Relazioni. Ogni volta che entro nell’Happy Bar di Andrea in via Tuscolana lui mi accoglie con un «Ecco la barista per caso».
Io preferisco definirmi in un altro modo, che poi vi dico.
Il fatto è che contraggo continuamente debiti di riconoscenza con alcuni titolari di attività cosiddette commerciali vicino a casa mia.
La signora Anna della lavanderia dove porto a stirare le lenzuola e i ragazzi del garage in primo luogo, che, tutti, mi usano infinite cortesie, dal non farmi pagare il piumino che porto a gonfiare dopo averlo lavato in lavatrice, la prima, al prendermi i pacchi, gli altri.
Cerco di sdebitarmi come posso, di solito proponendo quelli che chiamo generi di conforto, caffè, merende, aperitivi, patatine, Coca-Cola.
Questo è un esempio di un vassoio con tre merende, se manca un caffè, è solo perché Glenn il Filippino, il miglior stiratore di Roma, mi ha detto che non voleva niente e io gli ho preso comunque un dolcetto, che ha divorato in due bocconi.
Quindi, gli è giunto gradito.
Andrea mi ha raccontato che quando ha il vassoio in mano, è come se avesse un lasciapassare, io non ci avevo mai pensato, ma è vero che con quel viatico entri dappertutto, caveau delle banche, riunioni private, retrobottega del negozio che compra l’oro.
La prima volta lui mi ha detto che avrebbe mandato Rosa col vassoio e lì io ho detto no e poi no, la parte di Rosa la interpreto io, certo, devo stare un po’ attenta a non far cadere tutto, però imparo.
Salgo i tre gradini della lavanderia e dico «Ecco la ragazza del bar».
Ho spiegato che il solo fatto di arrivare col vassoio mi toglie diciamo trent’anni, cosa che a una donna fa sempre comodo.
Medesimo rituale al garage, dove preferisco offrire patatine e aperitivi, che prendo in un altro bar poco distante perché mi sta più comodo.
Però pure lì i bicchieri li porta la ragazza del bar.
Al garage, da quando è scoppiata la pandemia lavorano i due figli di uno dei titolari, giovanissimi, hanno cominciato che avevano venti e ventidue anni.
Non si somigliano affatto, fra loro si definiscono colleghi, sono di una disponibilità e di una simpatia che incantano.
Io ho rapporti diversi con l’uno e con l’altro, però mi faccio raccontare invariabilmente da entrambi come va il sabato, quando fanno un turno lunghissimo, che attacca alle quattro del pomeriggio e finisce alle otto del mattino successivo.
Passate le nove di sera, è il vuoto assoluto.
Uno di loro, nel gabbiotto.
I clienti tutti fuori fino a tardi.
Allora mi è venuto in mente sai che ti dico, scendo e ci facciamo una partita a carte.
L’idea è piaciuta.
Sono rientrata, mi sono arrampicata con la scala piccoletta fino all’ultimo ripiano dell’armadio dei vetri, dove ho sistemato i giochi e, come ricordavo, lì c’era un mazzo di carte napoletane.
In condizioni perfette, chissà se qualcuno ci ha mai giocato.
Per fare esercizio, ho guardato dei video di solitari e ne ho provati alcuni.
Nel solitario vinci se esso riesce.
Una giovane donna che fa dei video molto artigianali ma che spiega bene dice che il solitario serve a passare il tempo, ma è probabile che esso abbia anche altre funzioni.
Non a caso questo gioco è un soggetto amato dagli artisti, che sono evidentemente affascinati dalla carte e dalle possibilità che le loro combinazioni offrono.
Questo è l’americano Frank Weston Benson con il suo Girl Playing a Solitaire, 1909.
E vi propongo anche Nickolas Muray, il fotografo e amico di Frida Kahlo, forse anche il suo amante, in uno scatto del 1950, Woman in a Cell Playing Solitaire.
Il più grande dei ragazzi mi ha detto che possiamo pure giocare a poker.
Io avrò giocato a poker tre volte in vita mia, però posso rinfrescarmi la memoria.
Inoltre, nel mazzo di carte napoletane non c’è nemmeno una donna, le uniche figure animate sono il fante, il cavallo e il re.
Almeno le carte francesi, che servono per il poker, hanno una presenza femminile e si tratta nientemeno che di una regina.
L’autunno si annuncia pieno di incontri e di rischi.
Da un forum (l’autore, anonimo, si firma Solitario). «Io sono, di natura, un giocatore di poker.
Mi piace lo scontro di intelligenze, il rischio e, perché no? L’azzardo.
