Abito vicino a piazza Re di Roma e una volta mi capitò di vedere anteposto il nome di Totti a quello della fermata della metropolitana.
Così, l’ignoto tifoso, approfittando dell’invariabilità del sostantivo, aveva dato a Cesare quel che era di Cesare.
«Totti Re di Roma» in città l’hanno pensato tutti per molto tempo.
(Esclusi i laziali, dei quali al momento non ci occupiamo e con i quali mi scuso).
Il Capitano è considerato l’inventore del cucchiaio calcistico e gli episodi precedenti, seppure noti, sembrano avere meno importanza.
Tecnicamente «Il tiro a cucchiaio o rigore a cucchiaio…, se ben eseguito, fa sì che il pallone scavalchi letteralmente il portiere…è un tiro alto e lento così chiamato perché la traiettoria assunta dalla palla prende la forma di un cucchiaio rovesciato. Nella pratica, consiste nel tirare il pallone con il collo del piede, colpendolo nella parte inferiore. È un tiro rischioso e quindi praticato di rado dai calciatori».
Ma, come dicono i telecronisti quando la partita ha un guizzo inatteso, non finisce qui.
Mi sono informata: «Il rigore migliore è quello tirato dove nessuno se lo aspetta: quindi al centro della porta. Il cucchiaio non ha nulla di folle, anzi, è esercizio di pura ‘razionalità strategica’… Sebbene solo 7 volte su 100 i portieri restino fermi al centro della porta, i tiri calciati lì sono soltanto il 17 per cento. Tirare al centro ci dà l’81% di chance di segnare, contro il 70% dei tiri a destra e il 77% di quelli a sinistra. Eppure, i calciatori tirano angolato».
O, almeno, questo facevano prima di leggere questo articolo del mio blog.
E se pensate che in vita vostra mai vi capiterà di tirare un rigore, cosa che penso anch’io nella vita mia, potete sempre dare qualche consiglio a un calciatore.
Con le statistiche che vi ho fornito farete la vostra figura e lui è probabile che metta finalmente quella benedetta palla in porta e che noi si possa parlare d’altro.
Calcio e cucchiaio sembrano essere incontrovertibilmente maschi e maschili, ma sul genere non si può mai essere sicuri al 100%.
Ed ecco quindi che il calcio femminile in questi giorni del giugno 2019 si sta facendo strada a suon di successi e che può venire in mente che il cucchiaio abbia in sé un’anima che è tutta femmina: non raccoglie, forse? Non ha una forma concava, tale e quale, simbolicamente, a quella delle donne? Non è, fra le posate, il contenitore per eccellenza?
E i francesi lo sanno da un pezzo, visto che da loro si dice «la cuillère» e che Amélie è nota anche perché fra i suoi piccoli piaceri c’è quello di rompere la crosta della crème brulée «avec la petite cuillère», che da noi sarebbe un cucchiaino.
L’umore, al di qua e al di là delle Alpi, è quindi tutt’altro.
Alain Ducasse, chef stella fra le stelle, ottimista a oltranza, quindi da frequentare smodatamente, quando concepì un tipo di ristorazione che andasse al di là dei suoi ristoranti famosissimi di Parigi, Monaco e New York e anche dei suoi «cari alberghi provenzali», pensò a una sorta di catena dove fosse possibile essere accolti in un ambiente esteticamente caloroso e non convenzionale e gustare una cucina contemporanea, creata e servita da professionisti di alto livello.
Il nome? Spoon.
Esotici, profumati, spaesanti, sono luoghi nei quali bisognerà fare un salto.
Il cucchiaio, impiegato largamente prima della diffusione della forchetta, è stato per secoli l’unico utensile individuale a tavola di importanza pari a quella del coltello; in più è indispensabile in cucina, per travasare, girare.
E per misurare.
Posseggo anch’io un gioco di cucchiai dosatori, acquistato in uno dei miei attacchi di passione culinaria.
