.
La nostra vicenda estiva si infranse contro il muro dell’analfabetismo: nessuno di noi due sapeva ancora scrivere e non fummo in grado nemmeno di scambiarci gli indirizzi per mandarci una cartolina.
Andai all’asilo e mi innamorai di Riccardino, che era graziosissimo e aveva pure una nota rosticceria vicino alla scuola. Ammetto che il fascino di supplì e pizzette aumentava quello suo.
Prendevo lo sgabello perché non arrivavo al telefono e lo chiamavo.
Ci incontravamo tutti i giorni.
Finito l’asilo non l’ho più rivisto ma ho avuto sue notizie.
Un tipo, con cui avevo un affair e al quale avevo sventatamente raccontato questa mia sbandata giovanile, andava tutti i giorni a pranzo da lui perchè lavorava da quelle parti.
E quando rientrava a casa la sera mi diceva sai ho visto il tuo Riccardino con il suo telefonino che faceva avanti e indietro fra la cassa e il banco.
Quello dei supplì e delle pizzette.
E giù con tutti i diminutivi possibili, la pizzettina, il pacchettino, il conticino. Insomma, era successo che il mio innamorato di un tempo non era cresciuto molto di statura, io me lo immaginavo tale e quale a come era all’asilo, pure con il grembiulino, il fiocco e i calzoncini corti, ma con il telefonino e la rosticceria che ormai gestiva di persona.
E la cosa mi faceva ridere in un modo incontenibile e davanti a quell’ironia, che era dettata tutta quanta dalla gelosia retrospettiva, che fra tutte le forme di gelosia sarà pure quella più letteraria ma che è anche quella più vana perché è rivolta verso un fantasma, mi veniva da pensare che meno male che le classi delle elementari non erano miste e che ci eravamo persi.
Sarò pure piena di pregiudizi, in questo caso culturali, ma chissà quali sarebbero stati i discorsi, se la faccenda fosse continuata, fra me e il rosticciere.
Uno dei miei professori di Tedesco, ex diplomatico, artista, uomo colto e raffinato, all’epoca sessantenne, sosteneva che dopo i trent’anni non ci si innamora più.
Questa sua dichiarazione mi dava da pensare, io avevo più o meno quell’età lì, lo frequentavo, come frequentavo parecchi dei miei compagni di corso (mi chiedo di continuo come ho fatto in vita mia a frequentare tutta quella gente. E perché la frequentavo) e ne parlavamo spesso.
Comunque, balle, io dopo i trent’anni mi sono innamorata ancora e ancora, dunque lui era nel torto.
Oppure, volendo concedergli il beneficio di inventario, parlava della sua esperienza.
Laddove esperienze altrui la dicono lunga e diversa.
Una volta vado a un battesimo perché ci devo andare.
Alla festicciola che segue trovo l’uomo che fa per me in quella circostanza: ha ottant’anni, è architetto, è rimasto vedovo da un po’ e i figli mi hanno detto che è uscito di testa.
Si è innamorato.
Ha ritrovato una compagna di scuola e si sono resi conto che si amavano disperatamente.
Io avevo indossato un paio di lunghi orecchini di cristallo blu, erano di alta bigiotteria e ne andavo fiera.
Mi siedo vicino a lui, gli chiedo «Architetto, come va».
Lui mi guarda, sapeva chi ero e che facevo là, e mi dice che i miei orecchini mi stavano benissimo.
Nel frattempo, una signora molto civetta e scollata che si aggirava intorno al buffet comincia a lanciarci occhiate indagatrici.
Era lei.
Io dico a lui che lei è bellissima, elegante e pure sexy.
Lui gongola.
Lui mi chiede perché secondo me i suoi figli, che io conoscevo benissimo, stavano facendo tutte quelle storie.
Perché sono invidiosi, Architetto, perché loro non stanno vivendo un sentimento come il suo.
E, in seconda battuta, perché temono che lei dilapidi tutto il suo patrimonio, cosa che, invece, lei farebbe benissimo a fare.
Lei si mette lì e copre la signora di attenzioni, se la porta in viaggio, compra per voi due una casa nuova e l’arreda daccapo solo con cose nuove, liberandosi della vecchia abitazione, quella dove ha vissuto una vita con la sua prima moglie e con quei tre insulsi che ha messo al mondo.
«Sa, – mi fa lui – Dottoressa, l’unica cosa che mi fa paura in questa storia, è che io e la mia amica per via dell’età non possiamo fare progetti».
«Ma che dice, Architetto, siamo tutti appesi a un filo, l’età è una convenzione sociale. E siete una magnifica coppia».
Bellissimo, essere innamorati a ottant’anni, devo raccontarlo ai miei studenti, devo dar loro una speranza, perché se hai vent’anni e non ti sei ancora mai innamorato, come fai ad ascoltare le canzoni, a capire i romanzi, i film, i racconti, essere innamorati è bellissimo, non sto dicendo avere una relazione, sono cose diverse, puoi pure essere innamorato a vuoto e malamente, però almeno ti senti vivo, almeno puoi coltivare le tue illusioni, almeno puoi pensare una possibilità in termini di desiderio.
Questo dirò appena li ritrovo ai miei ragazzi.
E, soprattutto, indagherò la loro alimentazione da piccoli e suggerirò loro di cambiare dieta, allentare le briglie, mollare gli ormeggi.
Lasciarsi andare.
Casomai, Amore, finalmente, accorre e li prende fra le braccia.