Ho una nostalgia enorme di quell’assoluto silenzio rotto solo dalle puntate, quel tavolo verde con i vari mucchietti di gettoni colorati, quell’atmosfera resa irrespirabile dal fumo…
E quelle cinque carte…
E allora, mi direte, perché non giochi e stai qui a romperci i cosiddetti?
È facile a dirsi.
Primo: ora siamo tutti buoni ed è immensamente riprovevole tentare di togliere soldi agli amici.
Secondo: non fuma più nessuno, il fumo dà fastidio ed è impensabile che ci si possa sedere ad un tavolo di poker senza il supporto morale di una buona sigaretta.
…
Allora ci si vede con gli amici e si gioca a burraco!
Spesso si cena pure, ma velocemente per poter riprendere il “torneo”.
Un’altra cosa che mi piaceva era appunto stare a tavola con gli amici a mangiare scherzare e chiacchierare bevendo un buon bicchiere di vino. Dopo cena rimanere ancora a tavola chiacchierando, bevendo e fumando…
Macché. Io non ho capito se i nostri amici sono troppo vecchi, troppo malati o troppo cacasotto.
Uno mangia senza sale, uno senza zucchero, un altro è vegetariano, un altro ancora è a dieta.
A tavola, in dodici persone, non si riesce a finire una bottiglia di vino. Eppure, più di metà la bevo io.
E non è finita: per fumare una sigaretta devo andarmene fuori al balcone invece di farlo spaparanzato a tavola come sarebbe giusto e naturale.
Mica voglio uccidere i miei amici con il fumo passivo?
E quindi, come vi dicevo, si mangia velocemente e si torna al burraco.
Il burraco. Il gioco più cretino del mondo!
O forse no. Un gioco intelligente per cretini.
Bisogna solo stare attenti ed aspettare che arrivi la carta giusta.
Ma dovreste vedere come si impegnano i miei amici: pensano e ripensano, studiano e ristudiano, ci manca solo che, prima di scartare una carta, consultino l’oracolo.
Io, naturalmente, perdo sempre: non mi applico, mi distraggo o, forse, non sono abbastanza cretino».
Intermezzo, 1
Sulla tovaglia piena di briciole
avete risolto tutto in famiglia
giocando a poker coi borlotti
mentre io sul panno verde
lustravo la madreperla
di fiches leggendarie
come il mio amore
Michele Mari, Cento poesie d’amore a Ladyhawke, 2007
Biglietto n° 51: I Bari di Caravaggio, 1594. Voi mi dovete credere: la piuma rosa sul berretto del ragazzo sulla destra si muoveva.
Come, si muoveva, al chiuso, senza un filo d’aria.
Vi dico che si muoveva.
E inoltre, ma come è possibile che in un dipinto fatto solo di pittura ci sia qualcosa che si muove.
Eppure quella piuma si muoveva.
Alla mostra di Georges de la Tour al Grand Palais avevano fatto le cose in grande: accanto al Baro con l’asso di quadri (v. oltre) del maestro lorenese, c’era l’opera di riferimento, la protagonista del nostro biglietto di oggi.
Le Tricheur à l’as de carreau (Il baro con l’asso di quadri) è al Louvre, però il Kimbell Art Museum ne possiede una versione con un asso di fiori.
Questo a prova delle innumerevoli interpretazioni che dettero del tema caravaggesco artisti di tutta Europa, fra i quali de la Tour si distingue per singolarità e maestria.
Caravaggio è lombardo di nascita e di formazione e quando arriva a Roma, nei primi anni ’90 del Cinquecento, ha dalla sua un talento formidabile e un carattere difficile: «…quando ha lavorato quindici giorni, si dà al bel tempo per un mese. Spada al fianco e un paggio dietro di sé, si porta da un campo di gioco all’altro sempre pronto a rissare e ad azzuffarsi, tanto che non è comodo accompagnarsi con lui».
Prima, però, di finire nei guai, e saranno guai seri, nientemeno che un assassinio, una specie di accoltellamento di quelli che accadono fra tifosi rivali allo stadio, l’artista fa in tempo a lasciare senza fiato la città.
La pallacorda, le donne, l’osteria, «la testa fasciata dal vino dei Castelli, gli schiamazzi notturni, il porto d’armi dimenticato, le parolacce alla polizia, i giorni di carcere, gl’incontri più o meno bruschi coi rivali, le sassate alle gelosie dell’affittacamere…».
Questo è Roberto Longhi, e chi altri.
Ogni volta che mi confronto con Caravaggio, mi devo pure confrontare col più grande storico dell’arte italiano di ogni tempo, certo che ce ne vuole, di coraggio.