Che vanno e vengono, spariscono e ritornano.
E, a proposito del dosaggio, ovvero della posologia, vi riferisco un piccolo aneddoto narrato dal veterinario della mia ultima gatta, un uomo di pelo rosso, possente, simpatico, che non si sarebbe fatto intimidire nemmeno da una belva, figuriamoci da una micia di città.
Ebbene, la storia era quella di una ricetta per un cane sulla quale il collega aveva scritto «Un cucchiaino da caffè» di, mettiamo, un ricostituente per 15 giorni.
Trascorse le due settimane, la proprietaria era tornata con l’animale per il controllo e, nervosa e preoccupata, aveva detto «Ma dottore, non gli farà male, al cane, tutto questo caffè?».
Sufficientemente surreale per essere autentica, comunque adeguata a quell’ambiente in cui è normale ustolare, barrire, crocchiare, zigare, ciangottare, ragliare, bubolare, grugnire, pipiare, ogni volta che ci penso, mi fa ridere.
Il cucchiaio si usa a tavola per portare il cibo alla bocca. Questa è la regola dettata dal mio galateo moderno, inglese, agile, spregiudicato e possibilista. «Il cucchiaio è tenuto dalla mano destra, sostenuto dal terzo dito e assicurato fra il pollice e l’indice. Ricordare sempre, quando si consuma una minestra o un pudding, di mangiare dal lato del cucchiaio e mai, torpedo-like, dalla fine dell’utensile».
Immagino che stiate tutti facendo le prove. Guardate anche con quest’ottica un film. Se racconta di un pasto di persone bene educate, possibilmente aristocratiche, il verso del cucchiaio è sempre rispettato.
Superfluo aggiungere che la minestra (soup) è sempre mangiata e mai bevuta. E che, invece, il consommé («un brodo che va e passa di moda e che al momento è ‘in’») fa eccezione. Esso viene di solito servito in un piatto speciale con dei manici e può essere bevuto direttamente.
E pure per la tavola, siamo a posto. Avendo evitato anche la trappola del verso del cucchiaio, col quale, si capisce, non si scherza.
Adesso voglio farvi vedere i miei cucchiaini e cucchiai prediletti.
I cucchiaini, tutti con un po’ di storia, sono utilizzati dalla prima colazione al dessert, con dei turni ben fatti; quello in corno, vecchissimo, per l’uovo à la coque. Servirebbe anche per il caviale, ma non lo mangio per via di un’intossicazione che mi ha fatto passare ogni voglia al riguardo.
I cucchiai di legno, di marca danese e frutto delle ricerche sugli utensili di tradizione del fondatore di un’azienda che lavora con passione, stanno un po’ fuori, un po’ dentro il cassetto delle posate, a seconda dell’umore e dell’aspetto della mia cucina.
Ma la mia cucchiarella prediletta, quindi, femmina, perché così si usa dalle mie parti, è quella che vi mostro in terza posizione: piccola, consumata, l’ho sottratta con destrezza dalla casa di mio padre quando sono andata a vivere da sola. Credo che fosse addirittura di mia nonna, quindi ha un bel po’ di anni e, soprattutto, ha girato un bel po’ di sughi. Perché questo è il suo utilizzo unico e principale e i risultati sono sempre confortanti.
Lavata rigorosamente a mano, come tutte le altre posate che vedete, ogni tanto mi fa prendere uno spavento perché si va a ficcare in posti non ortodossi, dove, ovvio, ce la metto io, visto che non consento a nessuno di toccarla, però ormai mi sono convinta che abbia una sua autonomia e che quindi decida se vuole stare in mostra oppure se ha voglia di riservatezza.
E voglio anche presentarvi i miei cucchiaini da mostarda, rigorosamente francesi e puntualmente buttati via con i resti della cena, nonostante tutta l’attenzione che ci metto a sparecchiare.
