L’ennui n’est plus mon amour
La noia non è più il mio amore
(Arthur Rimbaud, Una stagione all’inferno)
L’altro giorno uno mi ha dato della fenomena.
Io gli avevo dato del cretino.
Insomma, non così chiaramente. Gli avevo detto che una persona cretina fa domande cretine e che lui faceva domande cretine.
Il passaggio successivo avrebbe fatto della mia dichiarazione un sillogismo.
Però la faccenda della fenomena mi aveva stuzzicata e allora sono saltata su e ho detto che no, io ero Tonnerre de Brest e che Phénomène stava nei guai.
Dai quali, comunque, sarebbe uscita e siccome lei alla Stagione 5 avrebbe cominciato a chiamarsi Rocambole, Phénomène ci sarei diventata io.
Quello ha pensato che mi avevano dimessa dall’ospedale psichiatrico perché incurabile e io ho raggiunto il mio scopo: quello di togliermi dai piedi uno che mi faceva domande.
E, a proposito di piedi, il pensiero di quello di Raymond Sisteron continua a perseguitarmi.
Stavo preparando una lezione in cui c’era il San Sebastiano di Andrea Mantegna e io sapevo benissimo che c’era il piede del santo legato alla colonna vicino a un altro piede, che è un frammento di statua antica.
E mi sembrava che il piede di Raymond dovesse essere accanto agli altri due.
Lui è tornato al bureau, camminando, ovvero su entrambi i piedi.
E i colleghi lo hanno festeggiato, scena molto bella che mi ha fatto pensare per contrasto a tutti i veleni che scorrono nell’ultima Accademia in cui ho insegnato.
Così, tanto per dire, quelli sono tutti infiltrati, doppiogiochisti, gente che si occupa di sicurezza in maniera paranoica, eppure è capace di festeggiare un collega.
Ma torniamo al piede.
Céline sa che cosa è successo.
Raymond le mostra il piede artificiale.
Lei dice: «È impressionante».
Lui la invita a non sentirsi a disagio.
Il disagio evidentemente le passa perché poco dopo li troviamo a letto ed è una scena molto bella, simile a quella che abbiamo già visto con Marina e Simon, con la schiena di lei dove corre il nostro sguardo.
La scena è, solo, speculare.
Il regista ha il senso della trama, dell’intrigo, dell’azione.
E anche quello dell’Eros, che non guasta.
Ma qui accade che si mettano in moto altri pensieri.
Abbiamo detto che Céline sa tutto ma alla prossima donna, c’è sempre una prossima donna, Raymond che cosa farà, le racconterà la storia del piede e della sciabola?
E la cosa diventa personale e allora: io che mi sono procurata quarantatré giorni fa delle ustioni, di cui una di secondo grado, a causa di quello che il mio medico ha definito un infortunio e che da quarantatré giorni mi sto medicando, che cosa devo fare, avvertire, far finta di niente perché ormai sto guarendo e casomai uno manco se ne accorge, mica tutti hanno il mio sguardo ossessivo sui dettagli, causa e conseguenza della mia professione.
Insomma, che cosa sto imparando da quello che vivono gli altri.
Per ora imparo il fiato sospeso.
E poi il senso del corpo, che uno vuole integro e che ogni tanto qualcuno o qualcosa danneggia, più o meno gravemente.
A cominciare dal piede.
Inizio dell’Intermezzo. Mi chiedo se vedere un Episodio ben fatta di spumante spagnolo sia l’equivalente di quello che mi raccontavano amici che mi sembravano vecchi quando io ero giovanissima e manco capivo del tutto quello che dicevano. E loro dicevano di andare al cinema ben fatti di sostanze moralmente e legalmente illecite e di mettersi in prima fila, proprio sotto lo schermo, in quelle poltrone in cui a tutti è capitato talvolta di sedersi, maledicendo il cinema troppo pieno e il ritardo, a vedere 2001 Odissea nello spazio.
Sarà che a me lo psichedelico non interessa, come poco mi interessano gli anni ’70.
Però, non so perché, questo ricordo stavolta mi è uscito fuori: prepotente, narrativo.
Esemplare.
Fine dell’Intermezzo.
Ho finalmente capito chi è MAG.
Ci ho impiegato venti Episodi, quindi due Stagioni.
Che ci volete fare, per quanto mi applichi, sono un po’ stordita.
A mia discolpa, per quanto parziale, c’è però il fatto che di rado qualcuno lo chiama in questo modo.
E ti credo.
MAG è l’acronimo di Moule à gaufre, il suo vecchio nome clandestino.
