Biglietto n° 87: La Natura morta con fragole di Adriaen Coorte, 1705
De consolatione Favettae. Secondo me Gino stava dicendo delle castronerie.
(A Roma le chiamano in un altro modo).
Gino è il contadino del banco del mercato di Ponte Lungo dal quale vado quando Aldo, che è uno bizzarro, ha deciso di rimanere in campagna a sorvegliare qualcosa, in questa stagione le ciliegie.
Gino indossa sempre una mimetica, quindi si riconosce al volo, ed è uno cui piace tenere concione.
Al mercato a tanti piace tenere concione, è il posto perfetto per farsi ammirare dalla donne e quelli che hanno il banco al mercato sono molto bravi a gestirle, un po’ perché dalle donne dipende il loro commercio, un po’ perché gli uomini sono tutti vanitosi e la parte di gallo nel pollaio si attaglia loro alla perfezione.
Gino stava servendo, per una volta, un giovane avvocato che era prima di me e che del tutto sprovveduto se era un avvocato non doveva essere.
Ma che mi sembrava poco a suo agio con la spesa.
Gino quel giorno aveva sul banco delle fragole che io mai avrei acquistato: erano gigantesche, sembravano essere state colpite dalle radiazioni atomiche, facevano pensare a, sapete, quegli esseri narrati dalla mitologia, che so, Polifemo con un solo occhio o Argo, che di occhi ne ha cento.
Dei mostri, che solo nella mitologia si possono frequentare e che chiusi nella mitologia devono rimanere.
Le fragole secondo Gino: lui sosteneva che quelle giganti sono le più pregiate, che la pianta quando è giovane ed è a inizio stagione dà i frutti migliori e che poi, mano a mano, essi diventano sempre più piccoli, fino a quando non è finito il loro tempo e allora di fragole si riparla l’anno prossimo.
Il giovane avvocato ascoltava attento.
Io gli ho sussurrato che secondo me erano tutte fanfaluche (a Roma le chiamano in un altro modo) e che lui mangiando quelle fragole avrebbe subito una metamorfosi, gli sarebbe sparito un occhio, oppure gliene sarebbero spuntati altri novantotto.
Perché nel frattempo che Gino teneva concione, io avevo fatto amicizia con l’avvocato.
Alla fine quest’ultimo ha comprato due cestini di quella roba e io ho comprato altro.
Rientrata, ho guardato perché da un po’ le fragole hanno cambiato aspetto e hanno subito una mutazione genetica.
In internet trovi quasi tutto, dunque dopo poco ero diventata esperta.
In breve: i coltivatori di fragole si sono stufati di raccoglierle una per una perché, piccole come erano, il lavoro che davano era eccessivo.
Inoltre, quei frutti, morbidi e fragili (ma non era, questa, una delle loro bellezze?) nelle operazioni di trasporto si spiaccicavano facilmente.
La soluzione è stata trovata: fragole più grosse, e la fatica di tagliarle la fa chi le compra e, in surplus, una bella consistenza, frutti belli tosti, che se pure li metti sul fondo della busta della spesa, li ritrovi tali e quali a come ce li hai messi.
Il sapore, che c’entra il sapore.
Ed è stato così che una volta, presa da scoramento e quasi rassegnata perché non sapevo più che frutta mangiare, ho comprato al supermercato una confezione di fragole della Basilicata, varietà Sabrosa.
E in quella confezione ho fatto l’incontro con la vera, autentica, leggendaria fragola-cocomero: g 43.
Come da prova che vi mostro.
Ben mi sta, perché non avevo saputo attendere.
Le fragole infatti non si mangiano prima dell’ultimo mercoledì di maggio, che quest’anno è caduto il 31.
E chi lo dice.
Lo dicono quelli del college più prestigioso del Regno Unito, che proprio in quella data servono uno dei loro dessert più tipici.
L’Eton Mess è fatto di fragole e di meringhe sbriciolate ed evoca «a perfect summer’s day», con i suoi frutti maturi e arrivati alla loro pienezza.
Ho detto maturi e arrivati alla pienezza.
Col tempo e la pazienza è infatti arrivata nell’altro supermercato la Favetta.
Di origine francese, è coltivata nella zona di Terracina, nel Basso Lazio, fiorisce una sola volta nel corso dell’anno e dà un unico raccolto.
E, questa è la cosa più importante, è ancora buona come qualche tempo fa.
Una volta che telefonai in azienda perché le Favette che avevo comprato non sapevano di niente, la signorina si mortificò e mi disse che la pensava pure lei così, che le prime non si dovevano comprare, non erano ancora pronte, bisognava aspettare la pienezza della stagione.
Andate voi a dirlo a Gino.
