
Markgräfliches Opernhaus, Bayreuth
«Smarrita nel blablà». Una volta stavamo in fila per un luogo d’arte. Una signora che era con me mi chiede se quella davanti è la professoressa C. del Giulio Cesare.
Le dico di sì e che mi onora della sua presenza.
La signora fa una smorfia.
È stata l’insegnante di ginnasio dell’adorato figlio. Che trattava da «braccia rubate alla terra».
Ho pensato che evidentemente aveva ragione.
Non ho potuto dirlo perché quel cuore di madre ancora sanguinava.
E al cuore non era venuto in mente (del resto, se è cuore, che mente volete che abbia) che fosse vero.
E vero lo era senz’altro. Lo penso ormai anch’io della maggioranza dei miei studenti, le ultime generazioni potrebbero serenamente darsi all’agricoltura senza che l’arte ne soffra.
Ieri un ragazzo cui ho chiesto come si chiamava la strada in cui abitava mi sono accorta che non sapeva chi fosse San Rocco.
Se non abitano in corso Garibaldi o piazza Dante, cascano tutti sulla mia domanda.
Sulla quale cascano tutti i somari.
Quello della peste, delle piaghe e del cane, no, vero?
Parlano che fanno paura, dicono «tipo» ogni tre parole, se li riprendi, e io li riprendo, si ammutoliscono e sono sicura che finiscono dallo psicologo.
Non sanno niente, sono pieni di pretese, non capiscono le frasi italiane più semplici, si permettono di usare un linguaggio che se non è triviale, poco ci manca, parlano male dei professori, nella vita vogliono fare cinema.
Alle brutte, il professore.
Alla brutte.
Ma quale cinema, ma quale professore: se non sai mettere due parole una di seguito all’altra, se non hai mai letto un libro in vita tua, se devi ancora comprarti il manuale ed è già suonato giugno, se fra un po’, grazie a Dio, finisce l’anno e la finiamo pure noi con questa farsa delle lezioni on line nelle quali ci sono solo due persone che reagiscono, le domande sono solo relative allo svolgimento dell’esame ed è probabile che tutto il corso si rolli una canna stando ancora a letto.
Per inciso, il blablà è di Montale, ho solo cambiato il genere e l’ho fatto femmina.
Friction. Ho sfilato al mio Uomo-Marketing della Newsletter del venerdì questo termine. Lui lo impiega per descrivere uno stato d’animo di irritazione, arrabbiatura, variazione di umore dovuta a un fatto. Oggi gli ho scritto, cioè ho risposto alla sua Newsletter, quella che lui invia a 4787 persone ma che è come se inviasse solo a me.
E gli ho detto che ho cominciato a usare friction ma che lo cito perché essa è una parola non usuale nel mio vocabolario
Lui scrive friction se si dimentica l’acqua minerale nel carrello al supermercato, ritorna e non la trova più. E indica con friction la complessa situazione mentale, forse traducibile in modo approssimativo con pigrizia, nella quale si trova quello che decide di non farsi un chilometro e mezzo a piedi prima di raggiungere un grazioso laghetto dove lui invece si era recato in escursione.
Il laghetto, come lui aveva intuito, non era «come una spiaggia di Riccione nel 2019».
E lo racconta, sempre a modo suo, nella sua scrittura così moderna, un po’ malinconica, ironica quanto basta, lucida e intelligente.
Penso che le persone intelligenti dicano sempre cose intelligenti.
Penso che le persone stupide dicano sempre cose stupide.
Con tutto che ieri l’altro ho dovuto ricredermi perché il cassiere del fornaio, che è uno stupido, ha detto una cosa intelligente: quando gli ho fatto notare che trovavo meravigliosamente desueto che al banco mi incartassero la pizza facendo gli orecchi alla carta, ha commentato che quello era il modo di una volta di chiudere una confezione senza impiegare nastro adesivo o punti metallici.
Dovrò rivedere la mia posizione a proposito degli intelligenti e degli stupidi.
Comunque il mio Uomo-Marketing è intelligentissimo: vede lungo, analizza, fa collegamenti fra la sua professione e la sua esistenza.
Una volta ha confessato che faceva certe cose solo per poterle poi raccontare nella Newsletter.
E si sente che la Newsletter per lui è importante: è lunga, articolata, ha respiro, sezioni diverse, giochi, riflessioni, quiz, insomma, dentro ci sta un sacco di roba ed essa è un autentico brano di letteratura.
