Albrecht Dürer, Melencolia I, 1514

Non tutti i mali. Ogni volta che incontro la signora Anna, che è la titolare della lavanderia che mi stira la biancheria più impegnativa della casa (lenzuola, tovaglie), e la incontro spesso perché mi capita di passare a salutarla o di portarle il caffè dal bar di Andrea, che conosce i suoi gusti e quelli dei suoi lavoranti, ogni volta, dicevo, che incontro la signora Anna, le chiedo: «Come sta?».
Lei mi risponde ad litteram: la spalla le dà meno fastidio perché ha fatto una terapia, però ha smesso di prendere le medicine perché gli oppiacei la intontiscono.
Il piede le fa sempre male, le secca non trovare un paio di scarpe adatte a lei.
Eccetera.
Tutto elencato nel dettaglio.
Laddove il senso sarebbe più o meno lo scambio all’inglese: «How do you do?». «How do you do?».
Pari e patta.


Comunque, al di là di come va la salute e di come vanno gli affari, di cuore e di portafogli, a me piacerebbe di più sapere come va l’umore.
Mi sono svegliato bene.
Non mi sarei mai alzato dal letto.
Ieri sera volevo suicidarmi.
Non riesco a trovare una stabilità nelle mie relazioni sentimentali.
Sono ipocondriaco.
L’alcol mi sembra troppo spesso una buona soluzione.
Il romanzo di Philip K. Dick Gli androidi sognano pecore elettriche?  (1968), da cui è stato tratto il film Blade Runner  (1982), pietra miliare nella storia del cinema e immagine profetica di quello che saremmo diventati noi e le città in cui viviamo, comincia con Rick Deckard che si sveglia e con la moglie Iran che si sveglia pure lei, anche se non ne ha alcuna voglia.
Entrambi sono in possesso di un apparecchio, che peccato che non sia stato ancora inventato, che loro definiscono «organo degli umori».
Esso, come tanti altri apparecchi, si può regolare attraverso una scheda.
Sulla scheda di lui è in programma «un rigoroso atteggiamento professionale». Su quella di lei, è stata fatta una scelta inutile e insensata: «sei ore di depressione autoaccusatoria».
Lei spiega che una volta aveva sentito gli appartamenti vuoti intorno e che aveva provato felicità perché era dell’umore 382.
Ma le era venuto in mente che era pericoloso sentire l’assenza della vita e non reagire, dunque aveva programmato la depressione per due volte al mese, registrandola sulla scheda.
Voi pensate a quanto farebbe comodo avere un organo degli umori.
Non avrebbero più ragione di esistere benzodiazepine, antidepressivi, sostanze ricreative diverse, alcolici in genere, fumo di genere vario.
Ma poi, ci troveremmo bene o faremmo come la moglie del cacciatore di androidi, che è disposta a soffrire pur di sentirsi viva?
La terza via, quella che è sempre difficile da definire ma che stavolta è chiara, è quella che vi indico io con il MaxiSorbetto della primavera 2022: lo spleen come luogo della creatività.
Cominciamo dunque nel biglietto di oggi ad indagare l’opera chiave, ma pure l’opera cliché va bene, di quello stato d’animo che Baudelaire ha definito con la parola inglese che indica la milza, a modo suo organo degli umori anch’essa, visto che da un pezzo si pensa che da lì provenga la secrezione della bile, nera, dunque, cattiva, quella che fa la vita agra.
E vedete voi come tutto si tiene: sto leggendo La vita agra di Luciano Bianciardi, di cui sento parlare da sempre ma che non mi era mai capitato in mano.
Siamo all’inizio degli anni ’60 e il protagonista, che si è trasferito da Grosseto a Milano un po’ con intenti anarchici, antisociali e violenti, un po’ con il desiderio nemmeno troppo celato di avere successo per quello che lui è nella sostanza, un intellettuale, laureato in filosofia, bibliotecario e professore di liceo, il protagonista, dicevo, descrive per filo e per segno un’esistenza grama, con cene in latteria col conto aperto; domeniche sotto fine mese in cui non restano sessanta lire nemmeno per comprare «una coppia di uova»; sere in cui va a letto senza cena; sigarette contate, qualcuna offerta e altre rimediate con le cicche strozzate e disfatte a casa per riempire in qualche modo una cartina; lavori mal pagati, mal riconosciuti, descritti con la lucidità dell’entomologo che illustra i suoi insetti; stanze senza riscaldamento; trasferimento in periferia in un alloggio condiviso e ogni giorno un’ora e mezzo di tram; gli anelli d’oro e la macchina da scrivere impegnati al monte.
Tutto questo in una città in piena espansione economica, ingrata e inospitale.
Eppure questo romanzo è una delle cose più piene di vita che io abbia letto, con dentro una storia d’amore molto carnale, uno sguardo affilato sul mondo che non risparmia nessuno, le donne, soprattutto le segretarie, i datori di lavoro, i compagni della sezione, il bigliettaio «che sollecita continuo e insistente di andare avanti, come facevano un tempo le zie dei casini», i consumi, le diete dimagranti, la noia, i bicchieri.
Perché poi è vero che nell’amaro della milza e nell’agro c’è la vita vera e «non si capisce Parigi standosene barbicato a Montmartre, né Londra abitando a Chelsea».
Perché se Bianciardi non avesse fatto tutta la fatica che ha fatto a stare al mondo, e lo stesso si può dire di quasi tutti gli artisti, non ci sarebbe stato il romanzo.
E non ci sarebbe arte.
Venite dunque con me a indagare la doppia valenza della Malinconia: da una parte uno stato di lutto senza oggetto; dall’altra, la fonte di creazione più feconda e potente da migliaia di anni a questa parte, che attraversa tutta l’arte occidentale e che ci offre uno specchio, nel quale riconoscerci.