Ma, stavamo dicendo.
I Bari sono un capolavoro giovanile, che riscuote l’attenzione del cardinale Francesco Maria del Monte, che non solo acquista la tela, ma alloggia pure l’autore nel suo palazzo.
Caravaggio viene così introdotto nell’élite ecclesiastica, che gli dà l’opportunità di lavorare su larga scala e per un pubblico più ampio.
Nei Bari i giocatori sono impegnati nella primiera, antenata del poker, nata alla fine del Quattrocento e per secoli molto popolare in Europa.
La vittima designata è il ragazzo a sinistra, assorto nelle sue carte, che non si rende conto che il più anziano dei bari sta segnalando al compare i punti che lui ha in mano.
Il guanto che indossa l’uomo in piedi lascia vedere la punta delle dita, perché la comunicazione sia più chiara.
Come se non bastasse, il baro più giovane tira fuori dai pantaloni la carta che gli serve.
Sulla sinistra c’è una tavola da backgammon.
Caravaggio non indulge a una narrazione caricaturale che metta in evidenza il vizio, non è da lui.
Lui è sempre compatto, sintetico.
Nella bellissima mostra del quarto centenario della sua morte alle Scuderie del Quirinale, a un certo punto mi colavano lacrime talmente copiose che dovetti andare in bagno a darmi una ripulita.
Non vedevo più niente, ma avevo capito che la drammaticità dei suoi dipinti derivava esattamente dalla sua capacità di raccontare la meccanica, di un Ecce homo, di una flagellazione, senza alcuna sbavatura, colpendo al cuore l’argomento, con un colpo secco che non lasciava scampo.
Grandezza del più grande fra i grandi.
Nei Bari è evidente che la narrazione ha lo scopo di evocare gli inganni nei quali incorre la giovinezza e la perdita dell’innocenza, il tutto con un approfondimento della psicologia dei personaggi che, se solo ci mettiamo un attimo a guardarli, ci dicono tutto di sé.
Come vedete, lo sfondo della tela è ancora chiaro, memore della formazione nordica dell’artista.
Fra poco arriveranno le tenebre con le sciabolate di luce sue tipiche e allora davvero non avremo più via di uscita, la sua fascinazione sarà totale.
I Bari, acquistati dal Kimbell Art Museum di Forth Worth nel Texas da un privato, arrivano a noi in un ottimo stato di conservazione, perfino il vermiglio dei semi di cuori è intatto.
Per non parlare dell’impronta delle dita del maestro, visibile qui e là, in particolare sul broccato di seta che abbiglia il baro in primo piano, che si è vista con gli infrarossi e che ci dice come lui abbia lavorato, direi, impastato la pittura finché essa era fresca.
Un rapporto intensamente fisico, non ho bisogno di farvi paragoni.
Come promesso, ecco il dipinto di Georges de la Tour vicino al quale stava il nostro Caravaggio.
Le Tricheur à l’as de carreau (Il baro con l’asso di quadri) è al Louvre, però il Kimbell Art Museum ne possiede una versione con un asso di fiori.
Questo a prova delle innumerevoli interpretazioni che dettero del tema caravaggesco artisti di tutta Europa, fra i quali de la Tour si distingue per singolarità e maestria.
Intermezzo, 2
Perché nell’ora decisiva
non mi avete chiamato al vostro tavolo
perché avete giocato a poker in due
dandomi le carte del morto?
Michele Mari, Cento poesie d’amore a Ladyhawke, 2007
Intermezzo, 3
Alfredo
Un quattro!
Gastone
Ancora hai vinto!
Alfredo (Punta e vince.)
Sfortuna nell’amore
Vale fortuna al giuoco!…
Tutti
È sempre vincitore!…
Alfredo
Oh, vincerò stasera; e l’oro guadagnato
Poscia a goder tra’ campi ritornerò beato.
Flora
Solo?
Alfredo
No, no, con tale che vi fu meco ancor,
Poi mi sfuggia…
Violetta
(Mio Dio!…)
Giuseppe Verdi/Francesco Maria Piave, La Traviata, 1853, Atto secondo, SCENA DODICESIMA
State bene e affrontate con animo saldo i rischi.
Nella vita, senza un po’ di alea, sai che noia.
E leggete poesia: perché i poeti, loro sì, sono capaci di rigirare la nostra visione del mondo, di aprire infinite finestre su orizzonti di cui mai avremmo sospettato l’esistenza e pure di farci riflettere come mai ci era capitato su tutto.
Pure sul poker.