Succede, che devo farvi. Si ricomprano.
Una vita propria sembra avere lo straordinario «gran cucchiaio di legno» (in francese «une grande cuiller en bois») di fattura contadina che Breton incontra nel corso di uno dei suoi itinerari misteriosi, onirici e desideranti che hanno come sfondo Parigi.Ci racconta come andò in L’Amour fou, titolo intraducibile e non tradotto nemmeno nella versione italiana.
Il grande poeta, saggista, inventore del Surrealismo, se ne va a curiosare al mercato delle pulci, scenario che ritorna e la ripetizione del quale si scusa da sola per la «profonda, costante trasformazione del luogo».
La sua è una «scelta elettiva», che si orienta sul grande cucchiaio che vi mostro in una fotografia di Man Ray. L’oggetto «di forma piuttosto ardita, con un manico, quando…era appoggiato sulla parte convessa, si sollevava di tutta l’altezza di una scarpetta ricavata in un solo pezzo con essa».
Lo acquista subito.
E lo porta a casa, dove il cucchiaio sembra assumere altri significati: diventa la pantofola di Cenerentola, poi la zucca-carrozza, poi ha in sé anche il valore «di uno degli utensili da cucina che aveva dovuto maneggiare» lei «prima della sua metamorfosi».
In compagnia di chi era Breton nel suo girovagare al mercato delle pulci? Qui il nostro cerchio si chiude, perché lui era in compagnia di Giacometti e perché l’artista è stato per me il primo suggerimento della femminilità del cucchiaio.
Ecco per noi dunque la Donna Cucchiaio, che vediamo nella versione in bronzo.
Giacometti ha venti anni quando si stabilisce a Parigi per realizzare la sua carriera di scultore.
Ha studiato la scultura classica, si è avvicinato ai primitivi, qui esplora un rituale degli abitanti della Costa d’Avorio, che in alcune cerimonie utilizzano la parte concava del cucchiaio equiparandola a un utero di donna.
Insomma, «un cucchiaio è una donna» e «una donna è un cucchiaio».
Avete ancora dei dubbi sul sesso del cucchiaio?
Io, no.
Noi nasciamo qualche volta con la camicia e i francesi qualche volta nascono «avec une cuillère d’argent dans la bouche», ovvero con un cucchiaio d’argento in bocca.
E il Cucchiaio d’argento è anche un libro storico e importante della nostra storia editoriale, pubblicato per la prima volta nel 1950 con l’intenzione di restituire agli italiani che uscivano dalla guerra il gusto di cucinare e di mangiare. L’edizione che vi mostro, bellissima, è del 1964.
E «dal cucchiaio alla città» è uno slogan felice, che diventa la felice formula per una modernità di progettazione che tutto riguarda e che va dall’oggetto quotidiano al luogo della nostra vita comune.
E il cucchiaio è anche una posizione di quando si fa l’amore, mica devo stare io a ricordarvelo.
A questo proposito, inserisco una deliziosa vignetta che definirei onnicomprensiva e che sarebbe stata bene anche nell’articolo dedicato al sesso delle forchette, che potete leggere qui.
Ma l’ho trovata solo adesso.
Inoltre: sia italiani che francesi certe volte sono da raccogliere con il cucchiaino («à la petite cuillère»), condizione che spero non sia la vostra alla fine della lettura del mio articolo.
Che attacca con un’immagine geniale di uno dei nostri massimi pubblicitari e vi porta in giro per un settore del cassetto delle posate che, di questo sono certa, da oggi in poi non avrà per voi più nessun segreto.
Anzi, che di segreti ne avrà moltissimi, perché sarà carico di storie, di narrazioni, di suggestioni, di suggerimenti e di poesia, tutte faccende, stati d’animo, sentimenti che rendono la vita diversa, con l’arte che si infila in tutti gli interstizi e che noi andiamo a scovare insieme e insieme andiamo a vivere e a raccontare.