Biglietto n° 26. Melencolia I di Albrecht Dürer, 1514. In professione, faccio quello che fa la Catherine di Jules e Jim: violento la grammatica.
Lei presenta a Jim una ragazzina e dice che è la sua unica figlia.
Poi presenta una seconda ragazzina e dice che pure quella è la sua unica figlia.
Io ho ben chiare le idee su chi è il più grande incisore di ogni tempo.
Albrecht Dürer è il più grande incisore di ogni tempo.
Ma pure Rembrandt è il più grande incisore di ogni tempo.
Per non parlare di Giovanni Battista Piranesi, che è, anche lui, il più grande incisore di ogni tempo.
La colpa è della grammatica, che non contempla più di un solo superlativo assoluto, laddove io ne contemplo più di uno.
Comunque oggi non ho nessun dubbio su Dürer: egli è il più grande incisore di ogni tempo.
Ma non solo.
È anche la massima figura dell’arte del Rinascimento dell’Europa del Nord.
Magnificamente educato attraverso contatti di famiglia e amici, devoto all’esattezza e al dettaglio, grande disegnatore, pittore potente, umanista, viaggiatore, arguto scrittore.
Ma veniamo all’opera del nostro biglietto di oggi.

La prima impressione è di trovarci davanti a una figura alata alla quale, però, qualcosa che le leggiamo sul viso impedisce di volare.
L’espressione è corrucciata, l’umore sembra buio.

Albrecht Dürer, Melencolia I, 1514, part.

La creatura, direi di genere femminile, ha anche una corona in testa, che presumibilmente dovrebbe alleviare il suo stato d’animo.

Lei è circondata da oggetti.
Mi fa pensare subito a quel gioco della «Settimana Enigmistica» che si chiama Aguzzate la vista o Trova le differenze.

Una cosa che mi ha sempre colpita di questo periodico è la varietà dei suoi lettori.
Risolvono enigmi, o, almeno, ci provano, quelli che sono andati tanto a scuola e quelli che a scuola ci sono andati poco o niente, cosa ben strana, dovete ammetterlo, perché queste due categorie coabitano solo in certe situazioni, che ne so, la partita di calcio, la pizzeria, la palestra.
Il cruciverba, appunto.
Inoltre, era un rebusista, cioè un autore di rebus, lo psichiatra della Newsletter #78, quello superborghese con la moglie pitocca che non mi lasciava niente per cena quando facevo la baby sitter ai suoi due figli, lei che collezionava bambole, lui con le riviste per soli uomini nell’armadio.
Non vi sto a dire quale lato di questi due mi suonava più strambo.
Ma divago.
Stavo dicendo che guardo Dürer e penso alle due vignette accostate, che sono sempre piene di roba, altrimenti il giochetto sarebbe troppo facile.
Ebbene, se c’è un pubblico che passa le sue mezz’ore a osservare disegnetti quasi senza senso, tanto più può valere la pena esaminare la panoplia che accompagna il nostro caro angelo.
Lei ha in mano un compasso, un libro chiuso in grembo e fra le pieghe della veste si distinguono un mazzo di chiavi e una aumônière.
C’è uno schizzo con una scritta dell’artista che suona così: «chiave vuol dire potere, saccoccia vuol dire ricchezza».
Possiamo essere d’accordo.
Accanto alla sfera, che è un solido geometrico, ci sono degli attrezzi da falegname, la riga, la pialla, la sega.
Poco sopra il cane, c’è il martello.