Inoltre arriva sempre puntualissima, il venerdì alle 9 e 0 (zero) qualcosa.
Oggi alle 9:01.
Mi piace mettermi nei panni dell’altro.
Immagino l’emozione di cliccare invio dopo aver messo giù tutte quelle parole, immagino i pensieri, mi leggono, non mi leggono, mi mettono da parte.
Credo che la scrittura abbia in sé qualcosa di profondamente erotico, anche se devo ancora rifletterci sopra.
E credo che metta in connessione le anime.
E credo che lo stato d’animo dell’Uomo-Marketing quando inserisce nello spazio destinatari quella cartella così gonfia di indirizzi, sia vibratile e pieno di sentimenti.
Altro che friction.
Si parva licet. Mi piace paragonarmi a un direttore d’orchestra o a un pianista.
Pure un violoncellista mi sta bene.
O un cantante.
Nel senso che, sempre con le dovute variazioni, loro esauriscono il lavoro di settimane, talvolta mesi, il lavoro, diciamocelo, di tutta una vita, nel lasso di tempo di una sera.
Certe volte spettacolo, altre concerto.
Io nel tempo di una lezione.
Trovo analogie anche nel fatto che loro abbiano un pubblico che può essere distratto: un pubblico che va a sentire la musica per divertirsi, passare un po’ di tempo, perché quella sera non ha di meglio da fare.
Poi però ci sono gli intenditori, quelli che capiscono, apprezzano, dicono cose interessanti.
Ecco, più o meno.
In fase di velocità di crociera, impiego circa otto ore di orologio a preparare una lezione.
Questo significa che sei lezioni a settimana, come mi è capitato in passato di fare e come ho deciso di non fare più, mi strangolano.
Perché non riesco a prendere né fiato né distanze, perché sto con la testa infilata nel sacco, perché per mesi e mesi non c’è mai un’interruzione, le volte che il Lunedì dell’Angelo sono stata sulla lezione del lunedì successivo non si contano.
Poi, però, dall’altra parte, se non ho questo indiavolato ritmo qui, mi annoio, non sento la pressione del lavoro, mi sembra di non concludere niente.
Il confinamento ha portato con sé nuovi modi di stare al mondo.
Ho deciso di ridurre drasticamente gli impegni, ci avevo già pensato a lungo all’inizio dell’anno, fra l’altro ho una corda vocale zoppa, mi dovrei operare ma certo non è questo il momento.
Meglio tagliare sulle ore di emissione della voce.
Poi è vero che sono approdata a rive di pura ossessione.
Quella che piace a me.
Mi sono resa conto che ormai sto quattro giorni su una lezione.
Che ci dormo sopra.
Che la smonto (relativamente, perché di solito ho le idee chiare e so dove voglio andare a parare), la rimonto, aggiungo, aggiusto, cesello.
La metto da parte e la riprendo, prassi sacrosanta perché solo quando ti stacchi da qualcosa cominci a capirla.
Voi provate a valutare la condizione nella quale vi trovate al momento.
E come fai, ti manca il necessario distacco.
Vado pure a farmi una dormitina il pomeriggio, abitudine che fa così bene alla pelle.
Poi riprendo la mia scaletta, le mie immagini.
Rimonto, aggiungo, aggiusto, cesello.
Poi la bravura sta nel non far vedere quello che c’è dietro, uscire in freschezza e naturalezza, anche con il senso, e torno sul musicale, dell’improvviso.
Che di solito improvviso non è manco per niente.
No Friction. Mentre sono qui che scrivo questo post, ho aperta la posta. Che chiudo solo quando condivido lo schermo, cosa che immagino sia normale.
Ogni mail che arriva mi compare in sovrimpressione.
Non me l’aspettavo.
Nel senso che l’aspettavo ma non pensavo che sarebbe arrivata così presto: il mio Uomo-Marketing mi ha risposto, bruciando l’attesa che di solito dura due o tre giorni, ringraziandomi e dandomi della «lettrice più originale e appassionata che conosca».
A parte che proprio non credo che possa venirlo a sapere, però, se lo sapesse, sarebbe d’accordo.
Uso questo episodio per il mio blog.
Come fa lui con episodi della sua vita nella sua Newsletter.
E aggiungo pure la sensazione, totale, di sentirmi avvolta in un filo di seta, secreto da lui, dalla sua intelligenza e dalla sua scrittura.
E, in questo bozzolo, di starci benissimo.