Semel in anno, quello significa.
Una sola volta l’anno.
E poi dice in anno, mica in settimana, oppure in giorno.
Quindi, solo una sola volta l’anno è lecito andare a letto senza struccarsi.
Tutte le altre notti, pure se ha ballato sui tavoli di un locale fino all’alba, oppure ha lavorato perché era di turno, o è stata magnetizzata dalle pagine di un romanzo o da un uomo meglio (peggio) di Romeo, che proprio non si decide ad andarsene («I would I were thy bird», W. Shakespeare, Romeo and Juliet, 2, 2. Esplicito, il ragazzo), una donna, prima di appoggiare il capo sul cuscino, deve procedere a quell’operazione che si chiama struccatura.
Complessa, lunga, fondamentale per mantenere sana la pelle.

Baudelaire ha scritto un bellissimo Eloge du maquillage.
All’elogio del démaquillage, ci penso io.

Per prima cosa, gli occhi.
Dunque, fiale di marca precisa, confezionate in dosi uniche.
Sterili.
All’inizio in una fiala di dosi ce ne erano due, per cui bisognava richiuderla e tenerla dritta. Io la mettevo pure in frigorifero.
Insomma, un procedimento analogo a quello del collirio, che ha tutta una sua serie di regole, lo butti dopo un mese, non deve stare aperto eccetera.
Comunque, a un certo punto hanno fatto le monodosi, che bastano per entrambi gli occhi.
Poi, importantissimo, il supporto.
E qui parliamo dei dischetti di cotone.
100%.
Qualità ottima, niente sintetico, niente pelucchi.
E allora arriviamo a Sephora. Che a Roma è fatta di negozi tutti simili, molto grafici, sempre con la musica a tutto volume e i truccatori che ballano.
Le ragazze sono carinissime, girano con quei grembiulini con dentro settantacinque pennelli e, se non sei rapida a sfilarti, un paio di quelli te li mettono pure in faccia, vuoi per darti una passata di fard al volo (a me il fard non piace e non lo uso, però con loro sono possibilista) oppure per spiegarti in tre secondi come perfezionare la banana, che hanno già visto dove non funziona.
E qui bisogna dire un paio di cose. Già da Sephora hanno avuto per anni delle ottime veline di carta confezionate in cubi color argento, che stavano benissimo nella stanza da bagno e che risolvevano un milione di problemi.
Costo: 1 euro, quindi anche economici. Ne compravo dieci in una volta e mi facevo la scorta.
Poi un giorno «non li fanno più», come non li fanno più, venivo apposta.
Mi sono rassegnata a passare ad altre marche.
Ma ultimamente, quando mi hanno detto che non facevano più i dischetti per gli occhi, mi sono inalberata.
Come, non li fanno più. Quei deliziosi tubi con dentro 70 cotton pads, così grafici, puliti, rigorosi, col laccetto, che stanno da sempre appesi alla manopola del mio termosifone perché quello è il loro posto.
Che significa che non li fanno più.
Forse significa che stanno cambiando la confezione.

Vi risparmio il seguito, ovvero il momento in cui una delle ragazze mi ha detto ecco, questi sono i dischetti nuovi, carini, per carità, solo che li avevano fatti quadrati e che si chiamavano, infatti, Carrés de coton bio.
50 pezzi.
Ho provato a spiegare che se erano dischetti non potevano essere quadrati e che quindi dovevamo cambiare abitudini e vocabolario ma l’espressione di quella povera figliola era così smarrita (tipo esame dove stanno le Fiandre. Una volta una studentessa ha fatto pure la ruga sulla fronte e mi ha risposto «In Germania»), che ho lasciato cadere il discorso.
Ho comprato i quadratini, bella confezione grafica, niente laccetto, quindi addio termosifone, comunque devo ancora inaugurarli perché avevo fatto scorta pure di dischetti.
E me li tengo da conto.

