La forma a gratis, attestata dalla fine dell’Ottocento e oggi comune nei livelli bassi di lingua, è sbagliata. Nella diffusione dell’errore avrà contato il parallelismo con l’espressione opposta a pagamento, ma anche la somiglianza con espressioni simili che contengono la preposizione a (a sbafo, a scrocco, a ufo)
(La grammatica italiana, Treccani)
L’occasione, ghiotta, andò completamente buttata al secchio.
Il giornaletto con tutte le informazioni di quello che accadeva a Roma usciva ogni settimana ed era irrimediabilmente brutto.
Per dire, era più curata la grafica dello Svegliarino di Santa Maria del Tempio, località in Piemonte dove era nata mia madre, al quale lei era abbonata e che riceveva mensilmente, abbandonandosi, seduta sulla sedia della cucina e con nostalgia, alle notizie di casa, che si risolvevano in che cosa aveva fatto padre Felice, il parroco, un francescano che per davvero aveva i piedi nudi nei sandali e una lunga barba, quanti erano i nati e quanti i morti.
Ma lo Svegliarino, così fatto in casa com’era, era un prodotto onesto e affettuoso.
Il giornaletto con le notizie di Roma, no.
Nessuno si era preso la briga di chiedere a un grafico, giovane o esperto, di fare un progetto serio, la carta era misera, le rubriche avevano pure una loro logica, però si sarebbe potuto fare molto di più e meglio.
Compravo regolarmente la pubblicazione e contribuivo alle sue pagine con le notizie della mia attività professionale, mettendomi in contatto con una gentile signorina della redazione, squisita e disponibile, che non ho mai visto in vita mia e alla quale portavo un omaggio augurale a Natale, lasciandolo in portineria.
Fra le rubriche del giornaletto, ce ne era una intitolata Roma gratis o qualcosa di simile.
Ma prima devo raccontarvi un altro fatto.
Il fatto è diviso in due punti.
Punto 1. A un certo punto sul giornaletto uscì una rubrica malandrina, che si chiamava Roma erotica o qualcosa di simile. Ora, il solo fatto che la mia città, così pigra, cattolica, male organizzata e altro potesse in qualche modo ricordarsi dei costumi del suo Basso Impero, mi dava allegria anche quando ero di umore storto. Andiamo, su, mica stavamo a Parigi, dove tutto e facilmente ha odore d’amore e nemmeno in una di quelle città del nord, da Amsterdam alle capitali tedesche, dove peraltro i quartieri del cosiddetto vizio ti fanno passare la voglia di praticarlo per quanto sono prosaici i luoghi che al vizio strizzano l’occhio.
Stavamo a Roma.
La cosa che più mi stupiva era che nel mio quartiere, molto popoloso e ormai immemore della sua storia antichissima (sto sull’Appia Nuova, a due passi dall’Appia quell’altra, quella vera), dicevo, mi stupiva che nel mio quartiere, praticamente dietro casa mia, ci fosse un club privé di scambisti.
Io non ho l’abitudine a questi posti, ma vedo film e leggo libri, dunque, fosse pure per vie traverse, ci arrivo.
Inoltre, proprio nel periodo di cui vi parlo, venni a sapere che nel mio palazzo c’erano state due case di appuntamento, una nel pied-à-terre che dà sul giardino, l’altra ai piani alti.
Il verbo al passato indica che ora non ci sono più.
Comunque, io non me ne ero mai accorta.
Sì, ogni tanto quando uscivo vedevo in giardino dei donnoni neri di pelle alle prese con il bucato con la porta di casa aperta, avevano sederi enormi e facevano esotico, ma poi basta, ho l’abitudine di occuparmi dei fatti miei e poi non avevo mai notato strani movimenti.
Quanto all’andirivieni per le scale, semplicemente, non c’era, quindi i clienti dovevano essere molto discreti.
Oppure la casa di appuntamenti tirare su affari magri.
Decidete voi.
La cosa finì lì.
Dunque, il club di scambisti qui dietro mi faceva parrocchia e supermercato, mancanza di parcheggio, negozietto di erboristeria, botteguccia di idraulico sempre chiusa con cartello scritto a mano con il numero di cellulare, CAF con nessuno dentro, pizzeria a taglio, parrucchiere con poca clientela.
(Non il parrucchiere mio, questo ci tengo a dirvelo: lui, da che lo conosco, ha sempre la fila fuori).
