Eppure sono una persona attenta.
Non ho capito come sia potuto accadere.
L’ho perso.
Anzi, oggi posso finalmente dire che l’ho smarrito, a dare ascolto a una collega degli inizi della mia carriera in Accademia, toscana e attenta alle sfumature, è tutta un’altra cosa.
Ci tenevo per tutta una piccola serie di motivi: me lo aveva dato la mia cassiera prediletta e lo trovavo così comodo.
Inoltre ne avevo già un altro e l’idea della coppia mi piaceva.
Adesso vi racconto come è andata.
È andata che un giorno stavo senza spicci, quelli che al nord Italia chiamano moneta e in inglese sono indicati come change.
Ho ben presenti le persone che frequento che hanno sempre spiccioli sotto mano, sono persone che stimo, previdenti e accurate, le persone previdenti e accurate mi piacciono molto, ti semplificano la vita, quello che mi arriva con una banconota da cinquanta euro per pagare il biglietto del museo la vita me la complica, c’era il racconto di quello che per tutto il giorno non pagava niente perché nessuno aveva da dargli il resto.
Però quel giorno stavo io con nel portafogli solo una banconota di grosso taglio.
Allora entro al supermercato dall’uscita e vado da Stefania e le dico per favore mi faccia un prestito, non ho spicci per il carrello.
Poi però succede che pago con la carta di credito, quindi continuo a non avere spicci, quindi per restituire la moneta devo riportare il carrello con la spesa e rientrare dall’uscita.
O inventarmi qualche altra cosa.
E Stefania si alza dalla cassa, così vedo pure come è vestita sotto il camice, vedere la gente che cosa indossa sotto l’uniforme è sempre un gran passatempo e ne racconta tante.
Con fare un po’ segreto lei va al bancone della direzione, apre un cassetto e ne trae tutta contenta un gettone azzurro con il buco al centro.
Proprio come certe caramelle.
A me le caramelle non interessano ma quelle con il buco le trovo geniali, capisco che la gente le trovi divertenti, te le metti in bocca e ci giochi fino a che non si sono consumate tutte.
Io mi aspettavo una moneta da cinquanta centesimi e mi arriva un gettone. Che, chiaramente, era un dono.
E che nessuno aveva, dunque, che era ai miei occhi una specie di piccolo privilegio e di segno di attenzione.
Uscii dall’uscita e andai a provare il gettone con il buco nel carrello.
(Ho trovato un sito che ti dà consigli su come vivere low cost che ti insegna come prelevare carrelli senza metterci i soldi. A parte che l’ho trovato solo oggi, però tutto il post mi sembra un’idiozia, questi non considerano che quando hai finito di fare la spesa, i soldi te li riprendi).
Adesso vi faccio vedere il mio gettone azzurro con il buco per il carrello.
Come si dice in questi casi, è quello a sinistra.
Quello a destra, che ha anche lui una fessura ma che è diverso, me lo dettero in un altro supermercato, più o meno con lo stesso procedimento ma con una cassiera meno simpatica.
Ho usato il mio gettone azzurro con il buco per parecchio tempo, prova ne è che il supermercato è stato ristrutturato l’estate scorsa e che hanno scambiato l’entrata e l’uscita e io mi ricordo benissimo che ero entrata dall’uscita laddove stava l’uscita, quella volta.
Sono sempre stata attenta a riprendermelo, proprio perché ci tenevo, controllavo di aver reinserito il carrello, di averlo in mano e lo sistemavo in un posto sicuro, tasca o portafogli.
Ogni tanto nella vita incontri i gettoni.
Da ragazzina c’erano quelli dell’autoscontro, devo dire che a dodici, tredici anni tutti i sabati stavo in pista, andavamo con un’amichetta di nascosto alle giostre a Trionfale, riuscivano a rosicchiare un paio di ore di divertimento, sfuggire al controllo materno era un esercizio quotidiano, inoltre io portavo la macchinetta dell’autoscontro come un demonio e non mi ci volle molto a capire che dopo i primi due, tre giri, gli altri erano tutti offerti, tu metti due ragazze in pista che guidano come demoni e dopo poco la pista si riempie di giovani maschi che vanno loro addosso.
L’abilità stava nello schivare gli scontri frontali e prendere il colpo lateralmente.
Bella metafora dell’esistenza.
Eravamo giovanissime ma ci soccorreva l’istinto e la sola idea di stare mezzo pomeriggio in pista a sbafo era elettrizzante.
Per non parlare delle volte che il proprietario dell’autoscontro ci riservava la macchinetta più veloce (in pista c’è sempre una macchinetta più veloce, e anche questa è una metafora), con dentro già inserito il gettone con il manico, quello che sembrava un cucchiaio, che la macchinetta non si mangiava e che aveva una durata potenzialmente eterna.
(Sono sicura di essermi procurata sulla pista dell’autoscontro il mal di schiena che mi ha tormentata dai diciannove ai trent’anni, ma non l’ho detto mai a nessuno, quindi siete i primi a saperlo).
Sono stata una sola volta al casino, per la precisione a Amsterdam. Cambiammo non ricordo quanti soldi in gettoni e ne vincemmo una montagna.
La fortuna dei principianti.
Che perdono tutto dopo mezz’ora perché ci riprovano e non sanno che così va il mondo.
Da allora il demone del gioco me lo vivo al cinema, c’è per esempio un bellissimo film di Jacques Demy, con una Jeanne Moreau stranamente bionda, che si intitola La Baie des Anges e che è quindi ambientato a Nizza perché così si chiama quella baia straordinaria, Baia degli Angeli, sulla quale la città si affaccia, nel quale, e torno a parlare del film, se vuoi sfinirti di gioco, lo puoi fare in eleganza e mentalmente ad alto livello.
