Juan Sánchez Cotán, Natura morta con cardo e carote, 1603

La perfezione è di questo mondo. Non è un toc.
Non è un tic.
Non è finita lì.
«…a elBulli ci sono idee particolari su come una carota dovrebbe essere tagliata. Eugeni (De Diego) lo dimostra, prima pelando la carota, poi allineando la pelle (la buccia) scartata in pile ordinate. Taglia le estremità di ogni carota, poi l’affetta per lungo sulla lama di una mandolina. Quando ha fette perfette, le taglia in bastoncini e poi ancora nei piccoli cubi che la brunoise richiede. Dà colpetti al mucchio di carote – ventiquattro libbre (dodici chili) – e fa segno agli stagisti di mettersi ai lati della tavola centrale. “Per una sola persona, ci vorrebbero dieci ore per farlo”, dice. “Ma con voi tutti, si fa in dieci minuti”».


Le cose non stanno del tutto così, visto che dopo circa due ore da che hanno cominciato, Ralph, Begoña, e altri tredici stanno ancora tagliando le carote in piccoli cubi.
«Eugeni passa di tanto in tanto a ispezionare il lavoro, scuotendo la testa con sgomento. “Questo”, dice, pescando in un contenitore di plastica che a elBulli è chiamato taper (un’abbreviazione e una resa fonetica approssimativa di Tupperware), “non ha niente a che fare con quest’altro”. A un esterno, può sembrare sciocco dedicare cinquanta ore di forza lavoro umana a un elemento di un piatto che non deve essere nemmeno servito ai clienti del ristorante».
Importa davvero che ciascun cubetto di carota abbia il medesimo formato, quando poi tutti i cubetti vanno cotti in un sugo, che poi mangerà lo staff?
Importa.
Il motivo non è pertinente solo alle carote ma a tutto il resto, come si asciugano le mani, come si arrotola una tovaglia (sempre da destra a sinistra), dove si mette l’etichetta su un contenitore.
«Non è che il modo in cui queste cose sono fatte sia necessariamente il migliore o il più logico; è che le cose sono fatte e che a esse si presta attenzione».
Ferran Adrià e i suoi collaboratori non sono dei despoti, almeno non nel senso tradizionale del termine, né sono posseduti dall’ossessione di controllare ogni aspetto della vita de elBulli (e poi, perché no).
Essi cercano piuttosto di creare un ambiente nel quale c’è il modo corretto per portare a compimento anche il più umile compito.
Perché poi trasferisci questo medesimo schema mentale su ciò che è importante, perché ciò ti aiuta «a garantire che i bastoncini di zucchero di canna del mojito siano tutti della medesima lunghezza, che le gocce di aceto fatte cadere sull’erba ostrica siano equidistanti una dall’altra, e che le sottili linee dello shizo ghiacciato e trasformato in polvere che decorano i nenúfares siano tutte fuori dal centro e verso il bordo del piatto»
È il passo del danzatore studiato al millimetro.
È la sequenza dei punti uno uguale all’altro dati dal grande sarto.
È il portiere della squadra avversaria infilzato dal numero 10 proprio nell’angolino in alto a sinistra con un pallone imprendibile.
È alta cucina
È pura arte.
Intanto vi faccio vedere i nenúfares (le ninfee) de el Bulli.

Nenúfares de elBulli

Poi i mazzi di carote sul banco di Aldo al mercato di Ponte Lungo.
Lui prima faceva l’odontotecnico, poi si è messo a coltivare la terra e ora è più contento.

 

Le carote di Aldo a Ponte Lungo

Poi vi do i compiti a casa e vi mostro come si tagliano le carote e qual è il nome dei diversi risultati.

Tagli delle carote

(La brunoise è nella fila centrale a destra).

Poi vi riferisco una delle regole d’oro del ristorante più famoso del mondo: «senza aver chiesto prima, non buttare niente, nemmeno le bucce (la pelle) della carota».
Poi vi dico che ho comprato un mazzo di carote da Aldo e che mi sto esercitando a tagliarle.
Sono decisamente più scarsa dei giovani chef che fanno lo stage a elBulli (v. Newsletter #138), però sono una donna piena di buona volontà.
E poi mi applico.

Biglietto n° 83: Natura morta con cardo e carote di Juan Diego Sánchez Cotán, 1603. La sua sobrietà è proverbiale.
«La verità è che vivo con poco e non ho nemmeno bisogno di una macchina. L’unico lusso che mi concedo è andare al ristorante e fare qualche viaggio. Per il resto sono austero. Quello che è indispensabile, ce l’ho: un frigorifero, una cucina, del cibo».

