Come un film. L’altra settimana, partendo per Parigi, mi sono accorta al check-in di aver perso un guanto.
La mia collega, toscana, dei miei primi anni di Accademia, lei, alla fine, io all’inizio della carriera, qui interverrebbe per cambiare il verbo.
Mi sono accorta di aver smarrito un guanto.
Per la precisione, il sinistro di un paio che avevo appena acquistato da un’azienda storica finlandese, in pelle scamosciata, pronto per la primavera, arrivato da me in una confezione accuratissima, piena di carta velina, scatola, etichette e nastri.
(Il fatto di aver dovuto acquistare guanti finlandesi la dice lunga sulla decadenza del nostro Bel Paese).
Dispiacere variegato, perché i guanti erano nuovi e molto belli. E, in fin dei conti, perché andavo a Parigi senza guanti.
Avrei dovuto prevedere un cambio.
Appena ho potuto, ho ripercorso la strada che avevo fatto, ho chiesto a cinque persone, mostrando il guanto superstite, il destro, se avevano trovato il compagno, c’erano militari di sorveglianza, c’era personale in divisa dell’aeroporto.
L’unica che ha preso a cuore la faccenda è stata una donna che stava facendo le pulizie, che indossava dei guanti di gomma e che mi ha detto che aveva pulito da qui a là ma non aveva trovato niente.
Se avesse trovato qualcosa, lo avrebbe messo da parte.
Ho rovesciato la borsa.
Niente.
L’unica consolazione era di stare vivendo la medesima situazione raccontata da Max Klinger nel ciclo capolavoro Parafrasi sul ritrovamento di un guanto, 1880, prima disegni, poi, incisioni.
Una donna, pattinando, perde un guanto.
Lo raccoglie un uomo, che se lo porta a casa e che vede scatenarsi una vicenda di erotismo e feticismo che non ha pari, nella quale il guanto acquisisce una vita propria, comincia a perseguitare i sogni del protagonista, riceve degli omaggi, viene rubato da un uccellaccio e, alla fine, nella tavola 10, trova pace accanto a un Cupido che ha deposto le armi, vegliato da un ramo di rose.
Voi fate come vi pare, cioè continuate a non portare i guanti, però, la butto lì, nell’ottica di coloro che vogliono arricchire la loro esistenza di immaginazione e di immaginario, non mi risulta che un artista abbia fatto qualcosa di simile con una culotte o un reggiseno, indumenti anch’essi potentemente evocativi.
Evidentemente nei guanti c’è qualcosa di più, ed è un peccato non approfittarne, fosse solo perché proteggono le mani e completano molto bene una mise.
La mattina dopo ho rimediato.
Prima sono andata alle Galeries Lafayette, dove però, inopinatamente, non avevano la nuova collezione ma solo i saldi invernali.
Con la primavera nell’aria e alcuni progetti in testa, ho chiarito che proprio non se ne parlava.
Allora, come una freccia, ho raggiunto rue Castiglione, dove ricordavo l’esistenza del negozio di un’antica manifattura.
Il ragazzo che stava lì era molto bravo, poetico, appassionato di cinema e di cose italiane. Quando gli ho detto che venivo da Roma, ha sospirato «tremila anni di civiltà».
Ma qualche mancanza a proposito di guanti.
Mi ha detto che nei cassetti, che arrivavano al soffitto e che lui raggiungeva con un’alta scala, c’erano dei tesori ma che finiva sempre così, che era uno solo il paio che andava bene.
La sua considerazione mi è sembrata una metafora calzante anche per le relazioni umane.
Ho provato guanti rosa, celeste cielo, taglie diverse, ho specificato che io indosso la sette e mezzo e che voglio poter muovere le dita.
Insomma, non fare come Marlene Dietrich che, avendo deciso di affidare a un artista-guantaio francese la confezione di cinquanta paia di guanti e seccandosi di doverli provare tutti, risolse facendosi fare il calco delle mani, così come si era fatta fare il calco dei piedi dal calzolaio italiano.
Il risultato fu di perfezione totale, i guanti erano «i più aderenti del secolo», ma lei non poteva muovere le dita, così le venne da ridere e dovette correre a fare la pipì, facendosi aiutare, però, per sbottonare i pantaloni.
Inoltre io porto sempre un anello, che è grande e che deve pure lui avere il suo spazio.
