Seratine. Finalmente un film.
Un film vero, per prima cosa lungo, 144 minuti, che poi significa che ti devi organizzare un vassoio con la cena e se lo fai dopo un po’ più di un’ora dall’inizio, va bene.
Però va ancora meglio se prima ti sei aperto una bottiglia, tutti nel film bevono e bevono continuamente, fra l’altro in bicchieri bellissimi, quindi conviene che ti apri la bottiglia giusta e che la servi nei giusti bicchieri.
E tutti nel film mangiano, in locali diversi, che salgono e scendono di tono, insomma, conviene che mangi pure tu e pure se lo fai nel tuo stile, non ti senti fuori dalla storia.
Anzi.
Illusioni perdute è un film bellissimo.
Appena partono i titoli di testa, ci caschi dentro e ne esci un momento solo per il vassoio, poi finisce che non ne esci più perché il film ormai ti abita.
Xavier Giannoli è un regista giovane.
Non ho detto che è un giovane regista, che significa una cosa diversa, lui ha compiuto da poco cinquant’anni, età che oggi è di pienezza e di progetti.
Xavier Giannoli è bravissimo.
Ed è pure coraggioso, perché ha tirato fuori la sua sceneggiatura dal romanzo di Balzac, che, nella mia edizione, conta 618 pagine e pesa g 825.
Non me lo porto in viaggio, però me lo porto dal parrucchiere, ché certe volte capita di aspettare e allora è meglio se non butto via tutto quel tempo.
Illusioni perdute racconta il destino di due amici, lo stampatore David Séchard e il poeta Lucien de Rubempré.
Il primo resterà in provincia ad Angoulême, l’altro partirà per Parigi alla ricerca della gloria.
Ci muoviamo dall’Ovest all’Est della Francia e siamo più o meno nel 1820.
E siamo di fronte a qualcosa che è più di un romanzo, perché di romanzi ne contiene molti, diciamo che è un affresco nel quale trovano posto gli usi e i costumi della provincia, così diversi da quelli della grande città; e poi il lirismo dell’arte e della speranza; e i diversi saperi; e l’esemplare analisi storica di un’epoca in bilico fra cinismo e malinconia; e infinite narrazioni delle cose e di come le cose funzionano e anche narrazioni degli ambienti; e poi il talento e poi l’ambizione.
Nel film gli attori sono perfetti, tutti hanno la faccia giusta, e sono tutte facce autentiche, nemmeno un puppo di rappresentanza.
Il protagonista è il giovane amante ardente e all’inizio goffo con cui qualunque donna, più o meno annoiata, si intratterrebbe volentieri.
Benjamin Voisin nel volto ha anche qualche irregolarità, da cui trae espressività maggiore.
Disegna un giovane poeta orgoglioso e ardente, che alla fine perderà le sue illusioni.
Però, nel frattempo.
Il regista conosce e frequenta la storia dell’arte, cosa che ai miei occhi lo rende irresistibile.
Quando Lucien arriva a Parigi e ha la sua prima sera mondana all’Opéra, si rende conto che non può apparire «fagoté» come è e decide di andare ad acquistare quello che gli serve, cosa che assorbirà tutto il suo capitale.
Chiama pure il coiffeur e alle sette di sera monta su un fiacre «frisé come un saint Jean de procession».
«Arricciato come un san Giovanni da processione» appare a noi anche il pittore François Marius Granet, che viene ritratto da Ingres in termini appassionati e romantici con la cartella dei disegni e Villa Medici, a Roma, sullo sfondo.
La pettinatura ha il medesimo umore di quella del giovane poeta provinciale, anche se l’effetto è un po’ diverso.
Louise, la mecenate, ha il viso di Cécile de France, stropicciato quel minimo che basta per differenziarsi da certe pupattole che si vedono in giro.
Del resto l’attrice è protagonista del primo episodio della gran bella serie Dix pour cent, quella che da noi si intitola Chiami il mio agente!, e tutta la narrazione è concentrata sul suo rifiuto di farsi stirare i lineamenti, anche a fronte di un super ingaggio in una super produzione hollywoodiana.
Comunque quello davanti al quale uno è autorizzato a saltare sulla poltrona e a esclamare qualcosa che sta fra la miseria! e caspita! e perbacco!, qui dipende dal carattere, dall’educazione e dal momento, è Dauriat.
Editore alla moda, proprietario di riviste, mercante di libri e, ciò che più conta, anche se evidentemente conta poco o niente, analfabeta, quindi incapace di leggere e di scrivere, l’uomo ha la sua bottega fra quelle di Palais Royal, fra ristoranti, caffè e, come abbiamo imparato (v. Newsletter #139, Spaesamenti), vetrine di dispensatrici di amore a pagamento.
