Claes Oldenburg, Il corso del coltello, 1985

Un esempio interessante ce lo offre subito l’Artusi.
La ricetta numero 384 si chiama Fagiuoli a guisa d’uccellini. Il grande cuoco, unificatore della lingua italiana attraverso la gastronomia, racconta di aver sentito chiamare a Firenze in  questo modo dei fagiuoli di cui ci dà la ricetta.
Sarà utile dire che, di uccelli, nemmeno l’ombra, e che uccellini e uccelletti «erano la preda ambita di ricchi e di poveri. Li si catturavano con le reti e con i richiami, o con trappole di ogni genere, archetti e lacci. Rappresentando un boccone gustoso, facile da arrostire…».
In mancanza di uccelli, rimane il loro fantasma.
Nello stesso modo, sono diffusi dappertutto gli «uccelli scappati», dagli oseleti scampai veneziani fino ad arrivare alle sarde a beccafico, pesci notoriamente poveri preparati come l’uccello da cui prendono il nome, goloso di fichi.
Aggiungo anche una zuppa di pesce, di cui parlava un antropologo napoletano, fatta con i sassi raccolti nel mare, dunque, anche qui, niente pesce ma solo il suo odore.
Praticamente, piatti che sono un cenotafio, sapete, quelle sepolture senza le spoglie mortali, che sono un inno all’assenza e che temperano la mancanza.
Una cucina messa insieme con ciò che si ha sottomano, quello che possiamo fare anche noi se ci viene a trovare all’improvviso un amico e non abbiamo più nemmeno un barattolo di pomodoro: un piatto di spaghetti aglio e olio esce sempre, e non è detto che la serata vada malamente.
Anzi, in questi giorni mi viene da pensare che i mezzi di bordo non siano una limitazione ma una risorsa.
È dal bisogno che nasce il movimento, almeno così dovrebbe essere.

Ieri ho passato mezzo pomeriggio a vedere come nasceva e che faceva il più brillante uomo marketing e social media manager che ci sia in giro.
Una laurea in una facoltà che mi sembrava non avesse mai sfornato niente di eccellente, ma lui dichiara di essere andato male all’università: tutto torna.
Una serie di campagne molto ben fatte, alcune geniali, con incarichi che arrivano da clienti talvolta singolari: un’impresa funebre che, grazie a lui, prediligono tutti i viventi; una pasta che io personalmente non ho mai pensato di comprare e che mi è venuta voglia di assaggiare; una catena di supermercati che, almeno dalle mie parti, hanno un punto vendita che mi mette più tristezza di un sepolcro e che ho cominciato a guardare con occhi diversi.

Quando ho lanciato questo blog, pensavo che avrei voluto metterci anche delle interviste, l’idea era di farmi raccontare la riuscita professionale di alcune persone che ammiro, amo molto le storie di successo, mi sembrano un buon antidoto alla paralisi di cui soffre l’Italia.
Però ho perso il registratore, chissà dove l’ho messo, anzi, probabilmente l’ho buttato, la prima idea era di preparare dei file audio con le mie lezioni, ma io non mi riascolto mai, io funziono a orecchio, a istinto e a memoria, e poi voglio seminare a tutti i venti.
Quindi niente intervista a Riccardo Pirrone, ho letto le interviste di altri e lui si presta molto bene a questo gioco di risposte, e vorrei pure vedere, altrimenti che comunicatore sarebbe.
Lui lavora con intelligenza, con originalità e sveltezza, dichiara di ragionare al rovescio, con un’etica molto chiara, ma, al di là di tutto questo, a me, lui, da quello che pubblica, dà l’impressione di agire semplice, per esempio, le foto mi sembrano fatte in casa, insomma, qui i mezzi di bordo sono all’ordine del giorno.
Per la festa del papà, ricorrenza insopportabile quasi quanto quella della mamma, lui mette in scena un ragazzino che fa i muscoli e i muscoli sono due conchigliette di pasta.
Lo slogan dice «Come la pasta, sei la mia forza», c’è pure la virgola, che ci deve stare.
Il ragazzino potrebbe essere suo figlio e l’adulto dietro, che si intravede solamente, potrebbe essere lui, insomma, uno non pensa qui c’è al lavoro un grande fotografo, uno pensa qui c’è al lavoro uno che ha delle idee.
Lui sembra in linea con la nostra cultura, quella che ha prodotto, in ordine sparso, Gio Ponti, Armando Testa, la Cinquecento e Carosello e che oggi produce poco o niente, certe volte penso di essere più creativa io dei miei studenti e questa è un po’ una bestemmia, il mio lavoro dovrebbe consistere nell’occuparmi di quello che creano gli altri, non di sostituirli.
Per un momento ho anche pensato di affidare a Pirrone, che si chiama come il gesuita interlocutore del Gattopardo, la comunicazione della mia attività professionale, ma il mio stile è completamente diverso, anche se pure io sono un po’ tomba e un po’ pastasciutta.
Casomai ci rifletto su e chiedo un preventivo, avrete notizie.

