Robert Braithwaite Martineau, Kit’s Writing Lesson, 1852

Ho fatto sette anni di analisi.
Grammaticale, logica e del periodo.
Nemmeno mi dispiaceva, anzi, mi sembrava un po’ una caccia al tesoro.
Quando con l’analisi del periodo non si capiva che proposizione fosse, era sicuramente un’interrogativa indiretta.
Quante cose, nella vita, non si capiscono.
Quando un paio di colleghi di Accademia, con i saggi per la rivista, mi avevano chiesto di dare un’occhiata a quello che avevano scritto, di fronte al loro sconcerto al mio appunto «qui la consecutio non funziona e bisogna metterci un congiuntivo», ho capito che questa faccenda dell’analisi non era comune patrimonio.
Correggi, mica possiamo entrare nei dettagli.
Ho imparato a scrivere alle elementari, nessuno si era preoccupato di istruirmi precedentemente.
E, non so come sia stato, da subito ho trovato bellissime le parole.
E. soprattutto, le parole, le ho trovate.

In classe facevamo i pensierini. Il loro contenuto era analogo a quello dei messaggi che mandano gli ascoltatori via WhatsApp alla radio, detto fra noi, non sopportavo né questi né quelli.
L’esercizio era orale e il pensierino migliore aveva l’onore di essere scritto sulla lavagna.
Davanti al soggetto dato, mettiamo, È primavera, le mie compagnucce erano tautologiche, per cui il massimo che riuscivano a esprimere era «È primavera».
Io avevo idee più articolate: «L’arrivo della primavera si sente nell’aria, insieme a qualcosa di nuovo. Ho visto anche margheritine nei prati. Fra un po’ compio pure gli anni».
Ovvio che alla lavagna ci andavo sempre io.

Senza averne alcun merito. Le cose mi venivano fuori.

Questo andazzo sarebbe continuato per tutta la scuola.
Con l’insegnante di Lettere al Ginnasio che restituiva ai compagni i temi corretti tenendoli con due dita, come se fossero stati garze infette che lei doveva allungare con le pinze, accompagnando il gesto, quando si trattava dell’unico maschio quasi sufficiente, con la frase Beati monoculi in terra caecorum e, quando si trattava delle femmine, semplicemente, riducendole a grumi poco espressivi e, quando erano espressivi, ad ammassi di emotività di nessun valore stilistico.
Alla mia insegnante di Ginnasio, però, i miei temi piacevano e io mi divertivo a scriverglieli, mi inventavo storie, situazioni, futuri professionali, per cui quella volta che bisognava commentare il terremoto, io avevo attaccato con la telefonata del giornale che mi diceva di partire di corsa, con il mio risveglio nel cuore della notte, la valigia fatta in quattro e quattr’otto e poi tutta una serie di avventure che ero sicura di vivere.

Al Liceo avevo con il mio professore di Italiano un rapporto esclusivo.
Il compito in classe era una cosa seria, quattro ore di tempo, un mese per la correzione e poi lui riportava il mucchio dei fogli protocollo pure lui tenendoli con due dita, con il braccio lungo il corpo.
I temi erano disposti per ordine crescente di voto, per cui all’interno c’era il più disgraziato e quello più riuscito stava esposto fuori, ma con le dita del professore che nascondevano con perizia cognome nome classe, insomma, la grafia dell’allievo.
Mi sono sempre chiesta come potesse, quell’uomo, avere una presa così mirata su quei fogli protocollo, è probabile che facesse le prove a casa davanti allo specchio.
Voci di corridoio: oddio, ha riportato i compiti.

La classe intera smetteva di respirare.

La consegna era un rito sacrificale, con i fogli zeppi di segni blu e rossi, un giudizio tranchant annotato sotto al cognome nome classe che toglieva tutte le illusioni, una rete a maglie strettissime attraverso la quale nessuno passava.
Sui miei fogli il mio professore non ha mai annotato una sola correzione, raccontava, anzi, che si teneva il mio tema come la ciliegina sulla torta, accomodandosi in poltrona e leggendoselo.
La matita rossa e blu abbandonata da un’altra parte.
Tre anni di idillio, durante i quali io mi sono espressa.

Però poi ho fatto altro, nel senso che la storia dell’arte ha messo il coperchio sulla pentola delle mie aspirazioni letterarie.
Ed è stato meglio così.
Come dice Pavese nel suo diario, chi vuole scrivere, «in qualunque momento…deve poter dire: no, questo non lo scrivo. Cioè avere un altro mestiere» (28 gennaio 1949).
Ecco, più o meno, questo è anche il mio caso.
E poi pure la storia dell’arte è piena di parole.

La scrittura non si insegna, ovvero, la scuola ti insegna la grammatica, che significa scrivere correttamente, poi, però.
Immagino che Maradona non sia mai andato a una scuola calcio.
E che Fangio si sia risparmiato le lezioni di teoria della scuola guida.
Ma che paragoni fai.
Chi, io?

Diego Armando Maradona

Nessun paragone, dico solo che, se ami scrivere, apprezzi quelli che nascono capaci di palleggiare con calci in alto, battute a terra e variazioni che riguardano il piede, la coscia, il petto, la spalla e la testa; oppure che tengono in mano un volante con abilità di improvvisazione e sensibilità di guida, facendo qualche volta il miracolo di correre costantemente sotto ai tempi di qualifica anche di otto secondi al giro.

Juan Manuel Fangio

Insomma, la storia è sempre quella, il bravo soldato aspira a diventare generale.