E ora, per rendermi utile al di là della storia dell’arte e poiché tutti danno ricette e fotografano cibi nel piatto, mi allineo anch’io con la tendenza e vi propongo la mia Insalata di fragole.
Ingredienti
1 vaschetta di fragole da g 250
1/2 limone
1 cucchiaio raso di zucchero a velo
basilico
olio extra vergine di oliva
Tempo di preparazione: 10 min
Tempo di riposo: 15 min
Lavate le fragole e togliete loro il picciolo.
Tagliatele e mettetele in un’insalatiera, aggiungendo il succo del limone e lo zucchero.
Lasciatele macerare in frigorifero per 15 min.
Aggiungete l’olio e il basilico (io aggiungo spesso anche una macinata di pepe nero) e servitele come contorno o come dessert.
Semplice, rapida, leggera, la mia insalata toglie alle fragole quelli che secondo me sono nella loro lavorazione i più sgradevoli difetti: il troppo acido o il troppo dolce, che di solito derivano dalla necessità di coprire un sapore che va aggiustato.
La ricetta non è mia ma viene da uno dei miei libri di cucina, vi ho già detto che io in cucina non ho fantasia.
Ne ho però parecchia in altri campi, e vado a dimostrarvelo.
Biglietto n° 87: La Natura morta con fragole di Adriaen Coorte, 1705. La prima cosa da dire è che nessuno come i pittori olandesi del Seicento ha il gusto e il genio di produrre nature morte di tale qualità e quantità.
È che i Paesi Bassi hanno in questo periodo un’autentica devozione per il visibile e riflettono il loro amore per la cultura domestica, che tanto contrasta con l’atmosfera barocca di corte di altri Paesi.
Dell’artista del nostro biglietto di oggi sappiamo poco o niente.
Adriaen Coorte ha dipinto fra il 1683 e il 1707, probabilmente a Middelburg, provincia della Zelandia.
È uno specialista di nature morte e nella sua produzione, piuttosto ristretta, tornano costantemente alcuni motivi: un piano in pietra o marmo, sul quale sono appoggiate la frutta o la verdura; certe volte delle conchiglie; un fondo scuro; l’illuminazione che interessa solo la parte superiore del tavolo e che quindi ne fa risaltare i bordi; il formato piccolo; la semplicità della composizione.
Tanto basta.
Eppure, guardate che meraviglia.
Alcune delle fragole hanno ancora il picciolo, altre sono state già preparate.
Il fiore bianco a stella è quello che precede l’infruttescenza e forma qui un elemento verticale che svetta sul mucchio, diventando al contempo la memoria dello sviluppo della pianta.
Le due fragoline che pendono dal bordo della tavola scompigliano vivacemente la formazione e sono il tocco personale dell’artista, che non a caso firma e data l’opera subito dopo, a destra.
Le dimensioni del dipinto, 16,5 x 14 cm, fanno di esso una specie di gioiello, mi viene da pensare che quelle di Coorte siano l’opposto delle fragole-monumento di Gino.
Qui noi assistiamo a una messa in scena che ha una qualità magica e, soprattutto, vediamo dispiegata una delle virtù più eminenti dell’arte, quella di snaturare in senso alto ciò che abbiamo sotto gli occhi e di mostrarcelo, letteralmente, sotto un’altra luce.
L’operina è un olio su carta applicata su pannello, tecnica poco frequente in quel periodo.
L’artista avrebbe ispirato i colleghi del secolo XIX e voglio qui ricordarvi, finché siamo in stagione, i suoi asparagi.
Che Edouard Manet avrebbe ripreso magistralmente con il suo Mazzo del 1880.
E da questa aperta citazione e dalla generosità dell’artista francese sarebbe scaturita anche l’invenzione straordinaria del suo unico e solitario Asparago, offerto come bonus all’acquirente, il collezionista Charles Ephrussi, con un biglietto sul quale c’era scritto: «Ne mancava uno, al vostro mazzo».
Piccolo, più piccolo di un foglio A4, il dipinto di Manet è una raffinata sinfonia di bianchi striati di verde e di violetto e dimostra come il grande artista tragga ispirazione da tutto, anche da una produzione di stagione, dunque transeunte, che riempie i banchi del mercato e che lui, trasformata che l’ha in arte, insuffla nella nostra vita.
Fragoleide. Un po’ come l’Eneide di Virgilio, che racconta di Enea, o la Tebaide di Stazio, che narra la guerra che si combatté sotto le mura di Tebe.
Loro hanno i loro eroi, noi, le nostre fragole.
State bene e fate cose belle.
E mangiate fragole finché ce ne stanno.
Ogni frutto di stagione è una grande metafora di ciò che ci passa davanti e che dobbiamo saper cogliere, stavolta è proprio il caso di dirlo, a tempo.
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