Un dettaglio. Per portare i dischetti degli occhi in viaggio, due sono le possibilità:
1. Per prima cosa si fa tutto un calcolo per cui, mettiamo, in un viaggio di quattro giorni ne servono 8 + 2 nel caso, può succedere, ci fosse un overbooking o la neve, con una notte in più in un albergo di solito avventurosissimo accanto all’aeroporto e si tiene d’occhio la confezione appesa in bagno; quando è arrivata a soli 10 dischetti, si mette nel beauty da viaggio e se ne inaugura una nuova da casa
2. Si comprano al supermercato una o più confezioni di formaggini, quelli singoli, nelle scatolette di plastica. Si butta il formaggino, che di solito è immangiabile e si tiene la scatoletta. Che va in lavastoviglie e ha esattamente lo stesso formato dei dischetti. Quindi li contiene benissimo ed è pure bella da vedersi nella stanza da bagno dell’albergo, semplice, trasparente, con dentro,  immacolati, i dischetti. Il cui numero si calcola esattamente come vi ho detto sopra, 2 al giorno, tenendosi un po’ larghi

(Dovrò trovare una soluzione per i carré bio. Formaggini quadrati non ce ne stanno. Quando vado da Sephora faccio notare pure questo).

Passiamo al resto del viso, ché con gli occhi abbiamo fatto.

Intanto già vi sento, signore e signorine, che state pensando ma quanto tempo ci vuole.
Ci vuole, il tempo.
Calcolate che, se non arriva un WhatsApp divertente e non c’è una telefonata tardiva, insomma, se l’operazione strucco non è interrotta da agenti esterni e rimane quello che è, uno dei rituali della buona notte, con meno di quindici minuti di orologio non se ne esce.
Ma che cosa sono quindici minuti davanti alla promessa di una pelle che ha tutto quello che le serve: portarsela a casa; salvarsela; essere amici con qualcuno per essa.
Ah, la pelle.

Il démaquillage è diverso dal nettoyage. Il primo serve a togliere il trucco, il secondo, a «pulire la membrana cutanea, è più una cura».
Dunque, doppia struccatura.
Baume, ovvero balsamo, poi latte. Oppure olio, poi gel.
Io uso baume + latte.
Si massaggia con le dita, si sciacqua con l’acqua. E pure qui: non fredda, non toglie i grassi; non calda, si porta via il film idrolipidico, che è lo strato naturale che protegge la pelle.
Acqua tiepida, la temperatura del latte appena munto.
(Voi vedete bene che ho studiato il rito e l’argomento).
E qui viene il bello: il cotone. Da anni seguo il suggerimento di un’esperta, biochimica di formazione, cosmetologa, fa i suoi prodotti, prezzi pazzeschi.
Ovvero da anni uso le faldine baby, più grandi dei quadratini assolutamente inutili venduti per lo strucco, più versatili del cotone idrofilo, fosse pure della migliore marca venduto nella migliore farmacia.
Uno dice ma se ti sei sciacquata con l’acqua, a che serve il cotone. A detergere il resto, perché lo strucco non finisce dove finisce il viso, ma continua, giù per il collo e il décolleté, insomma, se uno va a vedere quanta pelle deve pulire la sera, come niente si sente come Sisifo davanti al macigno, che lui porta su e quello cade giù, insomma, a dirla tutta, a me la vita sembra tutta una fatica di Sisifo, pulisci casa e quella si sporca, compri venti chili di agrumi e quelli, dopo una settimana, sono scomparsi dal carrello della frutta, ti sei appena struccata e pulita la pelle e quella, il giorno dopo, sta daccapo, tutta da struccare e da pulire un’altra volta.

Il problema delle faldine baby è uno solo: il baby.
Nel senso che, praticamente sempre, c’è sulla confezione un bambino grasso.

Bambino grasso con pieghe

Ora, io, il bambino, nella mia stanza da bagno, non ce lo voglio, soprattutto se è grasso e sembra uno di quei cani senza pelo e pieni di pieghe che mi fanno orrore e che si puliscono con gli scovolini per i denti: gli Shar Pei, ecco.
Dunque, da un pezzo passo un po’ del mio scarsissimo tempo chiamiamolo libero a cercare confezioni di faldine a me adatte.
Le avevo trovate da Auchan, ci andavo due volte l’anno e riempivo il carrello.

