Un filmaccio.
Ho resistito trentacinque minuti, se fossi stata al cinema sarei uscita dopo un quarto d’ora perché già si era capita l’antifona, siccome mi ero comprata il dvd, ho detto forse mi sbaglio.
Non mi sbagliavo.
E mi meravigliano le due persone che me ne avevano parlato bene.
Meravigliano fino a un certo punto.
Lui, sulla brillantezza intellettuale del quale già nutrivo dei dubbi, tutti confermati; ma lei, non so capacitarmi, una donna di quella portata culturale, come si fa a non vedere che è tutto finto.
Ma perché le donne su questi argomenti ci cascano sempre.
Finti i personaggi femminili, improbabile la madre che, a quota quattro figlie, sembra una ventunenne; la protagonista che fa sempre la faccia, quella con la boude, col broncio, che faceva quando faceva Agatha; praticamente, l’unica nella parte è la serva, vecchia e grassa.
Fintissimi i personaggi maschili, tutti che sembrano avere baffi posticci attaccati sotto il naso, attori buttati al secchio, addirittura Louis Garrel senza nei e con l’aria da moscardino.
Ma la regista ha letto il libro?
Ha visto le altre versioni, delle quali io ho perso il conto?
Che bisogno c’era di aggiungere un altro boccone allo spiedino.
Ho dato subito dopo un’occhiata alle recensioni in internet, alle recensioni di cui mi fido, sto dicendo, mica a quelle che si fanno abbindolare dall’argomento.
E infatti il critico dei «Cahiers du Cinéma», col quale mi trovo sempre d’accordo, ha dato una sola stella.
Una stella su cinque.
Pure troppo, visto che mi ha mandato di traverso un progetto e che si era fatto troppo tardi per cambiare film.
E devo ancora vedere l’episodio 50 della mia serie, come se avessi tradito un uomo magnifico con uno che al dunque si rivela robetta.
Piccole donne versione 2019: insieme a Quasi amici, il film più ruffiano della storia del cinema.
Sono tutti invecchiati.
Sto parlando degli uomini. Solo mia madre, che della vita aveva capito poco o niente, e un collega grasso e grigio sostenevano che le donne invecchiano prima degli uomini.
Sono invecchiati di cinque anni, solo che io li ho visti cambiare in due mesi: la barba sempre più bianca, la faccia scavata.
Questi sono uomini più sofferenti che gaudenti.
Se fossero stati più gaudenti che sofferenti, sarebbero ingrassati.
Il regista che fa film d’autore ha portato in porto la navicella che gli era stata affidata con valentia indiscutibile.
Del resto, una delle prime cose che ho imparato in professione, durante una visita guidata difficile, è che la valentia del nocchiero si vede durante la tempesta.
Me lo disse un signore che mi seguiva sempre. Lui intendeva dirmi che avevo resistito bene.
A portare la nave con il mare calmo, sono capaci tutti.
Il grande regista ha fatto quello che doveva fare: un’opera ampia, tragica nel senso della tragicità del destino umano, classica nell’altezza del suo sentire, che si esprime attraverso la presa in carico dei personaggi principali.
E di quelli collaterali, più giovani, possiamo fare a meno.
La drammaticità è roba da adulti.
In un pomeriggio che più grigio non si può, in cui sono troppo stanca per lavorare, con il telefono che emette continuamente suoni e mi avverte che sta per piovere, inserisco nel lettore il dvd 4, Stagione 5, Episodio 10.
Per me il 50°.
Quello al quale ho anche pensato di non avvicinarmi, per tenermi nella mente la ciliegina ancora da mangiare.
L’atmosfera è onirica, ha sapore di rêverie e di fantasmi, tutte le vicende si chiudono, il ritmo è lento, i piani sono lunghi ed evanescenti, c’è un’evidente rottura di stile, voluta, del resto, dal creatore, che non intendeva mettere mano alla conclusione.
E se il creatore ha chiamato il regista di film d’autore, è perché voleva da lui quello che lui dà sempre: una qualità altissima, una montata di livello tale che davanti a essa si resta annichiliti.
A paragone di quello che succede dalle nostre parti, poi.