E da chi è interpretato questo personaggio.
Bravi, da lui.
Gérard Depardieu (v. Newsletter #136, Il re della tavola), e da chi altri.
Uno lo vede e pensa subito al Ritratto di Louis François Bertin, giornalista, ancora una volta di Ingres.
Perché, secondo voi è casuale che la foto di copertina dell’autobiografia dell’attore, che si intitola Ça s’est fait comme ça, che traduco con È andata come è andata, lo mostri esattamente nella medesima posizione del soggetto del ritratto?
Forse gli uomini corpulenti e prepotenti si siedono tutti nello stesso modo.
O forse no.
E per chiudere. Nel film c’è tutta un’analisi di come vanno le cose nell’editoria, dove la letteratura non interessa a nessuno, dove tutti ricattano tutti e dove i giornali sono concentrati solo su diatribe fra fronti opposti, dove l’unica cosa che conta è la polemica.
Praticamente dice la medesima cosa un giovane giornalista, non un giornalista giovane, che significa una cosa diversa, e sto parlando di Stefano Feltri, che in una Newsletter dedicata analizza i motivi per cui la politica oggi è spiegata così male: perché è spiegata a chi la politica la fa e non a chi della politica pensa che essa serva, appunto, a fare politica.
La polemica sopra a tutto.
Se ogni tanto lo pensate pure voi, io lo penso ogni cinque minuti, sappiate che già ci aveva pensato Honoré de Balzac, scrittore, vissuto da Tour a Parigi fra il 1799 e il 1850, che vi presento in un dagherrotipo, ovvero in un procedimento fotografico iniziale, d’epoca.
Egli inalberava una criniera leonina e andava a spasso con un bastone di cm 18 di diametro, pesava kg 90 per m 1,59 di altezza e faceva pensare a un cavernicolo con la clava.
E scriveva con una potenza tale da evocare una forza della natura.
Racconta infatti Cécile Guilbert nel suo bel libro Ecrits stupéfiants, dedicato al rapporto fra droga e letteratura, che Balzac all’inizio fu molto interessato all’oppio, ma che difficilmente partecipò alle riunioni del Club des Haschischins, frequentate invece assiduamente da Baudelaire, perché secondo lui, come scrisse in una lettera alla sua amante, la contessa Hanska, «il vero scrittore non ha bisogno che dei suoi sogni naturali e non vuole vedere i suoi pensieri influenzati da un agente esteriore, qualunque sia».
Se volevate avere una qualche idea di che cosa è un letterato, al quale mi chiedo se GPT3 sia capace di rifare il verso, eccovi accontentati.
Biglietto n° 84: il Monumento a Balzac di Auguste Rodin, 1897. Per cominciare, un’immagine.
La didascalia nel saggio recita La battaglia di Auguste Rodin per Balzac.
Il tono è dato.
La statua fu presentata nel 1898 al Salon de la Nationale, dove essa fu contestata clamorosamente da gran parte della critica e rifiutata dal committente, la Société des Gens de Lettres.
Eppure il suo autore la considerava «il risultato di tutta la vita, il pivot medesimo della sua esistenza» e per realizzarla aveva condotto un’accurata ricerca documentaria e iconografica, fatto decine di studi del corpo nudo e vestito, della testa e del drappeggio, spingendosi fino in Turenna, dove Balzac era nato, per studiare i tipi fisici del posto.
In questo processo creativo lungo e complesso Rodin abbandona mano a mano ogni intenzione di verosimiglianza e arriva a inserirsi nella tradizione della rappresentazione monumentale dei grandi uomini, sabotandola.
Ciò che lui rappresenta non è una persona fisica, bensì «la forza creatrice dello scrittore visionario».
Del resto Balzac in 20 anni di carriera ha prodotto 175 volumi, di cui 91 sono romanzi, ha dato vita a 2.472 personaggi, ha vissuto una vita dispendiosa e irrealistica, ha manifestato un desiderio continuo di fasto, posseduto un sapere immenso, tradotto Spinoza, conquistato una quantità indefinibile di donne, indagato tutto quello che nella vita si può indagare, amore, morte, Dio, giustizia, relazioni umane, il Bene e il Male e tutto il resto che vi viene in mente.
Più forza creatrice di così.
Il Balzac di Rodin esiste in quattro versioni, nessuna delle quali è stata licenziata dall’autore, che dopo cinque anni di lavoro e di frustrazioni decide di tenere per sé il modello in gesso, riparandolo nella sua casa di Meudon, a pochi chilometri da Parigi.