Ieri ho visto un film bellissimo, piccolo, fragile di una fragilità piena di retropensieri, girato con un budget molto ridotto: 60.000 euro in termini di cinema equivalgono quasi a niente, una specie di miracolo di riuscita e di invenzione.

Guillaume Brac, Un monde sans femmes, 2011

Per intenderci, costa questa cifra un cortometraggio di 10 minuti, ma Guillaume Brac, il regista, del quale ho cominciato a parlarvi qui, ne ha cavato un film che dura poco meno di un’ora e che si intitola Un monde sans femmes, Un mondo senza donne.
Affascinato dalla piccola, desueta stazione balneare di Ault, dalla dolcezza della luce, dall’atmosfera malinconica, dopo avervi girato un documentario nel 2010, l’anno successivo decide di ambientarvi un film.
Siamo in Piccardia, nord della Francia e due donne piene di charme, madre e figlia, prendono in affitto il piccolo appartamento di un giovane uomo solitario, maldestro, un po’ pingue, con una calvizie concentrata, come spesso accade, sulla sommità della testa e i capelli un po’ lunghi.
Che il suo sia un mondo senza donne, si capisce benissimo, ma, come sappiamo, queste sono sempre impressioni soggettive, non so, a me questo sembra un mondo pieno di donne, anche qui, infatti, due donne da sole in vacanza.
Ma il mondo, si sa, è esattamente come ci sembra.
Siamo nell’ultima settimana di agosto e nel film non succede niente.
Cioè, succede tutto, anche il mondo è stato fatto in sette giorni.
I tre si frequentano un po’, vanno in spiaggia, una spiaggia piena di sassi, lui insegna loro la «pêche à la crevette», la pesca dei gamberetti, sapete quella cosa con la rete e la cerata gialla, giocano a palla, vanno insieme al mercato.
La madre è esuberante, estroversa, pasticciona, sensuale.
La figlia è imbronciata, legge, è bella e finirà a letto con il protagonista l’ultima notte, come per caso, cercando una connessione internet che in casa non c’è e connettendosi diversamente.
Tutto è accennato, suggerito, il desiderio, l’esplosione della gelosia dura il tempo breve di una scena, lui fatica ad abbandonare l’adolescenza, veste sempre con la camicia a quadrettoni o con le T-shirt con sopra Ben Stiller o Johnny Cash, bevono, i francesi bevono tutti, passano una sera a giocare ai mimi, parlano del più e del meno.