Una volta mi sono messa a leggere alcuni blog dedicati ai corsi di scrittura creativa. Già la parola creativa mi fa strano, non vi sto a dire quanto mi fanno strano i corsi.
Gli iscritti e quelli che avevano intenzione di diventare pure loro tali parlavano fra loro chiedendo e dando notizie. Con pasticci di sintassi, povertà di vocabolario e certe volte pure qualche errore di ortografia.
Andiamo bene.
Smisi di torturarmi quando lessi il commento di un tipetto disincantato che disse, più o meno, il corso non serve a niente però ti mettono in contatto con gente che può esserti utile, editori e quelli che vanno nelle fiere.

Ma che bello.

Comunque, la cosa più inquietante è che i corsi di scrittura creativa sono usciti fuori quando sono venute meno tutte quelle ore di analisi.
Allora era meglio soggetto, predicato verbale, complemento oggetto, almeno capivi la struttura di quello che scrivevi.

Io metto sempre i miei studenti a scrivere sulla carta, con matita o penna.
Faccio fare loro un diario, che si chiama Journal, come quello degli artisti, che agli esami guardo senza leggerlo.
Scrivere con matita o penna su carta vuol dire scrivere con tutto il corpo, altro che due dita su una tastiera.
I risultati sono comunque interessanti, pure quando loro mi dicono di odiare il diario e di non avere alcuna intenzione di continuare.
Poco male, a ogni sessione trovo sempre quattro o cinque ragazzi che hanno fatto la scoperta di quanto sia liberatorio mettere nero su bianco, deporre un fardello e farglielo portare alle pagine che stanno lì davanti.
Se pure sono in pochi a continuare, almeno ci ho provato con gli altri.

Io mi siedo e scrivo.
Lo faccio da sempre, diciamo che mi viene naturale, che nemmeno ci penso, che a scuola non facevo la brutta copia e che pure adesso scrivo tutto di getto. Quando mi rileggo, elimino alcune ripetizioni e lascio perdere il resto.
Se è uscito fuori, ha un senso.

La mia scrittura è cambiata quando sono passata dentro un buio tunnel esistenziale.
Quando cominciavo a uscirne fuori, o meglio, a capire che ci stavo dentro, mi ricordo che un giorno mi guardai allo specchio.
Era il mio solito specchio della mia solita stanza da bagno, che non avevo mai smesso di utilizzare, solo che quella mattina mi guardai veramente.
Ricordo che dissi a voce alta si vede che ho sofferto: ero come spolpata.
Ricordo che pensai mi serve un medico estetico.
Ricordo che pensai devo riprendere a mangiare. Io, l’appetito, lo perdo subito, a ogni impiccio minimale.

Nel frattempo, però, avevo cominciato a scrivere con un certo metodo. Scrivevo di tutto, anch’io il mio Journal, poi lettere, poi biglietti, poi cose di lavoro.
E si era spolpata pure la mia scrittura.
Solo che la scrittura, così scarnificata, stava meglio della mia faccia.
Dopo un altro po’ di tempo riuscii a dire, chiacchierando con leggerezza,  che quella era stata la cosa più buona che avevo trovato nel tunnel.

E che brillava al punto da illuminarlo.

Volendo tornare al mio mestiere, vi dico che l’immagine che ho messo in apertura l’ho scelta perché mi gira in testa da anni.
Il dipinto, un olio su tela più o meno 50 x 70, è di un allievo di un preraffaellita maggiore. E si vede, dall’ossessione per il dettaglio e dall’ispirazione romanzesca.
La scena è intricata ed è tratta dal racconto di Dickens The Old Curiosity Shop.
E gli oggetti vengono dalla descrizione letteraria. Ci sono armature, arnesi che arrivano da chiostri di monaci, armi arrugginite, figurine in porcellana, legno, ferro e avorio.
Sull’armatura, c’è una gabbietta che simboleggia uno stato di costrizione.
La ragazzina è Nell, la protagonista angelica del romanzo, che vive con il nonno, che è il proprietario del negozio che vediamo e che qui sta insegnando a scrivere al volenteroso Kit, il commesso di bottega.
Lui fa molta fatica e questo suo lavoro ingrato trova un’eco ironica nei pannelli in vetro piombato che stanno in secondo piano e che recano le immagini degli Evangelisti.
Ovvero degli scrittori dei Vangeli, scritture sacre per antonomasia.
Sul tavolo c’è la mela che allude alla perdita imminente del Paradiso.
Infatti il nonno gioca d’azzardo e viene ridotto in miseria e lui e la nipotina cominceranno a vagare per la solita Londra feroce, con vicende tortuose che porteranno alla ricomparsa di Kit ma anche alla morte di lei.

Poco male. Qui ci interessa la mela, quella lucida e intera, messa sul tavolo, fra il calamaio, le forbici e il delizioso nécessaire da cucito di Nell.
Mela, abbiamo detto, che allude al Paradiso perduto ma che per me, stasera, è anche la scrittura.

Tu perdi il Paradiso cogliendola, ovvero cedendo alla tentazione.
Poi, però, ricevi in cambio il mondo.
Ho sfilato il titolo di questo articolo a Il riposo del guerriero, quando il protagonista Renaud Sarti, alcolista, maledetto, postumo, alla domanda «Che cosa potrebbe farti smettere», risponde: «Vivere, forse. Chissà».

Ecco, la scrittura potrebbe servire.
Lui dice che la vera questione è come vivere.

Io chioso che pure come scrivere è un interrogativo interessante.

Poi, però, finché siamo in vita, proviamo a scrivere.
Forse da cosa nasce cosa, forse l’aiuto è reciproco, forse per scrivere serve vivere.

E viceversa.