Vedete la fusione in bronzo posta solo nel 1939 sul boulevard Raspail nell’immagine di apertura.
Un’altra versione è nel Musée Rodin, in giardino.
Spostato indietro, la testa altera girata, il corpo avvolto in un’ampia veste da camera, lo sguardo che non lascia scampo, il Balzac di Rodin è il frutto di una rivoluzione estetica, la «personificazione di un’astrazione», è una sagoma priva di attributi, di accessori, di senso allegorico.
E ancora, è una forma fallica, memore di alcuni degli studi preparatori nei quali la mano destra dello scrittore impugna il pene esposto.
Quando Edward Steichen va a Parigi è il 1900 e lui è un giovane fotografo americano.
Lui è un giovane fotografo e non un fotografo giovane perché ha ventidue anni.
Steichen visita la mostra che Rodin ha organizzato a Place de l’Alma e rimane molto impressionato dal modello in gesso del Balzac, ma non osa avvicinare lo scultore, che era lì.
I due saranno presentati da un conoscente comune l’anno successivo e Rodin stima talmente Steichen da ospitarlo per circa un anno nel suo atelier di Meudon.
È lì che Steichen realizza i ritratti leggendari dell’artista e una campagna fotografica del modello in gesso che ne coglie in pieno la potenza.
Vi propongo lo scatto che si intitola Balzac Towards the Light, Midnight.
Per Steichen l’opera dalla genesi così tormentata è «l’incarnazione del tributo al genio. Sembra una montagna che abbia preso vita».
Rainer Maria Rilke, che fu segretario di Rodin e pure visse nell’atelier di Meudon, scrisse che il monumento era «la creazione nella sua arroganza, nel suo orgoglio, nella sua griserie», che è l’eccitazione che si prova nei primi momenti dell’ubriacatura.
La statua è la creazione nella sua piena ubriacatura.
C’è una foto famosa di Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir davanti alla statua al boulevard Raspail.
Due giovani scrittori vicini a uno scrittore immenso diventano un viatico per chiunque ami la scrittura.
Vi dico pure che la casa di Balzac a Passy, un pavillon da giardino di quelli che in inglese si chiamano folly, è la mia casa di letterato prediletta.
Essa sa di vita quando tutte le altre sanno di morte.
Per finire, mi viene in mente che Gérard Depardieu ha anche interpretato Auguste Rodin nel film Camille Claudel del 1988.
Come sempre, tutto si tiene.
L’attore è un po’ cambiato, lo vedo pure io.
Che gli è successo.
Come che gli è successo.
Gli è successa la vita, no?
Le Notizie, 2. Vi informo inoltre che ho riempito tutti i gusti dei Sorbetti fino alla fine del gennaio 2024, che è un po’ come aver completato l’album delle figurine.
Impresa non facile ai tempi in cui gli album di figurine li facevo io, perché, se tutto andava bene, ricevevi in dono un pacchetto striminzito solo se te lo meritavi e troppo dovevi aspettare per quello successivo, non come certi ragazzini che conosco che finiscono l’album in due giorni perché di pacchetti ne ricevono a mucchi.
Insomma, questo per dirvi che vado orgogliosa dell’impresa.
Anche per gli ultimi gusti aggiunti, Sorbetto astrologico 1 op. 156 e 2 op. 157, che a dicembre ci stanno proprio bene e che prendono ispirazione da un account di cucina esilarante quando non parla di cucina, di cui vi dirò a tempo e luogo opportuni, proponendovi qui un esempio che riguarda le polpette.
Scelgo il mio segno, così non si offende nessuno.
Ché poi quello che dice l’astrologia delle persone è sempre vero e vi sfido a dimostrare che gli Arieti non sono quella cosa lì che mostrano di essere al cospetto delle polpette.
Tutte le notizie su tutte le pagine complete del mio album di figurine, scusate, tutti i gusti dei Sorbetti, pronti fino a dove sono pronti, qui.
State bene e fate cose belle.
E coltivate le vostre illusioni, pure se rischiate di perderle.
Sto da sempre dalla parte dei delusi, che almeno le illusioni ce le hanno avute.
E se fate le polpette, raccontatemi il vostro stile.
Le polpette mi piacciono tantissimo e sono sempre buone, come vengono, vengono.
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**** L’illustrazione di apertura, le Pupazzine e i Sorbetti sono di Lorenzo Rocco
***** L’assistenza tecnica è di Virgilio Piccardi