Ora, chiamare Stampo per wafer il direttore dell’Intelligence, uomo dell’ombra, uno che non si sa mai che cosa pensa e che, nonostante questo o forse proprio per questo, sente tutto quello che provano gli altri; super elegante; costume trois pièces sur-mesure e gemelli ai polsi; una specie di porta blindata; uno con sul volto una maschera neutra da tragedia greca, insomma, chiamarlo in quel modo mi fa strano.
E gioco.
E assurdo.
E paradosso.
Insomma, a sommare tutto, i nomi clandestini sono invece più veri di quelli veri.
Sempre ammesso che quelli veri siano tali, visto che ogni volta che uno di questi ti dice come si chiama, tu cominci a pensare che quel nome non sia quello suo e, a quel punto, Moule à gaufre, Malotru, Phénomène e pure Tonnerre de Brest sono nomi, loro sì, più veri di quelli veri.
Gli attori che io, come detto, fatico a considerare tali, perché loro sono coloro che interpretano, si capisce perché fanno questo mestiere.
Vesti i panni di un altro, ti danno del denaro, se sei bravo diventi pure famoso, la gente che non ti conosce ti ama, ti ferma in aeroporto e ti chiede perché ti sei comportato in quel modo in quella scena.
E non parliamo del regista.
Lo showrunner.
Il creatore.
Rendiamoci conto, tutti lo sappiamo, quanto è vertiginoso e inebriante creare. Lo capisce quello che mette insieme una cena con qualcosa di buono e una tavola ben apparecchiata. Lo capisce quello che fa un lavoro creativo, fosse il grafico o il fornaio.
Lo sa, perfettamente e intimamente, l’artista.
Che cosa ha risposto in un tweet Eric Rochant, il creatore della serie, al suo pubblico che lo felicitava per la Stagione 3: «Grazie a tutti coloro che hanno espresso il loro entusiasmo per le Bureau des Légendes S3. Ciò ricompensa, ciò intimidisce e ciò incoraggia».
In un tweet, una delle più belle sintesi dei sentimenti che chi crea prova davanti a chi lo apprezza: riconoscimento, timore, audacia.
Ma perché, invece, i veri agenti, quelli cui il creatore si è ispirato e che una volta l’anno mette accanto ai suoi attori, in serate che proprio vorrei vedere, in cui quelli che fanno davvero questo mestiere si confrontano con coloro che li interpretano e quelli veri si presentano con al collo un badge con un numero identificativo e se ti dicono un nome, non è mai quello che hanno davvero, perché questa gente vive come vive.
La mia grande, quotidiana, ossessiva domanda.
Perché questi rischiano la pelle, quella che io mi sono ustionata malamente, per trovarsi in posti assurdi, pieni di sassi e di sabbia, in cui, a fronte di un drone e di un telefono satellitare, in un’epoca di computer sulla tastiera dei quali tutti si accaniscono per tirare fuori scenari e risposte, in un’epoca, dicevo, in cui c’è ancora in Iran un telefono attaccato al muro in una piccola stazione di servizio, che funziona solo se uno lo prende a calci, un po’ come in tanti davano botte da orbi ai telefoni a gettone se quelli si mangiavano la conversazione prima di farla, perché questi non se ne stanno a casa loro, a fare una vita meno estrema, casomai fra bicchieri pieni di roba alcolica che tutto facilita e giustifica, lenzuola pulite e incontri erotici al vertice.
Io da un pezzo ho la risposta, anche se non è del tutto mia, visto che l’ho trovata una volta manco mi ricordo dove, però, questo me lo ricordo benissimo, quella volta pensai: «Ecco».
Sì, perché uno si domanda che cosa muova il mondo: i soldi, l’ambizione, il desiderio, il potere, l’invidia.
Macché.
Ciò che muove il mondo è la noia.
Per sfuggire alla quale, e questo ve lo dico io, che sono una che si annoia quasi sempre, quasi con chiunque e quasi dovunque, uno è disposto a tutto.
A correre qualunque rischio.
A vivere qualunque avventura.
Perché la noia è una risorsa.
Quando poi da essa esce fuori la creazione, uno deve fare una cosa sola: godersela.
Annullare tutto il resto.
Stare incollato a uno schermo a vedere che fanno quelli che per noia si infilano in tutte le situazioni: pericolose, estreme, improbabili.
Mutilanti.
Lasciare perdere quelli che non si annoiano.
Che non sanno, poveretti, quello che si perdono.
(Sto vedendo la serie Le bureau des légendes, creata da Eric Rochant. E da essa mi faccio ossessionare. Perché, e questa è la prima cosa che ho imparato in Accademia da un collega di Design, che la sapeva lunga: lavora sulle tue ossessioni: è la migliore cosa che tu possa fare).
(Tutti i nomi degli infiltrati, quindi anche il mio, vengono dalle imprecazioni del Capitano Haddock di Tintin).