Se io penso a un club privé, penso a Bella di giorno, con una bellissima Catherine Deneuve che Yves Saint Laurent veste e spoglia, mica alle vetrine dell’Upim che sta sull’Appia, e sto parlando di quella Nuova, ovviamente.
Insomma, non ci stavamo.
E con questo, per il punto 1, ci siamo.
Andiamo avanti.
Punto 2. Nella strada parallela alla mia, c’era un negozio, ora sostituito da un altro, che si dava qualche aria, una salumeria con due ingressi e qualche vetrina, nella quale c’erano sempre marito e moglie: Vito e Costanza.
Lui, come sempre accade in quel mestiere (e ogni tanto anche in altri), aveva assorbito le caratteristiche fisiche della mortadella che stava sull’affettatrice: era piccoletto, grasso, le mani corte.
Aveva un grande naso.
Era sempre gentile, almeno finché non si voltava di spalle, allora si capiva che il sorriso gli pesava e si intuiva dalla posizione delle spalle che sul suo viso era apparso un ghigno.
Lei stava incastrata nella cassa. Piccoletta, grassa, rossa con i ricci, le mancava un dente, per la precisione un premolare a sinistra.
È stata la prima persona a chiamarmi «cara» senza che ci conoscessimo, cosa che adesso fanno in tanti, essendo invalso l’uso di sostituire questo termine a quello più adatto di «signora».
Misteri della comunicazione moderna.
Comunque, Costanza era gentile fino al punto di diventare melliflua, insomma, si sarà capito che io andavo da loro a comprare un etto di crudo e due di emmenthal svizzero solo quando avevo proprio fretta e non volevo spingermi oltre l’angolo.
Arrivo al dunque. Ogni volta che vedevo sul giornaletto la rubrica Roma erotica, o quel che era, con l’indirizzo del club privé dietro casa mia, pensavo che se ci fossi andata, mettiamo, con un bell’uomo un po’ blasé in vena di trasgressione, indovinate chi, al massimo, ci avrei incontrato.
Bravi.
Vito e Costanza.
Presumibilmente nel medesimo stato d’animo di curiosità e noia.
Inutile aggiungere qui che la sola idea di questa prospettiva era capace di gettarmi in uno stato di ilarità tale da far passare sia ogni tipo di velleità diversiva che le eventuali paturnie.
Perché così, secondo me, finiscono a Roma questi progetti: nel ridicolo.
Infatti il club privé chiuse presto e pure il giornaletto sospese le pubblicazioni.
E non se ne seppe più niente, né dell’uno né dell’altro.
Ma torniamo alla Roma gratis o quel che era.
Scorrevo la rubrica per evitare i posti citati.
Mi tenevo lontana da tutto.
L’ultimo festeggiamento natalizio pubblico al quale mi sono recata su invito si teneva in una galleria d’arte di via Margutta.
Praticamente, un pandoro diviso in cinquanta persone e una goccia di prosecco del supermercato, caldo e nel bicchiere di plastica.
Non mi interessano le proiezioni senza biglietto, le proposte filantropiche, non mi interessano i musei gratis la prima domenica del mese.
Quelli, poi.
Almeno l’iniziativa servisse a qualcosa.
Un paio di anni fa, per pura dabbenaggine, dovuta probabilmente al fatto che non riesco a scendere a patti con questo fatto, organizzai una visita guidata al sipario di Parade dipinto da Picasso allestito in modo mozzafiato nel Salone di Pietro da Cortona di Palazzo Barberini.
Quando.
In un giorno che mi faceva comodo perché nel mio immaginario avrebbe segnato l’inizio della stagione, quindi pieno di significato e di vibrazioni, che però, mannaggia il calendario, cadeva proprio la prima domenica di dicembre.
Non sono capace a descrivervi lo stato d’animo di orrore nel quale precipitai non appena ebbi varcato il cancello, con mezz’ora di anticipo sull’appuntamento, come sempre faccio in situazioni professionali.
In trenta minuti, se qualcosa non va, riesco a risolverlo.
Non quella volta.
Le file arrivavano fin sulla strada, una folla come quando esce il nuovo modello i-Phone, uno dice, ma come, non sei contenta, tutta questa gente affamata di arte.
E qui sta il punto.
Quella gente non era affamata di arte, semplicemente, era affamata di gratis che, ammettetelo, è una cosa completamente diversa.