Il ragazzo ha insistito perché provassi anche la taglia sette, i guanti cedono, sì, ma non in lunghezza, l’ho fatto contento ma poi alla fine era d’accordo con me.
Ho acquistato un paio di guanti blue marine in agnello foderati di seta, mi-long, che mi sono fatta confezionare.
Scatola gialla, carta velina, sacchetto in tela nera per conservarli, busta anch’essa gialla, con nastro.
Ho attraversato in baldanza le Tuileries e sul pont de Solferino mi sono fermata per fare una foto e aprire il mio pacchetto.
Alle ore 11:45 ho fatto un ingresso fiero, io, italianissima ma con guanti francesi, al Musée d’Orsay, dove avevo prenotato per le ore 12:00 la mostra di Whistler.
Vedi biglietto n° 25.
Nel frattempo avevo deciso che a maggio avrei finalmente confezionato un Sorbetto che sarebbe stato dedicato ai guanti.
Ho fatto un giro approfondito nel museo e, visto che come è noto la lingua batte dove il dente duole, tutti i dipinti che mi trovavo davanti avevano personaggi che indossavano dei guanti, per esempio il magnifico La dame au gant di Carolus-Duran (1869).
E pure questa bella signora mi sa che di guanto ne ha smarrito uno, caduto a terra, accanto, guarda un po’, alla firma dell’artista.
Ma è tempo di passare al biglietto n° 25.
Prima però voglio dirvi che, tornando a Roma, quando il valletto mi ha riportato la macchina, mentre lui si occupava della mia valigia, io ho tastato quasi senza farmi vedere il pavimento, lato guidatore e lato passeggero.
Una speranza mi era rimasta, che il guanto sinistro mi fosse scivolato dalla borsa all’andata.
Niente.
E va bene così, speriamo che chi l’ha trovato ci abbia fatto qualcosa di buono e di bello.
Ho messo in moto, ho abbassato il freno a mano.
Ho sentito immediatamente un contatto con qualcosa di morbido e caldo.
Ho estratto il guanto sinistro da sotto la leva.
Di rado un mio ritorno in patria è stato più trionfale.
Biglietto n° 25. Sinfonia in color carne e rosa: ritratto di Mrs. Frances Leyland di James McNeill Whistler (1871-74). Ecco un uomo che mi sarebbe piaciuto incontrare.
Un self-invented, uno che nasce a Lowell, nel Massachusetts, che è, fino a prova contraria, uno stato del Nord, e finge per tutta la vita di essere un aristocratico del Sud, che ha abbandonato la sua terra, che non vuole mai più rivedere, per via della scarsa considerazione che l’America nutre nei confronti degli artisti.
Un dandy.
Un eccentrico.
Un kamikaze estetico, che ispira Proust per il personaggio di Elstir della Recherche.
James McNeill Whistler (McNeill è il cognome della madre) è il primo artista americano che lavora con Courbet, al quale sfila l’amante, e che è stimato da Manet, Degas, Pissarro.
Come per Oscar Wilde, l’opera d’arte della sua vita è lui stesso.
Vedere Whistler dalle nostre parti è impossibile, come minimo e se non vogliamo attraversare l’oceano, bisogna andare verso Parigi e verso Londra.
E Parigi dedica all’artista una mostra, piccola e raffinata, una presentazione eccezionale, con i suoi capolavori della Frick Collection di New York, museo oltremodo snob, aperto solo quattro giorni a settimana, con ingresso vietato ai minori di 10 anni.
Dunque, nessun rischio di pipinara nelle sale che già furono residenza di Henry Frick, industriale e magnate del carbone, collezionista.
Mostra intelligente e affatto pretestuosa, nella quale sono esposte anche le opere dell’artista conservate a Parigi.
Il gioiello più prezioso è il protagonista del biglietto di oggi: il ritratto di Frances Leyland, moglie del ricco armatore e amateur d’arte Frederick, fra i principali mecenati dell’artista.
Lei è ritratta nel salotto londinese di Whistler, in cui ogni elemento è scelto e controllato: la decorazione dell’ambiente, con il tappeto a scacchi e il parquet del pavimento con i quadrati che ignorano le regole prospettiche e si pongono come un piano piatto, che non recede verso il fondo del dipinto; l’abito di lei, disegnato dall’artista, une robe d’intérieur o, se preferite, un tea gown, quel tipo di indumento amato dalle eroine di Agatha Christie, indossato anche dalle sofisticate degli anni ’70 e dalle californiane grunge dei ’90.