Ferran Adrià

Ferran Adrià, che oggi si veste di nero perché per tanti anni si è vestito di bianco, rimane uno chef stellato anche se ha chiuso il suo ristorante, trasformandolo nella elBullifoundation.
La sua filosofia di vita è invidiabile e encomiabile, lui dà la sensazione di un uomo pienamente realizzato, intellettualmente complesso, che ha usato il cibo per ragionare sulle cose e per raccontare ciò che ha imparato dalla sua esperienza: «Avevo ben chiaro che a elBulli dovevamo essere più puri possibile…il denaro era importante per salvaguardare la nostra libertà. L’unico interesse del denaro sta nella facoltà di essere liberi».
Che ventata di aria fresca.
Un uomo così ci porta dritti dritti all’autore del nostro biglietto di oggi, anche se lui è catalano e l’altro, castigliano.
Juan Sánchez Cotán nasce infatti non lontano da Toledo nel 1560 ed è il primo fra gli artisti spagnoli a dedicarsi a quel genere di pittura che da noi si chiama natura morta e da loro bodegón (v. Sorbetti opp. 60, 61 e 62).
Esso consiste in soggetti dai quali l’uomo è assente e solo le cose compaiono, presenze vive in un mondo che guardiamo dall’esterno.
I bodegónes di Sánchez Cotán sono fra i più sobri, asciutti e disincarnati che vi capiterà di vedere.
Essi allineano su un ripiano o uno scaffale frutta e verdura disposte con precisione geometrica.
Lo sfondo di solito è scuro.
Dunque, la composizione del nostro biglietto di oggi è altamente rappresentativa.
E poi accanto al cardo ci sono quattro carote.
Quanto al cardo, se io lo avessi incontrato così com’è in un tête-à-tête, vi dico che mai mi sarebbe venuto in mente di considerarlo commestibile.
Duro, spinoso, impiega, se basta, un’ora a cuocere, richiede un’arte di pulitura non semplice, togli le foglie, tagliale a una certa altezza, spella i gambi, ti fanno le mani nere, riduci tutto in parti lunghe una decina di centimetri, butta le fette in acqua e limone perché altrimenti si ossidano.
Insomma, il cardo, che è un cugino del carciofo, ha un carattere ancora più brutto, sembra una fortezza inespugnabile e non escludo che nel dipinto di Sánchez Cotán ci sia pure questo cammino verso la conquista.
Spirituale, ve lo dico subito, visto che l’autore a quarantatré anni cambia vita e entra nella certosa di Granada come converso, ovvero come fratello laico. Nella certosa ci stanno i certosini e si dice pazienza certosina, no?, secondo me quando devi mondare un cardo o trasformare quattro carote in brunoise.
Insomma, fra la realizzazione di questa natura morta e uno stage a elBulli c’è poca differenza.
In entrambi i casi si dedica un’attenzione totale e accurata a ogni dettaglio, si sfiora l’ascesi, mi viene in mente che non solo i mistici sono mistici, ma pure gli chef non scherzano.
Sánchez Cotán lavora cardo e carote come ritratti, li dispone in un solo piano parallelo allo sguardo dello spettatore, indaga la loro forma, li investe di luce, la sua tecnica ci restituisce un’impressione tattile, sentiamo la pelle, davanti all’umiltà che diventa meraviglia siamo colmati di una sensazione di religiosità, ci stupiamo di tutto quello che ha saputo creare il Padreterno, pure le carote, pure i cardi.
Non so a voi, ma a me non sarebbe mai venuto in mente.
Quanto a lui, Sánchez Cotán dovette vivere con un certo agio, o forse si accontentava.
Comunque sappiamo che prestava denaro e nell’inventario dei suoi beni furono trovati anche un’arpa e una viella, una specie di liuto, che sono il segno della sua pratica musicale, dunque, della sua cultura.
E non escluderei che proprio la musica abbia impresso il suo ritmo a questi bodegónes, che hanno una loro cadenza, un loro passo e che si aprono davanti a noi con il respiro delle cose grandi, quelle che ti riempiono e ti consolano.
Dall’austerità di Sánchez Cotán deriva quella di Francisco Zurbarán, c’era da aspettarselo.
Perché c’è una logica nelle cose, perché da un artista nasce un altro artista e se dagli artisti nasce un grande chef, è perché anche la cucina a certi livelli è arte.
E per raggiungere quei livelli si comincia dal basso, come fanno quelli con le carote.
E poi ci si applica.

State bene e fate cose belle.
Cose come vi pare: precise, accurate, illuminate dalla luce giusta, esauste e sfinite oppure forti e gagliarde.
Comunque cose fatte bene.
E esercitatevi con la brunoise, è un bell’esercizio, perché la vita è difficile, lo dice Ferran Adrià e lo sappiamo tutti.
E nella pulitura della carota, così come nella più grande delle imprese esistenziali, avere un metodo, dunque una guida sicura, certo non ti risolve le cose, però ti aiuta, eccome.


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