
August Sander, Lavoratori della costruzione di strade, 1927
Il mio nonno materno, il piemontese, era un uomo alto e forte come una quercia. Trebbiatore di mestiere, di pochissime parole, sobrio all’eccesso, elegantissimo la domenica quando indossava l’abito scuro per la messa e inforcava la sua bicicletta per recarsi nella chiesa distante qualche chilometro, mi faceva paura. Soprattutto per i racconti di mia madre, alla quale lui, quando lei era ragazza, proibiva qualunque uscita, addirittura presidiando personalmente il cancello della cascina.
Per il resto, quando mia madre alla fine della scuola prendeva tutti e tre i figli e li imbarcava su una serie infinita di treni per portarli a lavare l’accento romano dalle sue parti, in un suo privato ritorno alle origini che durava per tutte le vacanze e che ricordo con piacere per via degli animali, della mia prima bicicletta e anche di qualche ballo serale all’aperto, che mi sembrava una delle avventure più eccitanti che potessero capitare a una ragazzina, il nonno, poco me lo ricordo.
Quello che mi ricordo è che rientrava nel tardo pomeriggio, si lavava, si cambiava, a tavola diceva quattro parole e poi si addormentava davanti a un bicchiere di vino, rigorosamente rosso.
Le parole divennero otto quando io, adolescente, cominciai a presentarmi alla cascina con i miei primi blue jeans.
Che, secondo lui, non erano adatti a una signorina di città che, fra l’altro, studiava, essendo quello indossato da me, e a ben guardare era vero, il suo abito da lavoro. Continua a leggere