L’abito è in mousseline bianca e rosa, cosparsa di fiori ed è fluido e ampio, contrariamente alla silhouette tipica dell’era vittoriana, sempre stretta e costretta e serrata e sciancrata.
La figura, ripresa di tre quarti, è inquadrata da fiori giapponesizzanti sulla sinistra e dalla firma dell’autore, una farfalla, sulla destra.
Anche la cornice, che vi mostro in un mio scatto, è stata disegnata dall’artista, così che il motivo basket-weave, pensate a un intreccio a canestro, corrisponde alle decorazioni del pavimento.
I capelli dai toni mogano di lei e la sua carnagione hanno dato all’opera il titolo con il quale è conosciuta: Sinfonia in color carne e rosa.
(Vi faccio notare che Whistler definisce una donna una sinfonia, così chiarisco meglio perché mi sarebbe piaciuto incontrarlo).
Ma quali sono le caratteristiche di questa pittura.
Qui sta il nodo, l’incanto, qui sta il bello: impalpabile, evanescente, suggerita, delicata, fluttuante, essa attiene all’evocazione e al sogno.
Essa fa venire in mente la consistenza inesistente delle nuvole.
La pittura di Whistler è una meraviglia.
Il titolo. Nel film Pretty Woman, Edward dà una ripulita a Vivian, che è una prostituta, e la porta a teatro a vedere La Traviata, la cui protagonista fa più o meno lo stesso mestiere di lei.
Seppure con qualche differenza di stile.
I due vanno all’opera con l’aereo privato di lui.
Io non ho mai incontrato un uomo con un aereo privato.
Misuro la pochezza della mia vita sentimentale.
Ma ho visto non poche Traviate e tante ne ho anche sentite alla radio.
L’assidua frequentazione non mi impedisce, tutte le volte, di struggermi nell’Atto III, quando lei sta per morire, lui ritorna, lei ci crede, poi invece muore davvero.
La differenza fra il teatro e casa mia è che a casa mia mi struggo con più libertà, una volta piangevo così tanto che ho cercato a tentoni il brillantante per la lavastoviglie e, accecata dalle lacrime, ho afferrato il flacone del detersivo per i delicati.
Me ne sono accorta dall’odore, però il danno ormai era fatto.
Non vi sto a dire quello che ho faticato a ripulire la vaschetta.
Il fattaccio non mi ha impedito, quando se ne è ripresentata l’occasione, di tornare a struggermi.
Però ormai, prudentemente, se devo mettere il brillantante nella lavastoviglie, aspetto che Traviata sia morta del tutto.
Oppure rimando l’operazione al giorno successivo, ché è meglio fare certe cose quando si è lucidi e consapevoli.
Vi propongo qui il duetto Violetta/Alfredo, Atto III, Scena sesta, interpretato da Maria Callas e Alfredo (nomen omen) Kraus.
Siamo a Lisbona, al Teatro Nacional de São Carlos ed è il 1958.
E come si fa a non struggersi, andiamo su.
Le lavastoviglie si riparano o si ricomprano.
Invece, questi due, che cosa riescono a trasmettere: l’Amore, la Morte, la Speranza, fosse pure delusa.
E poi c’è Parigi, che diamine.
State bene e fate cose delicate, esteticamente concertate, leggere come nuvole.
E se potete, andate a vedere la mostra di Whistler.
È aperta fino all’8 maggio prossimo al Musée d’Orsay.
* L’illustrazione di apertura è di Lorenzo Rocco
** L’assistenza tecnica, impeccabile (oggi ho avuto una risposta a un mio quesito
in due minuti, centosessanta secondi) è dell’impagabile Virgilio Piccardi
*** Ho controllato e nessuno lo dice. Ma se lo diceva la mia collega, toscana e coltissima, deve essere vero: la differenza fra smarrire e perdere è che nel primo caso si ritrova quello che si è smarrito, laddove quello che è perso, come è noto, è perso
**** Pubblico sul mio blog, con una settimana di décalage, la Newsletter che voi ricevete puntuale ogni mercoledì alle 9:00 nella vostra casella di posta elettronica. Per ora va così, poi vedremo