Dove non succede niente, dove tutti rimestano, quando va bene scopiazzano, mandano le repliche con la scusa che non ci sono spettacoli.
«Asshole».
Prontamente tradotto con Connard.
Ecco, così si fa, non quei giri di parole, non ma che è successo, non ma scusa, non capisco.
Una bella sintesi.
Jonas, il ciccione con il neo sulla bocca, è costretto a lasciare Vicky perché sospetta che lei lo abbia agganciato solo per infiltrarsi.
Le manda dunque una mail asciutta e straziante, in cui si dichiara anche suo per sempre.
E la risposta di lei è immediata.
Quando c’è dietro un grande regista.
Anche se non sapremo mai se è vero che lei.
Poco importa.
Il flou ha anch’esso una ragione di essere.
Il banchetto al quale sono invitati tutti i morti, quelli diretti e quelli di sponda, è un gran bel riassunto.
Di che cosa Malotru ha fatto in vita sua, sotto tutte le sue identità, con tutti i suoi errori. Insomma, come ogni tanto ci chiediamo tutti: perché sono arrivato qui.
E sul tavolo al quale tutti sono presenti, passa un cane, con i testicoli oscenamente in vista come sempre accade con i cani, è il cane che ha pisciato in faccia a Guillaume/Paul/Pavel/Pacha/Malotru e la testa del quale, tagliata, gli è stata buttata addosso durante il trasporto in una bara.
Citazione de Il Padrino, non mi ricordo quale numero, comunque l’ho letto da qualche parte.
Che cosa provano i personaggi. Intuiscono che si può costruire solo sulle macerie, sono continuamente confrontati con il dualismo lealtà alla causa/sentimenti, avanzano mascherati, mentendo, corrono costantemente il rischio di essere messi a nudo, seducono professionalmente, usano e abusano della manipolazione.
Sono, a farla breve, anime dannate in cerca di espiazione.
La malinconia è il loro stato d’animo fisso.
Per non parlare della solitudine.
Il tutto raccontato con una scrittura che io non trovo da nessun’altra parte.
In un mondo di vocali mangiate nei messaggi; di turpiloquio usato come intercalare, come punto e virgola, dice la signora Anna della lavanderia in cui porto a stirare le lenzuola, e lei è una donna di stile; in un mondo atrofizzato, reso analfabeta da una comunicazione colpevole; in un mondo in cui la parola sembra non potere trovare asilo da nessuna parte, assistiamo al trionfo della scrittura.
Che ha un metodo e dei principi, lo dice il creatore.
E che è, ve lo dico io che la amo, una delle cose più belle che ci siano sulla faccia della terra.
Ma, torniamo al punto di partenza.
C’è posto per i sentimenti?
Pare di sì.
È una donna, Marina/Phénomène/Rocambole, a dirlo.
Ed è meglio, quando i sentimenti ci sono.
Del resto, se non ci sono, «on ne couche pas».
E di questo, di qualunque sentimento, sublime o a straccio, stiamo parlando.
La siriana viene uccisa da un killer a un semaforo.
È la vendetta del russo cattivo che si è suicidato.
Le spara uno che sembra il parente grasso di quello di Goldfinger, Oddjob, che è arrivato a Parigi e ha frugato in un appartamento dove era stato il russo e ha trovato le istruzioni per la vendetta post mortem.
Meglio così.
Non ci sarà vita ordinaria, del resto, di una vita ordinaria, che te ne fai.
Soprattutto loro, che vivono un’esistenza leggendaria, come potrebbero, andiamo su, svegliarsi tutte le mattine accanto alla medesima donna e sopportarne le ubbie e i capricci.
In un vortice finale, davanti al quale non colano le lacrime solo perché la solennità dell’umore lo sconsiglia, vediamo Malotru accasciato su un prato, all’aperto, mentre va Cold Cold Ground di Tom Watts.
Never slept with a dream before he had to go away…
And the dog that I’ve found
Break all the windows in the cold cold ground
E dunque, come è possibile una vita senza un’altra identità.
E, se è possibile, che vita è.
Le bureau des légendes: la cosa più bella che abbia visto su uno schermo in vita mia.