La casa di Patricia e Juliette a Ault

Le donne mangiano gelati, quelle cose secondo me immangiabili che si tengono in freezer avvolte nella carte con la sommità croccante, c’è anche la discoteca, c’è una scazzottata fra lui e Gilles, le gendarme, che è molto diretto e fa delle avances a Patricia.
Il film è girato con pellicola 16 mm: «La pellicola trascende chimicamente le cose, quando invece il digitale ha tendenza a copiare in modo più piatto».
Cinema come ricerca della trascendenza e proviamo a chiamare trascendenza la volontà di vedere oltre quello che le cose rivelano a una prima occhiata.
Brac, che ha girato il film quando aveva trentaquattro anni, ripete che senza gli abitanti di Ault, non ci sarebbe mai riuscito.
Maria Picard, come altri compaesani, interpreta se stessa, lei è la guardiana della residenza della troupe, ha detto che aveva paura, che il giorno delle riprese non voleva nemmeno alzarsi dal letto, ma che ha pensato che quello era l’unico modo che aveva perché il mondo si ricordasse di lei, lei, con la sua vita discreta e modesta, aveva finalmente trovato il modo di lasciare un segno.
Un monde sans femmes, che mi è arrivato al garage e mi è costato il doppio di un film normale, ma ho pensato di farmi un regalo per Ferragosto, è un film di questa qualità altissima e vibrante proprio perché è stato fatto con i mezzi di bordo.
E solo francese sarebbe potuto essere, perché i francesi hanno avuto la Nouvelle Vague, quel momento magico del loro cinema in cui i giovani registi andavano per strada con la cinepresa sulla spalla e facevano recitare gli amici.
Se non sono mezzi di bordo pure questi.

Quando Cenerentola pensa ancora di riuscire ad andare al ballo ufficialmente e non ha il tempo di completare l’abito con nastri e merletti, l’aiutano gli amici consueti, i topolini e gli uccellini, che tagliano e cuciono.

L’abito da ballo di Cenerentola, prima versione

Come è fatto l’abito? Di pezzi rimediati, anche la collana sarà riconosciuta da una delle orribili sorelle e tutto sarà ridotto a straccio, ma proprio da questa prima versione, seppure con l’intervento di una bacchetta magica, uscirà il compenso per la nostra creatura di favola.
Chi non si è sentito nella vita almeno una volta come lei, chi non si è guardato intorno cercando una soluzione in ciò che aveva sottomano.

Inoltre. Io non vedo la televisione da più di due decenni, a un certo momento ho chiuso perché era ora di farlo.

La mia radio più bella, citata dallo scrittore Douglas Kennedy, uno che sa stare al mondo

Sono, però, una grande ascoltatrice della radio e coloro che la radio la sanno fare la fanno con niente, non hai bisogno delle luci, non ti serve il truccatore, basta la voce, il tratto più intimo, privato, immediato, emotivo di ciò che siamo.
Solo con la voce, si crea dal nulla un programma.
E un’atmosfera.

Un sommelier mi ha raccontato che alcuni vini di Pantelleria, di una cantina giovane e coraggiosa, hanno il nome scritto a mano sulla bottiglia perché all’inizio non c’erano i fondi per la stampa delle etichette.

Il Firri Firri, che è la zappa a quattro denti di Pantelleria

Sono i vini più belli che ho visto di recente, impossibile mancarli anche fra centinaia di altri,
anche qui da una costrizione è nata una soluzione, diventata, fra l’altro, il volto dell’azienda.

Ci sono molte cose che costano poco o niente, si scrive pure con un mozzicone di matita su un pezzo di carta sul tavolo della cucina e sono convinta che le donne siano fiorite prima nella letteratura che in altre discipline, più dispendiose da praticare, proprio per questo.
Non costa niente parlare, incontrarsi, fare l’amore, il gratuito che abbiamo a disposizione, utilizzando le parole e i sentimenti, è di una ricchezza incommensurabile, non servono gli effetti speciali, gli effetti speciali vengono a noia, meravigliare stanca e stanca soprattutto coloro che sanno che la meraviglia sta altrove.
E che bisogna andarsela a cercare ed esprimerla con quello che abbiamo a disposizione: che poi sarebbero e sono i mezzi di bordo, quelli che abbiamo tutti a portata di mano e che dobbiamo solo riconoscere e coltivare.