Albrecht Dürer, Melencolia I, 1514, part.

Dall’orlo dell’abito sporgono le tenaglie.
Martello e tenaglie, con i chiodi che stanno a terra sulla destra, sono simboli della passione di Cristo.
Ci sono degli strumenti di misurazione, la bilancia, il peso, la clessidra, il tempo.
Sopra la testa di lei, sotto la campana, c’è il quadrato magico, la somma dei numeri del quale, leggendo in qualunque direzione, è sempre 34, ovvero 3 + 4 = 7.

Albrecht Dürer, Melencolia I, 1514, part.

E sette sono i pianeti conosciuti all’epoca e sette i simboli dell’alchimia.

Sullo sfondo, davanti al paesaggio acquatico del quale vado a parlarvi fra un momento, un recipiente è posto sopra un braciere, con accanto la molla per il fuoco (sapete quando si dice prendere con le molle? Ecco).
Un solido geometrico, inconfondibilmente düreriano, ostruisce la vista: esso è un poliedro a sette facce.
L’angelo è massiccio, la veste è opulenta, tutto sembra contribuire a tenerlo a terra e lei è indifferente agli altri esseri viventi che le stanno accanto: il cane rinsecchito, accucciato in tondo e il putto, alato anch’egli, dunque, un cherubino, seduto su una mola, che scarabocchia qualcosa alacremente, evidentemente a uno stadio diverso di azione e di ragionamento.
Una scala a sette pioli è appoggiata a un edificio che è ancora in costruzione.
E, finalmente, il paesaggio acquatico in alto a sinistra: attraversato da una cometa e da un arcobaleno, ospita un pipistrello, animale notturno, che tiene fra le zampe un cartiglio, dal quale, se ancora non l’avessimo capito, apprendiamo l’identità della creatura: MELENCOLIA.

Albrecht Dürer, Melencolia I, 1514, part.

Animale fantasmagorico, con le ali aperte, la coda da drago e la bocca spalancata, il pipistrello porta con sé anche il numero ordinale I.
Esso potrebbe significare varie cose, per esempio che l’artista avesse intenzione di andare avanti sull’argomento, o di illustrare gli altri temperamenti.
Insieme al malinconico, il sanguigno, il flemmatico e il collerico.
Individuati da Ippocrate, che, come tutto quello che è classico, quindi, citabile, è vissuto fra il V e il IV secolo prima di Cristo, gli umori mi sembra che siano quelli che abbiamo pure noi.
In duemilacinquecento anni di storia, poco o niente di nuovo è stato aggiunto a questa intuizione.
L’enigmaticità della composizione, l’oppressiva presenza degli oggetti, il chiaroscuro, la solitudine notturna delle creature, la posa di lei, con la testa appoggiata sulla mano chiusa a pugno, tutto ci interpella.
Tanti studiosi hanno tentato un’interpretazione, si sono, cioè, arrovellati il cervello su un’opera che io lascio volentieri alla sua impenetrabilità.
Questo è solo un biglietto, ovvero una mini lezione di storia dell’arte, mica è la ricerca della Verità.
Però, che meraviglia.
E la cosa che più mi incanta è la firma dell’artista.

Albrecht Dürer, Melencolia I, 1514, part.

La trovate accanto a lei, sulla destra, in basso.
Io ho sempre pensato che il logo della Coca-Cola fosse bellissimo.

Coca-Cola

Finché non ho incontrato, da ragazza, il monogramma di Albrecht Dürer: il più bello di tutti.
Allora si fa così.
Siccome nella nostra firma, oltre che in tanti altri luoghi di noi stessi, c’è la nostra identità, quando usciamo nel mondo, ricordiamoci di queste prodigiose invenzioni grafiche.
Quella della Coca-Cola, che io non bevo ma di cui apprezzo la capacità di suggerire un intero universo.

E, soprattutto, quella di Albrecht Dürer, al quale invece mi abbevero dire volentieri è dire poco.
In questo biglietto vi ho parlato di una incisione su rame, che misura cm 23,9 x 16,8 che vi può capitare di vedere in diverse stampe, che vengono da diverse tirature.
Al di là del lato tecnico, che a noi oggi interessa relativamente, c’è il succo, ovvero il cuore dell’opera.
Perché siamo davanti all’autoritratto dell’artista.
Perché Dürer ha illustrato l’umore malinconico, mica gli altri.
E non venitemi a dire che non era chiaro fin dal primo approccio.

