Patti chiari. «Niente peli in faccia, unghie pulite e tagliate, non indossare la giacca da chef fuori dal ristorante e, comunque, siete responsabili del suo lavaggio. Niente scherzi o burle in cucina, non vogliamo nessun malinteso. Pantaloni e scarpe devono essere neri; dovete sempre avere con voi una piccola spatola (un coltello piatto con una punta arrotondata). Non bere sul posto di lavoro e non fare tardi: arrivate tardi più di una volta, e sarete rimandati a casa…Ho una lista di tremila persone che vorrebbero essere dove siete voi…così, se devo buttarvi fuori, ho un sacco di gente che aspetta di prendere il vostro posto».
Ispirazione (page 2 of 10)
L’altro corno del diavolo. Secondo gli italiani, almeno quelli da Firenze in giù, più esiziale del pepe c’è solo il burro.
Esso è considerato il portatore di tutti i mali anche da persone che al ristorante non esitano a ordinare le penne rigate ai quattro formaggi: parmigiano, emmental, taleggio, gorgonzola.
A parte la stupidità della ricetta, i formaggi sciolti mi fanno il medesimo effetto dei gatti, che di notte sono tutti bigi.
Parimenti, i formaggi fusi li assimilo tutti alle sottilette.
E allora la fonduta.
Quella va bene con una corona di Alpi intorno.
In mancanza di Alpi, mangio altro.
Bigger than Life. Il fatto è che abbiamo visto Versailles.
Dunque, amiamo le Roi Soleil.
E mai ci verrebbe in mente di considerare Philippe d’Orléans, fratello del re, un nullafacente insulso e fastidioso.
Anzi.
Ma nel film le cose stanno diversamente e i due sono antipaticissimi.
Per fortuna, però, c’è dell’altro.
Dry January. Vedrete che fra un po’ metteranno i limiti di velocità sui circuiti di Formula Uno.
Sylvain Tesson, che è un avventuriero moderno, uno scrittore-viaggiatore che fa cose estreme, che scala tutto quello che è possibile scalare e che ha finito col riportare un brutto trauma cranico cadendo dal terzo piano mentre cercava di rientrare in casa arrampicandosi dall’esterno perché aveva dimenticato le chiavi, dice che presto saremo obbligati a camminare per la strada con un casco.
Del resto, basta vedere i bambini in bicicletta, pupetti di quattro anni con paragomiti, paraginocchi e paratesta, oltre a un numero di ruote pari a quattro, con appresso un genitore che si torce le mani per l’apprensione.
Situazioni. Accademia, aula di Storia dell’arte.
Sto per iniziare una lezione, in seconda fila, ben visibile, uno studente con gli auricolari indossati.
D’ora in poi, anche, le cuffiette.
Io: «Toglile».
Lui: «Sono spente».
Io: «Toglile lo stesso».
Lui: «Le porto sempre».
Io: «Pure quando fai la doccia?».
Lui: «Sì».
Come dice la canzone: bisogna saper perdere.
E lascio perdere.
Metropolitana. Gente con la mascherina, le cuffiette, il laccetto degli occhiali, gli occhiali, la sciarpa.
Ancora uno sforzo, il filo di luci, e l’addobbo dell’albero, fra un po’ è Natale, no?, è completo.
Relazioni. Ogni volta che entro nell’Happy Bar di Andrea in via Tuscolana lui mi accoglie con un «Ecco la barista per caso».
Io preferisco definirmi in un altro modo, che poi vi dico.
Il fatto è che contraggo continuamente debiti di riconoscenza con alcuni titolari di attività cosiddette commerciali vicino a casa mia.
La signora Anna della lavanderia dove porto a stirare le lenzuola e i ragazzi del garage in primo luogo, che, tutti, mi usano infinite cortesie, dal non farmi pagare il piumino che porto a gonfiare dopo averlo lavato in lavatrice, la prima, al prendermi i pacchi, gli altri.
Pop, 1. Giorni fa, volendomi svagare, ho digitato sulla barra di Google «Pavarotti cattivo interprete».
Apriti cielo.
Non ero investita da una simile ondata di cattiveria al sapore di fiele dal luglio dello scorso anno, quando, dopo la vittoria dell’Italia agli Europei, si è abbattuta sugli inglesi tutti una montagna di insulti.
E l’Italia aveva pure vinto.
Fair play, zero.
L’offesa più improbabile riguardava il fatto che loro guidano a sinistra, dunque, sono dei cretini.
A parte che qui bisogna stabilire chi è in realtà ad avere qualche deficit intellettuale, visto che siamo stati noi a esserci spostati a destra, prova ne sia che i carri, prima e ancora oggi i treni, tengono esattamente la medesima mano degli inglesi.
Non tutti i mali. Ogni volta che incontro la signora Anna, che è la titolare della lavanderia che mi stira la biancheria più impegnativa della casa (lenzuola, tovaglie), e la incontro spesso perché mi capita di passare a salutarla o di portarle il caffè dal bar di Andrea, che conosce i suoi gusti e quelli dei suoi lavoranti, ogni volta, dicevo, che incontro la signora Anna, le chiedo: «Come sta?».
Lei mi risponde ad litteram: la spalla le dà meno fastidio perché ha fatto una terapia, però ha smesso di prendere le medicine perché gli oppiacei la intontiscono.
Il piede le fa sempre male, le secca non trovare un paio di scarpe adatte a lei.
Eccetera.
Tutto elencato nel dettaglio.
Laddove il senso sarebbe più o meno lo scambio all’inglese: «How do you do?». «How do you do?».
Pari e patta.
Come un film. L’altra settimana, partendo per Parigi, mi sono accorta al check-in di aver perso un guanto.
La mia collega, toscana, dei miei primi anni di Accademia, lei, alla fine, io all’inizio della carriera, qui interverrebbe per cambiare il verbo.
Mi sono accorta di aver smarrito un guanto.
Per la precisione, il sinistro di un paio che avevo appena acquistato da un’azienda storica finlandese, in pelle scamosciata, pronto per la primavera, arrivato da me in una confezione accuratissima, piena di carta velina, scatola, etichette e nastri.
La porta e il portone. Secondo me, quando qualcuno vi dice che chiusa una porta si apre un portone, avete tutto il diritto di guardarlo in tralice.
Ma tu che ne sai.
A quel punto, è meno ipocrita un su con la vita, generico ma a modo suo consolatorio, almeno non ti senti uno scalognato.
Il modo di dire sembra che derivi da Alexander G. Bell, l’inventore del telefono, che ebbe molto successo dopo parecchi fallimenti.
Ciò che mi colpisce, dopo un rapido controllo, è che il detto in inglese e in francese non parla di un portone, ma solo di porte.
Ma quand’è che noi italiani siamo diventati così spropositati.
In ogni caso, il fatto che oggi vi racconto è uno dei pochi che dimostrano la giustezza dell’asserzione.