Aggiungo anche che Matisse, a un certo punto della sua vicenda, ha incontrato Nizza e che la città mi è profondamente cara anche per questo.
Il gettone di presenza è già in sé interessante. Poi, però, bisogna vedere a quanto ammonta.
I gettoni del telefono sono stati indispensabili per stare al mondo fino a che non abbiamo avuto ciascuno il proprio apparecchio, diventato adesso un computer più che portatile.
Ho sempre trovato i gettoni avventurosissimi e avevo sempre con me un piccolo borsellino solo per loro. Un’amica una volta mi disse ti copio e lo fece davvero.
Mia madre chiamava il telefono a gettoni a prepagamento e quando rientravo diceva ha chiamato quello e poi anche quell’altro e quello e quell’altro chiamavano da un telefono a prepagamento.
Mia madre aveva una missione prioritaria in vita sua: quella di farsi i fatti miei.
Inutile dire che ero abilissima a sottrarmi alle sue indagini.
In quei casi il grande dispiacere era di essermi persa una telefonata da un telefono a gettoni, che chissà perché mi sembrava più gustosa di una telefonata casalinga.
Poi, però, mica sempre, insomma dipendeva da chi chiamava.
Tutto quello che funziona a gettoni reca con sé l’idea della limitatezza dell’uso: doccia, lavatrice collettiva, di videogiochi non so assolutamente niente e li considero, anzi, attributi maschili, come il calcio e il parcheggio, per non parlare di attributi altri.
Ma il mio gettone azzurro con il buco, quello per il carrello, aveva una durata illimitata, forse mi piaceva così tanto anche per questo, mi sembrava una fonte dalla quale poter attingere senza misura e senza ritegno.
Ma un giorno l’ho perso.
Ho guardato nel portafogli, reparto monete, e non c’era.
Ho guardato nelle tasche interne della borsa, niente.
Ora, io so benissimo che cosa pensate delle borse delle donne: quello che penso anch’io.
Ma la mia borsa non è come le altre. Io la vuoto tutte le sere, la spazzolo, interno ed esterno, se c’è un punto di cucito da dare alla fodera, lo faccio, la porto anche dal signor Michele in lavanderia a lavare, ci pensa lui, non dico che me la ridà nuova, perché ormai mostra la corda, ma almeno me la ridà più presentabile.
Porto sempre quella e non credo che per il momento me ne potrò permettere un’altra uguale.
Insomma, la mia borsa è sempre sotto controllo: io ci tengo.
Certo, non la porto quando vado dal parrucchiere o in bicicletta, territori troppo pericolosi per una borsa, schizzi di sporco, cadute di roba chimica, la sola idea mi fa stare male.
Nelle circostanze suddette indosso uno zainetto da battaglia, che tratto in modo analogo, anche se più spartano.
Sto dicendo che lo pulisco spesso dentro e fuori.
Quindi non vi sto a dire il mio stupore ieri sera quando l’ho preparato perché mi sarebbe servito stamattina.
Mi è capitato di lasciarci dentro volontariamente una matita, certamente. Non riesco a leggere niente senza matita in mano, nemmeno una rivista, tantomeno un romanzo, se non sottolineo o scrivo a lato quello che mi fa pensare quello che leggo, non c’è per niente gusto.
Dunque ieri sera vado in guardaroba e prendo il mio zainetto, lo preparo e, nel prepararlo, ci infilo bene una mano dentro per rigonfiarlo, stava tutto schiacciato appeso a una stampella.
Ci infilo una mano dentro e sento qualcosa.
Qualcosa di leggero con un buco al centro.
Mi dico ma dai, non è possibile.
Invece, sì.
Il mio gettone del carrello.
Non so come sia potuto succedere, lo avevo perso, anzi, visto come sono andate le cose, smarrito da mesi e mesi, avevo utilizzato lo zainetto un mucchio di volte e tutte le volte lo avevo riempito e vuotato con attenzione.
Non è che abbia poi troppa importanza e non è che siamo di fronte a uno zainetto che è come il cappello a cilindro del mago, nel quale non c’era niente e dal quale poi esce un coniglio che il mago prende per gli orecchi.
Mi sono fatta una storia, una cosa un po’ alla Andersen nella sua favola La monetina d’argento, con il gettone con il buco che un giorno è scivolato fuori dal portamonete ed è andato a farsi un giro da un’altra parte, ha vissuto avventure e incontrato gente.
…non si vede il mondo quando si sta sempre in un sacchettino, e questo era il suo caso. Ma un giorno che si trovava lì come al solito si accorse che il borsellino non era chiuso e così sgusciò fuori dall’apertura per guardarsi un po’ intorno; non avrebbe dovuto farlo, ma era così curiosa…
(Fra l’altro, anche la monetina d’argento aveva un buco, pure lei al centro).
Insomma, anche se è probabile che il gettone azzurro con il buco si sia infilato in una piega dello zainetto e che sia rimasto lì tutto questo tempo, sottraendosi alle mie cure come io mi sottraevo alle investigazioni di mia madre, preferisco pensare a un destino di viaggi e spostamenti, con infinite opportunità.
E con un ritorno.
E non vi sto a raccontare con che soddisfazione sono andata oggi al supermercato e con che gusto ho preso il mio carrello, sganciandolo dai confratelli, che stavano lì ad aspettare volgari monete inserite da normali clienti.