Avevo uno zio militare nell’Aviazione, simpatico, singolare, era il fratello più giovane di mia madre e ogni tanto la veniva a trovare, lei, a Roma, lui di stanza qui e là.
Si stirava la divisa da solo, un po’ perché era sempre in giro e nei primi tempi non aveva ancora messo su famiglia, un po’ perché lui stirava benissimo, meglio di chiunque altro.
Avevo un’amica, d’accordo, un po’ maniaca, che impiegava quarantacinque minuti a stirare una camicia del marito, anche lui pilota, ma civile.
Una volta mi sono fermata davanti a una vetrina di una lavanderia a New York e mi sono messa a guardare un cinesino che stirava, se non ha impiegato quarantacinque minuti pure lui, ci è andato vicino.
Con tutta quell’apparecchiatura professionale, vapore che usciva da tutte le parti, passava e ripassava collo e polsi, ero come ipnotizzata, il lavoro non finiva mai.
Domani riapre la signora Anna, titolare di una delle mie due lavanderie, quella sotto casa mia.
Le porto le lenzuola da stirare da un paio di anni, da quando cioè ho fatto la prova, era luglio, la domestica stava in vacanza e volevo alleggerire un po’ l’economia della casa.
Quando non c’è la signora Anna, ovvero per tutto il mese di agosto, il quartiere mi sembra vuoto.
Ammetto che da un paio di giorni giro intorno alla sua saracinesca ancora abbassata, insomma, ho voglia di vederla.
La gestione della lavanderia della signora Anna è tutta al femminile. Lei viene da una famiglia di commercianti, il padre aveva tre profumerie in giro per Roma.
Dopo averlo aiutato da quando era bambinetta, lei, a oltre cinquant’anni, ha aperto la sua attività, imparando tutto da zero.
Si è cioè rimboccata le maniche a un’età in cui di solito le donne cominciano a pensare di tirare i remi in barca, laddove a me sembra sempre e comunque troppo presto.
La signora Anna sta su piazza da più di vent’anni, certe volte arriva al negozio alle sette e trenta del mattino, fa finta di fare una pausa all’ora di pranzo ma, se le bussi, ti apre e la trovi fino a dopo le diciannove.
Mi dice sempre che non c’è bisogno che io telefoni, tanto lei mi aspetta.
Ha tre stiratrici, una delle quali è sua coetanea e ha insegnato il mestiere a tutte; l’altra è la nipote che faceva l’autista di pullman e ha perso il lavoro; la terza è una signora che la mattina si alza alle cinque e va a lavorare in un’impresa di pulizie e alle quindici attacca da lei.
Tutte le volte che ho dei dubbi sull’Italia che produce, penso a loro quattro.
Tutte le volte che ho le paturnie e cerco qualcuno che me le faccia passare, scendo un momento da loro a fare due chiacchiere.
Lo so che fa paese, anche se io in paese non ci ho vissuto mai, ma fa anche città, laddove prediligo la città per l’anonimato che offre ma anche per queste relazioni di vicinanza che mi incantano.
La signora Anna è la migliore narratrice che io conosca.
Ha la capacità di trasformare tutto in avventura, dai furti subiti in profumeria alla gestione delle sue possenti macchine, le dico sempre che dobbiamo organizzare una seratina in cui lei spiega alle donne nullafacenti e inette come si sta al mondo.
L’organizzazione di una lavanderia è una cosa pazzesca, mi fa venire in mente quel bellissimo film indiano che si chiama Lunch Box, in cui si racconta del sistema per cui, nella Mumbai di oggi, un piccolo esercito di trasportatori che usa svariati mezzi ritira scatole del pranzo preparate dalle mogli e le consegna ai mariti impiegati negli uffici.
L’università di Harvard lo ha studiato, prendendolo a esempio per le aziende.
Il film nasce da un errore di consegna, fatto rarissimo, chissà se se lo è inventato il regista, che mette in moto una vicenda piccante di spezie e tenera di sentimenti.
Uno vede il film e gli viene voglia di cucinare.
Così come uno guarda l’organizzazione della signora Anna e gli viene voglia di stirare.
Da lei c’è tutto un sistema di marcature, nastrini, etichette, tagliandi, ricevute, numerazione, scontrini, ciascun pezzo con un colore specifico legato alla cronologia, che consente di ritrovare al volo un indumento.
Pinzatrici con punti ondulati, levapunti, nastro adesivo, lei è come il capitano sulla tolda di una nave, ogni tanto le dico vengo giù e mi siedo qui e lei mi racconta come funzionano tutti questi pezzetti di carta.
Mia madre mi ha insegnato a stirare cominciando dai fazzoletti. Ho stirato fazzoletti per tutta l’infanzia, poi sono passata a capi più complessi.