Cane con pieghe, tipo bambino grasso

Ammetto che nel carrello mettevo anche una cassa di Chablis, lo avevano di una simpatica cantina, bella etichetta, prezzo interessante.
La mia fissa per lo Chablis viene dalle faldine.
Certe volte prendevo anche un paio di bottiglie di Châteauneuf-du-Pape.
Esempio di carrello del supermercato di una donna moderna, pieno solo di cose specializzate e fondanti per l’esistenza.

Poi, un giorno, pure lì.
Il bambino grasso.
Vado allo scaffale delle faldine baby e, come dicono loro, il packaging era diventato, come dicono a Napoli, un pacco.
Ovvero una truffa.
Finita la confezione elegante e minimale. Avanti con la ciccia.
Chiedo a una di quelle ragazze che da Auchan girano con i pattini, tanto per dire quanto è grande il posto.
Non sa niente.
Chiedo di parlare con un responsabile, un supervisor, come dicono loro.
Gli spiego tutto. Lui mi guarda tipo dove stanno le Fiandre.
Io gli dico ma non lo vede quanto è brutta la confezione e quanto è grasso il bambino.
Impossibile spiegargli che cosa ci faccio con le faldine e perché sopra un prodotto destinato ai bambini non dovrebbe esserci un bambino.

Già.

Inutile aggiungere la povertà di scelta, per cui quando vado, mettiamo, all’estero, quello serio, e non mi faccio mai scappare, oltre alla visita a un cimitero, anche quella a tre/quattro supermercati, posso farmi un po’ di scorta, con, nella peggiore delle ipotesi, un orsacchiotto e, nella migliore, una grafica minimale, essenziale, che sta così bene nella mia stanza da bagno.

Qui da noi, o è bambino grasso, o è niente.

Cado in uno stato di prostrazione.

Vado nel mio supermercato abituale, quello il cui Direttore vuole regalarmi un cane da quando ho protestato per i cani nel carrello.
Un Chihuahua, come già vi ho detto.
Cerco il Direttore e mi sfogo.
Il nostro uomo è abituato a tutto, è un simpatico, gli ho riportato il sushi che mi insospettiva, le albicocche andate alla malora (in fotografia, visto che le avevo buttate al secchio), un Guwürztraminer che sapeva di tappo (in bottiglia).
Lui mi ha raccontato un sacco di fatti suoi, io lo sono stata a sentire.
Mentre parlo con lui,  passeggiamo fino al reparto baby che c’è da loro.
Prendo una confezione delle loro faldine e pure lì: bambino grasso.
La conversazione è proseguita fra note surreali e note esilaranti.
Non credo che mi abbia capita fino in fondo, però di risate se ne è fatte tante.

Mentre parlavo con lui, certi uomini sono ispiranti, mi viene un’idea.
Compro le faldine baby.
Le porto a casa.
Dico adesso vi sistemo io.

Ricordavo di avere delle buste di carta paglia prese alla cartiera perché volevo fare delle confezioni un po’ diverse per i programmi.
Ricordavo di aver comprato su un sito di merceria vintage delle vecchie buste per caramelle.
Ricordavo di avere ancora in una cartella con su scritto Paris été una bustina di quelle per il mal d’aria, che pensavo di utilizzare in albergo perché in albergo c’è sempre bisogno di altro.

Fuori il bambino grasso

Ho passato una buona mezz’ora a misurare, piegare i bordi, fare prove.
Mi sono confezionata un paio di alternative.
Quella in uso al momento ve la mostro con orgoglio: l’ho fatta con le mie mani, ci ho messo anche un segno minimale, un magic tape a righine che distingue il recto dal verso, trattandosi della bustina Air France, è anche impermeabile, cosa che in una stanza da bagno non guasta.

E del bambino grasso non è rimasta traccia.

Del completamento della struccatura con tonico (che sta in frigorifero) e con tutto quello che segue, gel contorno occhi (in frigo pure quello), siero, crema, olio, parliamo un’altra volta, ormai si è fatto così tardi che bisogna cominciare a organizzarsi la pelle per la notte.

E spero solo che, dopo tutti i discorsi che abbiamo fatto, il Direttore del supermercato non cominci a dire che mi regala uno Sharp Pei.
Lo Sharp Pei, no.

Non lo sopporto, sembra troppo un bambino grasso.