Come la notte bianca, ancora una volta, dei musei, alla quale ho partecipato una sola volta, a parte che la notte bianca, solo a sentirla nominare, mi sfinisce, pure lì escono fuori personaggi che non hanno mai messo piede in un posto simile.
E che il piede nel museo non ce lo rimetteranno mai.
Perché qui sta il punto.
L’arte non è un evento, ovvero, l’arte è l‘evento, non ha continuamente bisogno di effetti speciali, l’arte gratis, concetto in sé sacrosanto, va progettata, organizzata, proposta.
Se avessi voce da vendere (non ce l’ho e mi dispiace tantissimo), andrei a offrirmi gratis per organizzare l’attività di divulgazione in un museo.
Appena laureata, ho cominciato così la carriera, mettendomi all’opera in una piccola galleria con quattro sale espositive, tirando su una sezione didattica che, per quanto fossimo tutti giovanissimi e inesperti, fece cose egregie.
La carriera, così, potrei finirla.
Lavorammo tutti gratis, facendo un sacco di esperienza, con una gavetta alla quale penso con simpatia e che ancora mi serve, avevamo una quantità di pubblico che mi spaventava per quanto era tutto da decidere e improvvisare, però quel gratis lì, per quanto non voluto, speravamo in una retribuzione che mai sarebbe arrivata, ebbe effetti benefici.
Se voglio, lavoro gratis pure adesso. Durante il confinamento ho fatto due mesi di lezioni on line aperte a tutti.
È stata un’esperienza fantastica, ho imparato a gestire il mezzo, ho ritrovato persone che pensavo perse per sempre, ho dato un senso al mio tempo e a quello degli altri, ho capito quali fossero davvero i motivi profondi del gratis.
Siamo in emergenza e tutti sulla stessa barca, io faccio quello che posso.
E do quello che ho.
Una delle immagini che più mi hanno commosso in vita mia è stata quella di Rostropovich che suonava il suo violoncello, il mio strumento prediletto, quello, dicono, più vicino alla voce umana, sotto al muro, caduto, anzi, come dicono loro, aperto, di Berlino.
Mi ricordo che lo dissi a lezione, dissi che mi ero chiesta che cosa avrei potuto fare io.
Una lezione, una visita guidata, le cose che faccio sempre.
Per esserci e per partecipare.
E, concludendo, a parte il gratis dei grandi eventi storici, muri aperti o pandemia, e quello, misero, ovvero che non varrebbe nemmeno la pena citare, del giornaletto, che fu, volontariamente, un’occasione persa e buttata al secchio perché la Città Eterna, per quanto poco incline alla trasgressione erotica, almeno di questi tempi, merita ben altro, a parte, dicevo, tutto questo, vi propongo un primo elenco di cose che si possono fare gratis, messo a punto con i miei studenti tempo fa durante una lezione che fu bella e che ciascuno di voi può ampliare.
Allora.
Cose che non costano niente: parlare; ascoltare; camminare; fare l’amore; scrivere; disegnare; leggere.
E non venitemi a dire che per scrivere, disegnare e leggere si devono spendere dei soldi.
Si può scrivere su un pezzo di carta rimediato con un mozzicone di matita. E, secondo me, è per questo che, a un certo punto, le donne hanno cominciato a fare letteratura, inchiavardate al tavolo della cucina, hanno trovato negli scarti gli strumenti per esprimersi.
E per il disegno si può fare il medesimo discorso.
Quanto al leggere, d’accordo, i libri costano.
Ma ci sono le biblioteche e, se vi servono, io ho un sacco di libri che posso mettere a vostra disposizione.
Romanzi e libri d’arte, che sono le letture che io frequento.
Voi chiedete e io vi do.
(E stavolta nemmeno parlo di quanta roba gratuita c’è in rete. Perché internet è davvero, quasi e praticamente, un dono totale e a tutto campo: musei, biblioteche, newsletter, siti, blog. Quanto a questi ultimi, quello che state leggendo un blog è. Ed è tutto vostro. E di frequentare il mio blog io vi ringrazio).
Andrea
26 ottobre 2020 — 21:21
Rosella, grazie a Te. Come sempre.
Andrea
Rosella Gallo
26 ottobre 2020 — 21:47
Andrea, grazie a te. Di leggermi e di essermi vicino. Grazie, sempre