La mia domestica non ama stirare, sostiene che da ragazzina a casa sua, in Calabria, non c’era nemmeno l’elettricità, inutile dire che la perseguito perché pieghi gli asciugamani di lino alla perfezione e perché stia attenta quando fa le fettucce dei canovacci della cucina.
Ultimamente ha ammesso che a casa sua non stira, ha fatto tutto un discorso in odore di paradosso sostenendo che da lei nessuno la aiuta nei lavori di casa.
Anche lei non vede l’ora che la signora Anna ritorni.
In vita mia ho avuto più di una lavanderia artigianale. Chiudono una dopo l’altra, si tratta di lavori complessi, super specializzati, che si fanno per passione e con amore.
Il signor Roberto, che aveva la lavanderia a Borgo Pio, quello che mi ha raccontato un sacco di cose sui frac dei direttori d’orchestra del vicino Auditorium di Santa Cecilia, mi parlava spesso anche del cameriere di un notissimo produttore cinematografico, che arrivava da lui tenendo con la mano destra e con quella sinistra le cassettiere con dentro le camicie da lavare e stirare. E mi faceva il gesto di quello che camminava sostenendo il peso e stando attento a non urtare niente.
La titolare di un’altra delle mie lavanderie, che stava in via dei Prefetti, stirava le camicie chiudendo un bottone sì e uno no e inserendo un delizioso papillon di cartone sotto al colletto.
Un uomo con una professione e una qualche vita mondana, si sa, sono circa 7/9 camicie a settimana.
C’è anche quel dispositivo buffo che asciuga e stira, che però a me fa impressione. La signora Anna mi dice che non c’è paragone con una stiratura tradizionale con l’appretto.
Lei ha tutta una clientela di uomini che vivono da soli o con mogli che non vogliono avere l’incombenza della stiratura.
Certo è che se un marito fa l’operaio, tutto il bucato ha un altro senso.
Comunque, la sera gli uomini sono tutti sporchi, qualunque lavoro facciano.
Diciamo che lì sta pure parecchio del loro fascino.
La stiratura deriva direttamente dal processo di nettatura, che è una grande metafora della vita: cucini e quelli mangiano; lavi e stiri e quelli si sporcano; rigoverni la casa e te la buttano tutta per aria.
Stirare, fra i lavori domestici, è il più specializzato.
È anche uno di quelli che ti danno più soddisfazione.
Ci sono pure le stiratrici con il rullo, alle quali si lavora da seduti, ma mi fanno impressione pure quelle, anche se ho visto donne che le utilizzavano con un’abilità straordinaria.
Io mi stiro tutte le mie cose da sola, non voglio che nessuno metta le mani sul mio guardaroba.
A meno che non sia, come già raccontato più volte, il signor Michele, titolare della mia seconda lavanderia, quella per raggiungere la quale devo prendere la macchina e pianificare mezzo pomeriggio di viaggio.
Lui è quello dell’alta moda, che ha dato l’ultimo colpo di ferro ai Valentino prima della mostra all’Ara Pacis.
Lui è quello irascibile e generoso, io gli porto un pensiero per il Natale e lui ricambia. Gli ho detto mille volte che non deve, che la mia è una forma a senso unico di ringraziamento.
Minaccia continuamente di chiudere bottega e di ritirarsi al paese, gli dico non sia mai, e poi come faccio, chi si occupa dei miei blue jeans, per i quali lui mi prende sempre in giro, per carità, non devono vedere l’acqua, ma che mi riconsegna in ventiquattro ore d’orologio.
Da lui le stiratrici sono quattro e fanno cose inenarrabili: sepolte in un locale seminterrato, ogni tanto emergono sudate con qualche abito tenuto per la stampella.
Prima delle feste, io porto loro dei piccoli doni e loro salgono per salutarmi.
Il sapore di un romanzo di Zola ci sta tutto.
Da quanto detto, si sarà capito che sono schierata dalla parte del ferro da stiro.
Che, lo dice pure la pubblicità, insieme alla tavola destinata al medesimo lavoro, fa felici le donne e consente loro di esprimere da subito qualche desiderio per il Natale.
E se lo dice la pubblicità, sarà senza alcun dubbio vero.
E poi guardate qui, quanta grazia. La giovane domestica intenta al suo lavoro sembra una creatura in contemplazione della bellezza del risultato.
Dimenticate la fatica, dimenticate il tempo che ci vuole, lasciate perdere coloro che vi dicono che si tratta di un lavoro inutile, il mondo sgualcito è brutto, già è tanto pesta la vita, la sola possibilità di darle un colpo di ferro e di renderla più distesa mi sembra una buona prospettiva per la stagione autunnale che avanza, quella che rinnova in tutti il gusto di vestirsi e che restituisce la vedette agli uomini con la camicia senza una grinza e alle donne che, se pure vogliono traviarsi, quella brutta piega, che può essere anche parecchio divertente, certo non la vogliono sugli abiti che hanno addosso.