Le notizie. Per tutto il mese di aprile, in un MaxiSorbetto di 4 (quattro) porzioni giovedì 7, giovedì 14, giovedì 21 e giovedì 28, indago alle ore 18:30 Il sapore dello spleen:  immagini, sintomi, umori, creatività, stati d’animo saturnini, demoni e meraviglie.
Domenica 17 aprile 2022 ore 18:30 Sorbetto op. fuori catalogo Balletto dei pulcini nei loro gusci: Pasqua 2022.
Prendo in prestito da Musorgskij il titolo di uno dei brani della sua suite Quadri di un’esposizione – Ricordo di Viktor Hartmann e chiudo il cerchio.
Il musicista russo, «uno dei più straordinari geni musicali del secolo XIX» (Massimo Mila), si ispira a una mostra allestita per ricordare l’amico pittore precocemente e improvvisamente scomparso e scrive la sua composizione più famosa.
Io parto dalla musica e riporto tutto all’arte.
Come danza per la Pasqua, ammettete che non è male.
Accesso libero.
Se volete partecipare, inviatemi la vostra richiesta e sabato 16 aprile riceverete link e credenziali di accesso a www.zoom.us.
Potete anche portare degli ospiti.
Qui ascoltate il brano dall’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino diretta da Carlo Maria Giulini.

Il titolo. Alcune cose su Charles Baudelaire.
Il mio cuore messo a nudo (Mon coeur mis à nu) è una raccolta di frammenti che fanno parte di un progetto autobiografico mai realizzato. Essa è stata pubblicata postuma, vent’anni dopo la morte del poeta, insieme ad altro materiale che stava in un baule proveniente dal Belgio.
Opera frammentaria, abbiamo detto, quindi moderna e adatta a noi, che siamo incapaci di totalità.
Sempre lui ha preso dall’inglese la parola spleen per indicare ciò che in francese si definisce cafard, in tedesco Sehnsucht, in spagnolo morriña, in portoghese saudade e in italiano, più o meno, malinconia.
Il più o meno vale anche per le altre lingue.
Lo spleen di Parigi è una raccolta di poemetti in prosa, brevi, quindi anch’essi adatti a noi che non sopportiamo più niente e nessuno, pubblicata parzialmente quando l’autore era ancora in vita, tutta percorsa da umori che sembrano secreti dalla milza.
Io ho unito l’una cosa e l’altra e, così come Baudelaire ha messo a nudo il suo cuore, io voglio mettere a nudo il suo, e il nostro, spleen.

State bene e, se vi sentite tristi o depressi, controllate se per caso non siate invece malinconici.
Ché allora vi trovate in uno stato d’animo del tutto diverso, che vi destina a creare, proprio come uomini d’eccezione hanno fatto da sempre.
Questo lo dice Aristotele, IV secolo avanti Cristo.
E ve lo confermo io oggi, dopo tutto questo tempo.
Insomma, state bene e approfittate del vostro eventuale umore nero per fare le cose belle che sempre vi auguro di fare.

* L’illustrazione di apertura è di Lorenzo Rocco


** La preziosa assistenza tecnica è di Virgilio Piccardi
*** Per darvi un’idea di uno dei lavori che ha fatto il protagonista de La vita agra  per guadagnarsi il pane, leggete qui un estratto della sua esperienza di traduttore: «Più avanti, per esempio, lei mi traduce: Gli strinse la mano. Ebbene, l’inglese è più preciso, e dice infatti: He shook his hand, cioè egli strinse, ma più precisamente scossela sua mano, o se vuole, meglio ancora, egli scosse la mano di lui». Se non fosse tragico, ci sarebbe da sganasciarsi dal ridere. Non so se a voi è mai successo qualcosa di simile. A me, sì e il solo fatto di sentire raccontare una situazione così assurda con un’ironia che è sopravvissuta perfino alla fine del mese senza le sessanta lire per comprare una coppia di uova, ecco, questo solo fatto mi consola e riscalda la mia fiducia, più che nella vita, nella letteratura
**** Il mio blog ultimamente raccoglie solo la Newsletter, seppure con una settimana di décalage rispetto all’invio. Poco male, le cose si fanno da sole e questa cosa qui si sta facendo così