Ero inoltre convinto, nella mia eccitazione, che mi sarei presto rivelato come il migliore regista cinematografico del mondo
Ingmar Bergman, Lanterna magica, 1987
Non mi riascoltavo mai.
Mi sarà capitato di riascoltarmi un paio di volte, nemmeno mi ricordo quando.
E ho sempre guardato con simpatia un po’ distratta un certo traffico di cassette audio con le mie lezioni, che passavano di mano in mano e certe volte venivano ascoltate stirando.
(Lo so perché me lo raccontavano).
Meglio della televisione, comunque, se ascolti e basta, non rischi di ustionarti col ferro.
Piuttosto di recente sono anche venuta a sapere che alcune cassette erano sopravvissute a anni di lontananza ed erano state utilizzate, per esempio, durante una visita a un luogo di cui avevo parlato.
Tutto questo mi faceva piacere, ben inteso.
Tutti vogliamo, per quello che facciamo e se ce la facciamo, lasciare un segno.
Poi, però, è arrivata l’ipertecnologia dell’ultimo anno.
Io clicco su un comando e compare il bottone rosso che mi dice che il computer sta registrando.
Tutto.
Video e audio.
A fine collegamento, il computer converte da solo il file e lo va a mettere in una certa cartella che lui riconosce, sulla quale intervengo poi io per mia organizzazione personale.
A quel punto uno clicca e tutto quello che è accaduto mezz’ora prima ricompare, pulito, preciso, lo posso rivedere subito sul mio schermo, oppure inviarlo, dopo averlo compresso, al mio smartphone o al mio tablet.
Non ho mai provato con la TV, però il mio tecnico mi dice che è possibile.
A quel punto, grazie tante che mi riascolto.
Non mi riascoltavo mai, ma andavo a orecchio.
Nel senso che sapevo perfettamente come era andata una lezione o una conferenza, me lo diceva il cuore, fatemi essere sentimentale con il mio lavoro.
Adesso rivedo tutto, in primo luogo per controllare se il file è buono.
Poi, però, subentra ormai un altro tipo di revisione, del quale mi sono disinteressata fino a qualche tempo fa.
Davo per scontato che potesse esserci il lapsus, più o meno intuivo che c’era qualche errore.
Adesso stanno tutti lì, belli netti, volendo posso riguardarmeli anche mille volte.
«In un film tutto è irrevocabile», Ingmar Bergman nella sua autobiografia Lanterna magica.
Eccomi passata a godere (e a soffrire) dello statuto del regista cinematografico.
Ruolo in fondo non dissimile da quello da me ricoperto, visto che mi occupo dell’intera produzione: soggetto, scelta delle immagini, loro tempo di permanenza sullo schermo.
Sceneggiatura.
E curo anche la proiezione.
«Gli errori di illuminazione mi stanno davanti agli occhi come diapositive immobili». Ancora Bergman.
Io ho fatto il percorso inverso, dalle diapositive immobili sono passata al film.
Sui lapsus passo con una qualche disinvoltura. Essi sono tali.
Davanti all’errore, mi comporto diversamente. Se lo considero marchiano, me ne scuso per iscritto con chi era presente e rettifico.
Se è perdonabile, lascio perdere.
Prima, se facevo una lezione mediocre, ci stavo male una settimana.
Pure adesso, se mi ci metto.
Ma di lezioni mediocri, on line finora non ne ho fatte.
È che ho cambiato radicalmente vita e che non tornerò mai più a quella precedente, a sbattermi da tutte le parti, in treno e in macchina, sempre con la cartella carica e il proiettore in spalla.
È finito lo spettacolo. O meglio, lo spettacolo comincia adesso.
Ho più tempo, perché del mio tempo ho cambiato l’organizzazione.
Con la mia esperienza, se sto su un Sorbetto tre, certe volte anche quattro giorni, esso non può venire male. Deve proprio andare tutto storto, per esempio, per via di un problema di collegamento, ma finora di problemi di collegamento ne ho avuti pochi, e ho sempre rimediato.
Certo, posso sbagliare all’inizio e radicalmente, e sto parlando della scelta dell’argomento.
Ma qui il confinamento mi fa bene, mi stimola la fantasia, la costrizione dello spazio (non esco da Roma da quindici mesi) mi ha allargato gli orizzonti.
E mi vengono di continuo un sacco di idee.
La sensazione è fisica. Tempo fa, quando stavo male e facevo fatica a infilare la rampa del garage, che era stretta, d’accordo, ma che per me era diventata un incubo, sentivo la testa come soffocata da una pressione che muoveva da fuori a dentro.
Adesso mi sembra che mille sorgenti mi zampillino all’interno, devo solo lasciarle sgorgare e non disperdere il flusso.
E poi se a qualcuno non piace quello che propongo, poco male.
Il mondo è pieno di storici dell’arte.
(Poi, però, i Sorbetti li faccio solo io).
L’articolo è buono, è stato pubblicato su un noto quotidiano di economia, di cui io a un certo punto ho smesso di acquistare l’altrettanto noto supplemento domenicale perché mi sembrava ogni settimana più miserabile.
Continuo comunque a fidarmi delle notizie economiche.
Questa, culturale, però è presentata bene.
In ballo c’è la mostra di qualche tempo fa al MART di Rovereto, dedicata a Fortunato Depero nelle vesti di pubblicitario.
Anche di se stesso, che è, qui, la cosa più notevole.
In qualunque campo della produzione al di fuori di quello dell’arte è permessa e ammessa la più strepitosa rèclame (sic); ogni industriale può e fa la più ardita pubblicità ai suoi prodotti; soltanto per noi produttori di genialità, di bellezza, di arte, la pubblicità è considerata cosa anormale, mania arrivista e sfacciata immodestia…
E continua dicendo che invece l’artista deve essere riconosciuto per il suo genio e le sue opere e pure presto, uno mica può aspettare che il mondo si accorga di lui quando è vecchio o dopo che è morto.
Non fa una piega.
Ovviamente questa considerazione, visionaria e pragmatica a un tempo, esaltata quanto basta, affatto narcisa perché magari i narcisi avessero tanto talento, si può applicare a tutto.
Inoltre, chi meglio di chi fa le cose, che conosce tutto il lavoro che c’è dietro, il tempo dedicato e il resto può valutare la qualità della sua produzione.
E guardate, pur nella foto precaria, la bellezza consueta dell’impaginazione futurista.
A studiarsi un po’ Depero, entra aria fresca dalla finestra, spalancata su orizzonti che sembrano impossibili da scrutare adesso.
Conciati come siamo, e guardate che non sto parlando della situazione sanitaria, tristi le pubblicità, triste la televisione, triste pure la radio, che poi è l’unica cosa che seguo e solo perché di tanto in tanto propone qualcosa di buono.
E il qualcosa di buono è sempre legato alle persone, perché sono sempre le persone che fanno le cose di creazione, individualmente e seguendo, in sé, ragionamento e istinto.
Anche inseguendo sogni e progetti, restituendo alla vita l’ambizione, come diceva ieri una scrittrice intervistata da un’intervistatrice brava, che a me non pare avere in sé niente di censurabile.
Perché se non hai ambizioni tu per te stesso, che ambizioni puoi pretendere che abbiano per te gli altri.
Dunque, un po’ di auto-réclame, ve lo dico io, non guasta.